Auschwitz, Gaza e il destino della poesia
L’alzare del braccio legato all’endovena, il liquido che ancora scorre nel corpo in fiamme: è l’ultimo sussulto del ventenne Shaban, sulla brandina della tendopoli divenuta fornace; la richiesta di aiuto per sé, e per la madre Ala, accanto a lui carbonizzante. La mano disposta ad afferrare la sua, nell’incendio, si è appena cremata: quella del padre Ahmed Al-Dalou, affondata tre volte nell’incandescenza per estrarre altri figli, un bambino e due ragazze. “Perdonami”, grida Ahmed al figlio, “Non riesco a salvarvi.”
Quel braccio alzato, legato al sottile tubo, rimarrà lì sospeso per sempre, nella memoria di chi ha visto; la notte finale di Shaban Al-Dalou marchiata a fuoco nelle pupille.
Era lo scorso 14 ottobre quando l’esplosione del missile israeliano ha investito i convalescenti nello spiazzo dell’ospedale Martiri di Al Aqsa, a Deir Al-Balah; Shaban e la sua famiglia, profughi come tutti a Gaza, sopravvivevano in quella tendopoli dopo il ferimento del ventenne nel bombardamento di una moschea.
Inseguito per tutto un anno da proiettili e missili; colpito in una moschea mentre pregava, poi sulla brandina di un ospedale; è trapassato ascoltando l’agonia della sua mamma, nella più atroce delle sofferenze. Morendo consapevole che non avrebbe più protetto i suoi fratelli, né infusogli la speranza di uscire da quell’inferno.
Dallo schermo del computer il calore mangiante non lo sentivo sulla pelle; all’opposto, mi è corso un gelo nel sangue, un ideale assideramento che si è espanso fino al cuore. In quell’endovena scioltasi tra lapilli non c’era solo la vita di Shaban, ma anche la poesia del mondo: come è possibile scrivere o leggere versi dopo aver assistito a un simile supplizio? Ecco la mia reazione alla somma dei mali della guerra da Israele a Gaza, più una morte, quella: la domanda adagiata sul fondo della coscienza, ispirata dalla celebre frase di Theodore Adorno, sociologo tedesco di origine ebraica: “Scrivere poesia dopo Auschwitz è un atto barbarico”.
Era il 1949 quando proferì il drastico ammonimento sul moto a indagare i fatti umani – la poesia questo è; chi si cimenta, sappia che esiste un male assoluto come un campo di sterminio: rischia di creare una realtà a uso e consumo di chi quel male non l’ha vissuto, e al quale non potrà mai avvicinarsi; il tentativo poi di rappresentarlo, Auschwitz, equivale alla profanazione del dolore di chi fu spintonato nell’abisso. La salvezza non esiste, tanto meno la troverete nella poesia.
Adorno aveva gettato quella frase in un ampio discorso sulla critica culturale, impegnata a districarsi tra cultura e barbarie all’interno della società di massa, in una deriva sempre più materialista. Inaspettatamente, la frase si è calata come una sonda nel subconscio dell’era post-II Guerra Mondiale, illuminando un peso condiviso, che però non trovava l’espressione giusta per manifestarsi; un sentimento collettivo emerso con una tale prepotenza da far debordare la frase dal suo contesto originale, con una formula che Adorno nemmeno aveva pronunciato: “Dopo Auschwitz è impossibile scrivere poesia”.
I fatti umani avevano raggiunto un luogo di rovina e orrore così inconcepibile, che poteva essere misurato solo con un’idea altrettanto inconcepibile: annullare il moto della conoscenza di sé.
Il sociologo aveva trovato una chiave per decifrare quel male assoluto: se la poesia è indagine intima, eternatrice della nostra vita interiore, allora si deve sapere che può essere indistricabile, in una società complessa, dallo sterminio di un intero popolo; come del resto lo è dalle imprese umane più virtuose. Poesia viene dal greco, significa “fare”; degli uomini “hanno fatto” Auschwitz, mettendoci dentro altri uomini: era la “soluzione finale” formulata nel 1942 a Wannsee, vicino a Berlino, quando i nazisti decisero l’annientamento degli ebrei.
Da almeno due secoli la Germania era terra di alta poesia. Composte tra il 1912 e il 1914, Elegie Duinesi di Rainer Maria Rilke esordirono per un editore di Francoforte appena 20 anni prima di Wannsee.
“Voci, voci. Ascolta, mio cuore, come soltanto i Santi / ascoltarono un giorno: il grande richiamo / li alzava dal suolo; ma essi, impossibili, / restavano assorti in ginocchio: / così ascoltavano. Non che tu possa mai reggere / la voce di Dio. Ma lo spirito ascolta, / l’ininterrotto messaggio che dal silenzio si crea. / Ecco fruscia qualcosa da quei giovani morti e viene a te. / […] / Che vogliono da me? Ch’io debba rimuovere lieve, / quella parvenza d’ingiusto che turba un po’, talvolta, / il moto puro dei loro spiriti.” [1° Elegia, 54-68]
Per il lirico austriaco scrivere versi era l’ultima risposta all’imperante povertà spirituale di quell’epoca, in una società massificante e disumanizzante; prova ne fu la carneficina della I Guerra Mondiale, scoppiata nel 1914: la poesia rimaneva l’unica realtà valida, non mera rappresentazione, in un dialogo impossibile con una umanità irrimediabilmente condannata.
“Madre, tu lo facesti piccino, sei tu che gli desti / principio, / per te era nuovo, tu chinavi ai suoi occhi nuovi / il mondo amichevole, e gli scansavi l’estraneo. / […] / Così, rasserenato, nel suo letto, / solvendo la dolcezza della tua lieve figura / sotto le palpebre assonnate nel gusto del primo sonno -: / pareva difeso… Ma dentro: chi contrastava, / chi frenava in lui i flutti dell’origine? / […] / Amava. / Amava il suo intimo, il selvame del suo intimo, / quell’originaria foresta ch’era in lui, sulla cui muta / rovina / stava, verde e luminoso, il suo cuore. Amava. Quando / lasciava il suo cuore, andava oltre le proprie radici, alla potente origine, / dove la sua piccola nascita era già sopravvissuta. / Amando / affondava nel sangue del più antico, nelle forre dov’era / la paura / sazia ancora dei padri. E ogni / orrore conosceva lui, ammiccava, era come d’intesa. / Sì, l’orrido sorrideva…, di rado / hai sorriso così teneramente tu, mamma. E lui come / faceva / a non amarlo, se gli sorrideva. Prima di te / l’aveva amato, perché già quando lo portavi / era sciolto nell’acqua che fa lieve il germoglio.” [3° Elegia – 26-65]
Qui Rilke parla dell’uomo in generale, fin dai primordi: nato sulle macerie di violenze antiche e recenti distruzioni; e destinato a viverne di nuove, forse a compierle direttamente. Non può sfuggire che il poeta scriva questi versi nella seconda decade del ‘900, quando germogliava la leva che fungerà da manodopera di Hitler: saranno quei futuri uomini a “fare” Auschwitz.
Con Elegie Duinesi la poesia, dal cuore culturale della Germania, aveva lanciato un disperato avvertimento contro l’orrore incombente, culminato con l’Olocausto.
L’acceso dibattito sulla possibilità o meno di scrivere poesia dopo Auschwitz “costrinse” Adorno a una precisazione – non già sulla frase originale, ma su quella nata dalla distorsione del suo pensiero; il sociologo concesse la validità della poesia come testimonianza dei sopravvissuti:
“la perenne sofferenza ha diritto di essere espressa tanto quanto ce l’ha il torturato di urlare”.
Del resto, Primo Levi aveva composto liriche sulla sua esperienza ad Auschwitz già pochi mesi dopo il ritorno in Italia.
“Ascolta” è il titolo della poesia che apre il memoriale “Se questo è un uomo“; come se Primo fosse una delle “voci” percepite dal cuore di Rilke, chiamato a “togliere la parvenza di ingiustizia che disturba i moti dei puri spiriti”.
Levi si sollevò dopo Auschwitz anche rivolgendosi al poeta austriaco, a cui intitolò un componimento, R.M. Rilke, datato 29 Gennaio 1946:
“[…] sopra i libri consumeremo l’ore / od a scrivere lettere lontano / lunghe lettere della solitudine […]”
La poesia fu la salvezza per il “salvato” al campo di sterminio. Nemmeno un mese dopo, scrisse questi versi senza tempo:
“Vorrei credere qualcosa oltre, / oltre che morte ti ha disfatta. / Vorrei potere dire la forza / con cui desiderammo allora, / noi già sommersi, / di potere ancora una volta insieme / camminare liberi sotto il sole.”
Questo componimento è intitolato 25 febbraio 1944: il giorno in cui Primo Levi passò sotto l’arco “Arbeit macht frei – Il lavoro rende liberi“, e fu separato da Vanda Maestro, una giovane con cui aveva legato nella Resistenza, e che ad Auschwitz fu assassinata.
Nella prefazione della sua raccolta poetica Ad Ora Incerta, pubblicata nel 1984, l’autore di Se questo è un uomo spiega:
“In tutte le civiltà, anche in quelle ancora senza scrittura, molti, illustri e oscuri, provano il bisogno di esprimersi in versi, e vi soggiacciono: secernono quindi materia poetica, indirizzata a se stessi, al loro prossimo o all’universo, robusta o esangue, eterna o effimera. La poesia è nata certamente prima della prosa. Chi non ha mai scritto versi? Uomo sono.”
Siccome è impossibile annullare il moto di esprimersi in versi, “si può ancora fare poesia dopo Auschwitz – ebbe a dire Levi – ma non si può fare poesia dimenticando Auschwitz.”
Quel gelo sentito nel sangue, di fronte al supplizio di Shaban, s’è sciolto pensando alla poesia; scrivere queste righe ha ridato al cuore assiderato un po’ di calore. Si può fare poesia, ma senza dimenticare Gaza e lo sterminio dei palestinesi – come non vanno dimenticate le vittime dell’attacco terroristico nell’ottobre 2023, né gli ostaggi ancora in mano ad Hamas.
Si rigetterà questa proporzione tra Auschwitz e Gaza: siamo tutti d’accordo sul “mai più” riferito ai campi di sterminio, dove in cinque anni morirono disumanizzate milioni di persone; ma chi è d’accordo su ciò che sta avvenendo a Gaza? In nome di quale bene?
Da oltre un anno sui social media assistiamo, in differita di ore, a massacri ed esecuzioni, atrocità e distruzioni; scorgiamo bambini sbudellati, sfilano ai nostri occhi robotici carretti con cadaveri sfigurati. Come il corpo distorto di Shani Lauk, la ventiduenne assassinata e mostrata per le strade di Gaza, quel 7/10; ma su una scala di cui non c’è memoria nell’era digitale: 43.000 morti – una stima al ribasso – di cui 7 su 10 donne e bambini; e con pochi paragoni nell’era moderna: una pulizia etnica dichiarata, e una pulsione genocida incontenibile, che getta ombre tetre anche sulla Cisgiordania. La mattanza di un popolo a cui viene negato tutto, dall’acqua alla farina all’anestetico, è in streaming, mentre è in corso un black-out informativo, e soprattutto empatico, dei media occidentali: “occhio non vede, cuor non duole” non può funzionare nell’era di internet. Ho visto quel braccio sospeso tra le fiamme, e nessuno può negare il sacrificio di Shaban; eccetto il governo israeliano, con l’insinuazione che il ventenne fosse un attore. La dichiarazione di Ben Mencer è arrivata tre giorni dopo il massacro dell’ospedale “Martiri di Al-Aqsa”: alle quattro vittime iniziali vanno aggiunti Abdul, il fratellino di Shaban, e la sorella Farah, 19 anni.
Quello che sta facendo Israele, tollerato dai nostri politici, è la realizzazione di un incubo ricorrente di Adorno, scampato ai campi di sterminio: radunare in un’arena tutti gli aguzzini di Auschwitz, e giustiziarli un a uno; ma in peggio, perché nell’arena di Gaza, il Governo di Israele ha condannato a morte, insieme ai militanti di Hamas, centinaia di migliaia di civili: le esecuzioni sono ormai una macchina. Se Adorno rifuggì da quell’incubo, sentendone la mostruosità, in Israele non vedono l’orrore che infliggono, accecati dall’obiettivo di eliminare il nemico; o forse non lo percepiscono come tale, perché per loro i palestinesi non sono più uomini. Un’attitudine precedente al bestiale attacco del 7/10, che spiega il regime di apartheid in Cisgiordania e l’occupazione di Gaza.
Nei ritratti di Shaban emerge la figura di un ragazzo dinamico, studioso e sorridente. Voleva diventare ingegnere. Raccontano che avesse imparato a memoria il Corano, il libro sacro dell’islam.
“E quanto ai poeti, sono i traviati che li seguono… / Non vedi come errano in ogni valle, / e dicono cose che non fanno?“
In varie interpretazioni, i versetti 224-226 della XXVI sura criticano quei poeti capaci di recitare su qualsiasi argomento, anche il più triviale, sviando però dalla verità – che per il Profeta è in Dio; e attaccano i cantori della guerra, che in guerra non combattono mai.
In fondo sarà sempre questo il destino della poesia: dire la verità, avvertirci, sollevarci.
Di Cristiano Arienti
In copertina – Grotta delle Mani – Argentina.
Link e fonti utili
Rainer Maria Rilke, Elegie Duinesi, Einaudi, 1978; traduzione di Enrico e Igea De Portu.
I versetti della XXVI sura sono ripresi nella traduzione proposta da sufi.it
La fulgida bellezza della parola poetica in Etty Hillesum e Rainer Maria Rilke, di Germana Ariedi
Poetry After Auschwitz – What Adorno Didn’t Say | Persistent Enlightenment
Sebald’s Barbaric Poetry – Arts One
Re-reading ‘Impossibility’ and ‘Barbarism’: Adorno and Post-Holocaust Poetics on JSTOR
Gaza: Poetry after Auschwitz | Arts and Culture | Al Jazeera
78.362 Hamas Attack Stock Photos, High-Res Pictures, and Images – Getty Images
Ben Kentish’s fiery interview with Israeli spokesman David Mencer | LBC
Journalist Bisan Owda describes the Al-Aqsa Martyrs Hospital massacre
He Dreamed of Escaping Gaza. The World Watched Him Burned Alive. – The New York Times
Primo Levi: poesie d’amore e di amicizia
Gli ultimi giorni di Primo Levi – Il Post
“Hopeless, Starving, and Besieged”: Israel’s Forced Displacement of Palestinians in Gaza | HRW
Netanyahu’s Ethnic Cleansing in Gaza Is on Display for All to See – Haaretz Editorial – Haaretz.com
Israeli society’s dehumanization of Palestinians is now absolute
Amos Goldberg: ‘What is happening in Gaza is a genocide because Gaza does not exist anymore’