Guerra: la curvatura del tempo e la retta degli ideali
Il sole agostano inondava la marina di Lokva Rogoznica, villaggio turistico della Dalmazia; era il 2010 e con alcuni amici trascorrevamo le vacanze fra tuffi e grigliate di pesce. Ci sentivamo a “casa”, per merito della famiglia croata che ci aveva affittato l’appartamento; gentili e premurosi, si prodigavano per rendere il soggiorno indimenticabile. A me personalmente accompagnarono in auto a Siroki Brig, in Bosnia-Erzegovina, da dove poi proseguii per Mostar: è la città su cui avevo condotto ricerche per documentarmi sulla guerra del1992-1995. Più che la costa dalmata, era quella la mia meta originaria: la terra bagnata del fratricidio di tre etnie convissute per decenni; i luoghi di assedi, fosse comuni e lager. Le guerre dei Balcani furono l’ultimo rigurgito dell’Europa novecentesca, che proprio a Sarajevo, nel 1914, aveva inaugurato la danza macabra di due conflitti mondiali: un nazionalismo e un militarismo – un odio e una ferocia – che speravamo fossero alle spalle con la costruzione dell’Unione Europea, inseguendo l’obiettivo di una pace continentale; un sogno definitivamente frantumato dalla guerra d’aggressione della Russia contro l’Ucraina. Proprio la Croazia è il manifesto di quell’ideale: tre anni dopo il mio viaggio, avendo consegnato i suoi criminali di guerra al Tribunale Internazionale dell’Aja, entrava nella famiglia Ue.
All’epoca la distruzione segnava ancora Mostar, con palazzi diroccati e facciate forate; e la separazione etnica era palpabile tra un lato e l’altro della Neretva, il fiume che taglia in due la città.
Quando visiterai la parte bosgnacca, mi disse l’enorme Stanko, l’ospite di Lokva Rogoznica, ti accorgerai di come vivono loro – i “musulmani” – e come trascurano la loro zona rispetto a noi – i “croati”. La sua altissima fidanzata assentiva, lei che in Bosnia-Erzegovina era nata: croata di Konijc, era fuggita ragazzina dalla pulizia etnica delle milizie serbo-bosniache.
Si è inondati dalla bellezza dell’Erzegovina estiva, e dalla cordialità dei cittadini di Mostar. Tuttavia più di una volta, perfino in conversazioni spicce, emergeva la guerra come argomento. Per coloro che la vissero, è un paesaggio della mente, anche dopo 15 anni; come una trappola temporale che ogni giorno ti riporta allo ieri; mentre per gli altri – chi non ha vissuto un conflitto – lo sguardo è sull’oggi. In Croazia hanno dato un nome alla tendenza ad alimentare le ferite di guerra: “ranoholizam“, uno sforzo quasi politico per impedire che si chiudano. Vivere in un luogo fratturato da vecchi colpi di mortaio ti àncora al passato, ma non è il fattore determinante; che la curvatura del tempo sia interiore me lo mostrò il padre di Stanko: a Lokva Rogoznica non vidi traccia del conflitto tra croati e serbi, eppure l’ometto mi parlò di quanto terribile era stata la guerra. Il suo sfogo era spontaneo, l’argomento galleggiante in quegli occhi sull’orlo del pianto davanti a me: uno sconosciuto in costume, diretto alla spiaggia.
Per quanto ti documenti per quel tipo di viaggio, non si è mai in grado di comprendere la sofferenza di chi ha il marchio della guerra sulla pelle e dentro di sé. Noi “turisti del dolore” ci appoggiamo al giornalismo per informarci; ci addentriamo nei memoriali e nei musei dedicati per non dimenticare; ci serviamo della sublimazione artistica per acquisire una qualche catarsi.
Sul tema lo scrittore-giornalista Arturo Pérez-Reverte ha scritto un romanzo, Il Pittore di Battaglie. Ambientato nell’oasi delle Baleari, è la storia dell’ex foto-reporter Falques, e della sua ossessione: dipingere un murales che raffiguri gli orrori dei conflitti di cui è stato testimone; ma anche di quelli visualizzati nei quadri più famosi con soggetto le battaglie storiche. Sulle sue tracce si è messo il croato Ivo, soldato durante il conflitto nella ex Jugoslavia, la cui vita era stata sconvolta, involontariamente, da uno scatto di Falques. La moglie serba di Ivo e il figlio – un tempo i matrimoni interetnici erano normali – furono trucidati dalle truppe di Belgrado dopo che il ritratto del soldato era apparso sulla copertina di un prestigioso giornale: l’uomo, suo malgrado, era diventato il volto dell’esercito croato a Vukovar, tra le città dove si sparse più sangue; ed è laggiù che la fidanzata-collega di Falques morì saltando su una mina.
Le due tragedie sono le fondamenta del romanzo, e tengono imprigionati i due personaggi nel passato; ma l’incontro-scontro tra Ivo e Falques ne fa emergere altre, sempre atroci e insensate. Ecco che il “murales delle battaglie” assomiglia più a un’autopsia del genere umano: la storia della nostra civilizzazione attraverso la guerra. Tuttavia è la guerra slegata da qualsiasi ragione; una visuale che aggira il punto focale del giusto e dello sbagliato: dall’abisso di ogni conflitto salgono bolle di dolore, di delirio, di morte. Tra le parti che si infliggono sofferenze, si diluisce la separazione tra “buoni” e “cattivi”, approssimati in una zona grigia; e Pérez-Reverte la indica: si scopre che Ivo, prima di marcire in un lager, e sapere dell’assassinio della famiglia, aveva torturato un inoffensivo ragazzo per estorcere informazioni ai genitori.
In guerra la vita non ha più valore, nemmeno quella degli innocenti, se dalla parte “sbagliata”. E’ un altro romanzo che ingarbuglia ogni certezza: ne L’Altalena del Respiro di Herta Mueller si racconta la storia di Leo Auberg, adolescente rumeno di etnia tedesca, e le sue prime esperienze omosessuali. Verso la fine della II Guerra Mondiale il villaggio di Leo è occupato dall’Armata Rossa; nei rastrellamenti che seguono, in una comunità orgogliosamente nazista, molti civili vengono deportati in Unione Sovietica come braccia per riparare i danni di guerra. Il motivo per cui il giovane finisce in un lager di Donetsk, probabilmente, è la sua inclinazione sessuale: cinque anni di lavori forzati, fame, brutalità, inflitti da chi era dalla parte “giusta”. Una storia basata su fatti reali, l’esperienza del poeta Oscar Pastior in primis, ma anche di parenti e concittadini della Mueller. Il protagonista del romanzo, al ritorno dal lager, decide di fuggire dal villaggio d’origine, fino a espatriare: non reggeva il peso dei ricordi, cicatrizzati sui volti in pena degli altri sopravvissuti.
La fuga dall’orrore della guerra è al centro di un altro romanzo, Frattura, di Andrés Neuman; la vittima è un bambino, l’innocenza per definizione, che vive nella terra del “male”: il Giappone imperialista della II Guerra Mondiale. Originario di Nagasaki, Yoshie si trova col padre a Hiroshima il giorno in cui piovve “little boy“, la prima bomba atomica sganciata dall’aviazione statunitense; il bambino sopravvive al padre, ma il resto della famiglia viene sterminato quando gli Usa sganciarono “fat boy” su Nagasaki: l’onda d’urto gli polverizzò una madre, una sorella e una sorellina. L’Olocausto nucleare è vivido in Frattura, avendo Neuman raccolto, fra gli altri, i lapilli letterari di John Hersey, e il reportage Hiroshima; Yoshie ne porta il marchio sulla pelle, con le ustioni, e nell’organismo, minato dalle radiazioni. Alla fine di un cinquantennale pellegrinaggio tra Parigi, New York, Buenos Aires e Madrid, il protagonista torna in patria; ma è l’incidente alla centrale di Fukushima, nel 2011, a far ribollire le ferite interiori, a lungo ibernate: la nube tossica lo richiama verso quel passato. Come se volesse ritrovarsi all’ombra dei funghi atomici, Yoshie si addentra nella zona proibita. Si ferma in un villaggio ormai semideserto, dove però trova un segno: il nome della sorellina inciso in una scuola elementare; e lì vi entra. Si apre un varco temporale, gioco della mente, dove lui “bambino” si siede su una seggiola, a disegnare insieme alla sorellina tornata “viva” dopo mezzo secolo.
Il tempo, sotto il peso del trauma, si curva fino a distorcere la cognizione del presente: perché la realtà è dolorosa fino all’insostenibile; un concetto mirabilmente espresso in Austerlitz, di W.G. Sebald. Nel 1939, in una Praga occupata dai nazisti, a 4 anni Jacques Austerlitz è caricato su un treno diretto in Gran Bretagna, dove poi verrà adottato da una famiglia protestante. Durante l’adolescenza gli viene svelata la vera identità; ma solo in età matura, e dopo intense ricerche, Jacques risale ai nomi dei genitori, e alle sue radici ebraiche: la madre, dopo averlo messo su quel treno, visse in clandestinità prima di essere internata a Theresienstadt, e assassinata dai Nazisti. Il padre, deportato da Parigi, dove si trovava prima dello scoppio della guerra, subì la stessa sorte.
Il senso di spaesamento che aveva attanagliato il protagonista fin dall’infanzia trova una risposta; l’agnizione per Austerlitz è così devastante che soffre un crollo nervoso. Da lì in avanti la sua linea temporale non solo si curva, ma si scompone: si crea addirittura una dimensione parallela, onirica o sub-conscia, nella quale ha “ricordi” di una vita trascorsa insieme ai genitori; o ai loro spiriti. Ecco la pagina dove la relazione dell’uomo con il tempo e lo spazio, flessi dalla guerra, si fa filosofia grazie a Sebald:
“Una volta ho sognato di ritornare nell’appartamento di Praga dopo una lunga assenza. Tutti i mobili sono al solito posto. So che i miei genitori saranno presto a casa dalle vacanze, e che c’è qualcosa di importante che devo dargli. Non ho consapevolezza che sono morti già da anni. Semplicemente, penso che devono essere molto vecchi, sui 90, 100 anni, l’età che del resto avrebbero se fossero ancora vivi. Tuttavia, quando infine varcano la soglia di casa, hanno al massimo 35 anni. Entrano nell’appartamento, camminano per la stanza raccogliendo questo e quello, si mettono a sedere nel salotto per un po’ e si parlano nella misteriosa lingua dei sordo-muti. Non si curano di me. Ho il sospetto che siano pronti per ripartire verso il luogo da qualche parte sulle montagne dove ora vivono. Non mi sembra, aggiunse Austerlitz, che comprendiamo le leggi che governano il ritorno del passato, ma sento sempre di più come se il tempo non esistesse affatto: solo diversi spazi che si intrecciano secondo le regole di una più alta forma di geometria dei solidi, e fra i quali i vivi e i morti riescono a muoversi avanti e indietro a loro piacimento, e più rifletto su questo, più mi sembra che noi, che siamo ancora vivi, siamo irreali agli occhi dei morti; e che solo occasionalmente, in certe luci e condizioni atmosferiche, riusciamo ad apparire nel loro campo visivo. Da che ho memoria, disse Austerlitz, ho sempre sentito come se non avessi posto nella realtà, quasi che proprio non ci fossi.”
A livello letterario, lo spunto originale di questa filosofia si trova in un romanzo precedente: Mattatoio N. 5 di Kurt Vonnegut, uscito nel 1969. Nella mente dell’ex soldato Billie, americano sopravvissuto al rogo di Dresda, tempo e realtà perdono linearità e consistenza: si forma un’esistenza multidimensionale, in cui si muove tra passato, presente e futuro, come un fuoco fatuo; viaggia su è giù fra la Terra e un mondo alieno, in un’alternanza imperscrutabile. Per altro, durante i “soggiorni” extrasolari, Billie è rinchiuso in uno zoo: l’essere umano un animale da studiare per una civiltà ben più evoluta.
Quanto è barbaro un mondo dove un bambino di quattro anni deve scappare dalla sua città natale, affinché non si libri nel cielo di Auschwitz sottoforma di sbuffi di fumo? Sebald basò il suo romanzo su una storia reale.
Si può definire civilizzato un mondo dove un uomo muore d’asfissia portando in superficie i resti di civili tedeschi bruciati in un rifugio? Vonnegut, prigioniero di guerra a Dresda, passò giorni a raccogliere corpi tra le macerie.
Proprio dalla distruzione di una città, Troia, nasce una delle prime opere letterarie, l’Iliade; e con essa, alcune grandi lezioni sulla guerra: non solo l’eroismo, ma la violenza e la crudeltà; non solo il trionfo dei vincitori, ma la sofferenza delle vittime e dei sopravvissuti; non certo il progresso, ma la rovina di una civiltà. Anche nel poema omerico il tempo si curva, con quei dieci anni rubati ai protagonisti e alle loro famiglie: Achille, il guerriero più celebre, si era travestito da donna pur di disertare; Ulisse s’era finto pazzo. Se il primo morì a Troia, il secondo passò altri dieci anni d’esilio prima di rivedere Itaca; lì dove la moglie Penelope si era impietrita nell’atto di fare e disfare la tela, in attesa di un marito disperso, forse morto.
Proprio il ritorno di Ulisse a Itaca offre la metafora per spiegare come gli ideali, coltura di qualunque guerra, sfreccino sicuri in linea retta, trapassando dubbi ed esitazioni sul ricorso alle armi. Sull’isola spadroneggiavano i Proci, corteggiatori di sua moglie, e aspiranti a un trono destinato al legittimo erede, il figlio Telemaco. Per questo l’eroe si aggirava travestito da vecchio, meditando il piano per liberarsi dall’orda. L’identità si svela quando Ulisse curvò il suo antico arco, impresa non riuscita a nessuno, e scoccò un dardo infilando gli anelli delle dodici scuri: la linea retta perfetta. La successiva freccia Ulisse la piantò nel petto di Antinoo, uno dei capi dei Proci, per poi massacrare tutti gli altri con l’aiuto del figlio.
Su Itaca si ristabilisce l’ordine, dopo anni di soprusi. In questa rettitudine, il Re non esita a giustiziare le ancelle che, tradendo Penelope, si erano asservite ai Proci. Come il dardo sfila dritto lungo i dodici anelli, l’ideale può non conoscere ostacoli, o pietà, se c’è un torto da raddrizzare, una libertà da riconquistare, o un diritto da difendere: uccidere, anche su larga scala, diventa lecito per ottenere giustizia. Si sfondano le barriere morali pure se c’è un confine da onorare, una rivolta da sopprimere, o un espansionismo da consolidare: anch’essi, storicamente, idealismi che hanno scatenato i peggiori conflitti.
Del resto, secondo il mito, gli Achei assediarono Troia per riprendersi la spartana Elena, rapita da Paride; nella realtà, probabilmente, fu la battaglia finale per il dominio del Mar Egeo. Anche in questo si trova una verità: se alla base di ogni conflitto preme un ideale, più o meno nobile, spesso sono obiettivi materiali che muovono gli eserciti; come la conquista delle risorse, la proiezione di potenza, l’abbattimento di un nemico.
Sovente, l’aggrapparsi al bene e al male per giustificare lo scoppio di una guerra è un esercizio retorico, non esente da propagandismo.
Anche nella Jugoslavia degli anni ’90 in molti, trasversalmente, incoraggiavano a prendere le armi definendola la cosa giusta da fare: perché a sbagliare erano gli “altri”; un’accusa che rimbalzava da un’etnia all’altra, in un gioco di specchi che abbagliò quasi tutti – al di là dei torti e delle ragioni. I pochi che predicavano sensatezza e fratellanza finirono su un binario morto: l’idea della guerra fu un treno diretto verso gli orrori di cui scrive Pérez-Reverte; ancora sulla bocca, e nella mente, degli abitanti di Mostar a quindici anni di distanza; e ben impressi negli occhi di un anziano nel sole di un agosto turistico.
E’ una curvatura, imposta dalla guerra al tempo, che abbraccia tutti: ci spinge a guardare all’indietro, coltivando la memoria, per non ripetere gli errori del passato. E’ una retta, quella su cui viaggiano gli ideali, che inesorabilmente percorriamo: si spera verso i traguardi più alti e di pace.
Di Cristiano Arienti
In copertina: Ulisse e Telemaco massacrano i pretendenti di Penelope, di Thomas Degeorge, 1912, Clermont-Ferrand, musée d’Art Roger Quilliot