Bagni in Myanmar

Balenano fumi e odori pregni dalla terra umida, nel primo mattino; e brilla di rugiada la vegetazione. Rao è seminudo, seduto sul gradino di pietra, nel retro della casetta. Incurvato, i talloni appoggiati sulla lastra in cemento accanto alla fontanella; il volto riflesso nella circonferenza d’acqua d’un secchio azzurro. Sul suo corpo ventenne scolpito da troppi digiuni, si contano le costole. Sul suo cranio rasato, in cima alla calotta grigia, la macchia bluastra, il segno della legnata appena sbollentito dal ghiaccio. Il male si ripercuote nella testa; ma è l’urlare della folla caricata dai soldati a rimbombargli dentro. Sembra un accadimento di una fantasia tramandata; eppure è successo solo il giorno prima. Il ciocco di manganello stride ancora sui nervi del ragazzo; e nelle orecchie penetra il grido di Wen; all’amico che gli stava di fianco, l’hanno acciuffato.

“Aiuto, lasciatemi, aiuto”, ripeteva Wen, con l’urlo strozzatogli in gola per le botte ricevute.

Nel frastuono annebbiato dai lacrimogeni, Rao era scappato toccandosi la testa, macchiandosi le dita di sangue. Gli mancava l’aria nei polmoni. S’accorse di correre dietro a un ragazzo in camicia hawaiana, si faceva strada spingendo; gli si accodò, dileguandosi per vie secondarie, mentre i fischietti trillavano. A quello non l’aveva mai nemmeno visto. Al sicuro, con le urla in lontananza e le nuvole di gas ormai distanti, si scambiarono brevi frasi: rotte d’adrenalina e di incredulità.

Con quello sconosciuto ha condiviso il proposito che li affratellava: non mollare; ma pure l’atroce dubbio: che le proteste non avrebbero assestato la spallata, per quanto fiere. Sulla folla, la giunta militare stava spiegando le grandi ali della repressione: da quasi 20 anni, dal colpo di Stato del 1988, Tun Shei e i generali artigliavano il Paese in una morsa di ricatto e vendetta. Solo quando si è incamminato verso casa, in solitudine, ha realizzato l’enormità del fatto: l’arresto di Wen e di chissà quanti altri manifestanti.

Ora la ferita è suturata più o meno, i punti cuciti da sua madre Myat, donna dalle dita tuttofare. Il pigiare su quella crocetta di cerotti è uno spillo che gli deforma il viso in una smorfia; la bocca si comprime per contenere un verso dolente; se ne lanciasse uno, di verso, lo estenderebbe altissimo, tutta la disperazione contro quell’ingiustizia.

Dalla cima del cranio Rao lascia scivolare la mano nel secchio, spaccando l’immobilità dell’acqua. Pelle d’oca; l’aria del mattino aderisce al suo corpo con maggior rigidità. Rabbrividisce preparandosi all’urto del freddo. Poi comincia a lavarsi insaponandosi; solleva la mano ammantata e lucida, la passa sul collo e viso con delicatezza; e sul cuoio capelluto, attento a non grattare i punti. Soffia le gocce che gli imperlano le labbra e le narici; le gocce soffiate tralucono come scintille nel pallore dell’alba. E’ il vero risveglio per il ventenne. Si liscia la nuca con il palmo bagnato. Ondeggia le spalle.

Rao chiude e riapre le palpebre, le lunga ciglia nere pettinate di liquido. I suoi occhi scuri sono perle malate. Addentra la vista fra le lunghe foglie della pianta prospiciente sulla fontanella; il sole accende quel loro verde, e macula d’oro il terreno in ombra. E s’addentra di nuovo nei ricordi della giornata precedente. I fucili e i bastoni che spuntano dai pick-up, gli scarponi che scoppiano sull’asfalto e lo rincorrono. Le sirene e le esplosioni. E la memoria scende di più, in un buio di un anno fa: fasci di luce nel selciato davanti a casa, torce che brancolano nella veranda e all’ingresso, divise che palpano suo fratello Wai e se lo portano via; attività sindacale illegale. Ha fatto dentro e fuori di galera, suo fratello, in questi mesi; adesso è in una cella che andrà affollandosi sempre di più.

Non ha ricordi, invece, di quando suo padre Than non tornò a casa il giorno del suo arresto: era ancora troppo piccolo. Solo ricostruzioni nella sua mente, alimentate dai racconti della madre, del fratello, degli zii.

Contempla la natura, che pare sempre sul punto di conquistare quel pezzo di povera urbanizzazione. Si imprime i colori vividi, le forme degli alberi; ascolta il lento ritmo del lavorio umano, e il solerte canto degli uccelli.

“Sono liberi, loro”, pensa Rao, sapendoli nascosti e variopinti sui rami. “Liberi! Tanto quanto sono prigionieri quelli che occupano queste casette di periferia.”

Anche oggi tornerà per strada: è un rischio che potrebbe trasformarsi nello sbaglio della vita, lo sa; ma starsene tappato sarebbe un modo per accettare l’equivoco odioso che da tempo è il Myanmar.

Ecco che si focalizza sui presentimenti della giornata solenne. Rivoli d’acqua gli striano il viso mentre assume una posa meditativa; resta in contemplazione, interloquisce con gli spiriti della Terra, che gli diano il valore e il coraggio e la visione. Snodando la posa, apre le braccia ad ali, mima un volo. “Libero”.

Ride un po’ di sé, perché nella serietà dei propositi, s’insinuano sogni di viaggi, di feste, di un lavoro remunerativo, di una famiglia sua. Le ali ricadono, spiumate anche delle speranze ventenni più innocenti.

Il giovane si ricompone, le braccia distese lungo le cosce toniche. Scrocchia il collo. Si risiede sul gradino e ritorna al lavaggio del corpo. Alle spalle, sente gli occhi di sua madre, dietro alla tendina della cucina; starà singhiozzando ancora per la litigata di poco prima.

Rituffa la mano nel secchio per prendere la saponetta; sferra fuori il braccio, e l’acqua gli salta sul petto. Si strofina il torace scarno, e l’intimo casto dentro agli slip, e i piedi incalliti.

Il vicino della casetta sulla destra lo sta guardando, ma senza attenzione, disperso in un meandro di pensieri. E’ il padre del suo coetaneo Hein: si fuma una sigaretta all’ombra di un pergolato. Anche lui, come sua madre, deve aver dormito poco e male: Hein era partito per la manifestazione insieme a Rao e Wen. Lo aveva perso di vista durante la marcia in centro a Yangoon. Deve essere tornato, perché a quest’ora il padre glielo avrebbe chiesto, a Rao, dove fosse il suo ragazzo.

Ai genitori di Wen, presentatisi a casa col semi-buio per non farsi notare troppo, gliel’ha confermato sofficemente: l’hanno acchiappato, ma era tutto intero l’ultimo momento che l’ho visto. Evitò di dipingergli Wen ingabbiato fra gambe e braccia in divisa, e i bastoni che stantuffavano su e giù su di lui.

Avevano i lucciconi la mamma e il papà di Wen: si sarebbero dovuti presentare in un commissariato a pregare in ginocchio per delle informazioni minime. Tremava la voce di sua mamma, mentre gli posava una mano sulla spalla: “Non andare domani”, gli bisbigliava, quasi che non volesse farsi sentire dai genitori di Wen. Il padre, un piccoletto dai baffetti radi e denti sporgenti, ha dato ragione a Kyat: “Da giorni era scritto come sarebbe andata; gliel’ho ripetuto a mio figlio: voi ragazzi non lo avete ancora capito bene, ma sono sanguinari”. Poi tacque. I tre adulti guardavano Rao gonfi di paura, e terrorizzati per la sorte di Wen, e per le centinaia di persone arrestate.

Scuoteva la testa il giovane, con il fresco punto della sutura oscillante in cima al cranio: discussioni già affrontate fino allo sfinimento. La vita è troppo cara ormai in città; i prezzi troppo alti per la benzina, il gas, il riso. E le tasche di tanta gente sono vuote pur spaccandosi la schiena. A Rao i soldi del lavoro serale come magazziniere non bastano più da mesi; dovrà mollare il corso universitario.

“Deve cambiare questo Paese. Non si può più andare avanti così. Che a fare la bella vita sono in pochi: i padroni e i corrotti e i violenti e chi è tutte queste cose insieme; e guarda caso ci menano a loro piacere. Se mi devono prendere, che mi prendano. Al massimo vado a fare compagnia a mio fratello Wai.”

“Non deve per forza finire così”, ha detto sua madre, lanciando uno sguardo pietoso al santino di suo marito. Nella foto incorniciata, circondata di fiori e candele, il ritratto dell’uomo li fissava al tavolo, con quel suo antico sguardo mansueto; che però in quel fatidico 1988 si riempì di sfida contro la prepotenza dei militari. Gli bastò partecipare a una manifestazione, quella sbagliata. Fu tra quelli incarcerati dopo un processo sommario, e tenuti a marcire in una cella per degli anni, prima di farne uscire la larva spacciata. Per Rao non è sufficiente l’acqua di una cascata per levarsi di dosso il senso di tristezza e impotenza, mescolati a rabbia, di fronte all’inesorabile svanimento del padre. Col timore che la stessa sorte capiti anche a suo fratello.

S’era appisolato poco dopo la scarsa cena. Nel giaciglio ha passato ore agitate: a fare sogni che sembravano vita vera, risucchiato nella calca, con la polvere della strada nelle narici; in quelle visioni gli sembrava di tuffarsi continuamente a terra, ma senza mai picchiare l’asfalto.

Si schiaffa l’acqua sulla schiena incurvata, l’atterraggio spiattellato sulla pietra; poi posa il secchio vuotato. Rao si leva in piedi: le scapole in vista, e pomi delle spalle enormi: la sua fisicità luccica sullo sfondo ombreggiato della veranda. L’aria è tiepida, e l’alba compiuta. Occhi socchiusi, mentre il sole fa per asciugarlo. Si sente materia stamattina, con le palme dei piedi sulla bagnata lastra di cemento; ma si sente anche spirito: quello che guizza per le piazze, la rivolta di un popolo. Si mantiene raccolto, la contemplazione racchiusa nel limite del suo corpo; ma indefiniti nella sua mente, si espandono i concetti di equità, libertà e giustizia, pace, democrazia, pane per tutti, studio, opportunità. Mantra che intelaiano il suo vivere quotidiano, e che oggi rappresentano gli obiettivi ultimi. Da raggiungere a tutti i costi; oltre la paura. Si misura anche con quella; con dentro una voce, la sua parte più debole e furba, che gli dice di desistere dopo le repressioni degli ultimi giorni: potrebbe essere molto peggio di così, il mio futuro, se finissi nelle loro mani.

Ma egli è coraggio, e scaccia quella voce; egli è un valoroso, e distrugge quella paura; guarda l’orizzonte con fiducia, dissolve la visione di se stesso in prigione.

Vestitosi dei suoi lisi abiti borghesi, si siede al tavolo della cucina, dove la madre gli ha apparecchiato un pasto: riso bianco e radici, un pezzo di carne in brodo, uova, frutta fresca.

La speranza di Myat è che con quel cibo in corpo il figlio riesca a scappare veloce dalle mani che anche oggi, con ogni probabilità, tenteranno di abbrancarlo.

“Non andare, resta qui; hanno già tuo fratello”, lo implora sua madre, seduta di fronte a lui. “Che faremo noi, io e tua sorella, se finisci in galera? Non puoi tu liberare Aung San Suu Ky marciando per le strade; o abbattere i militari urlandogli “andatevene”: ci vuole ben altro. La nostra famiglia lo sa bene.”

Rao bada a non risponderle, a non guardarla negli occhi, mentre mastica. Quando finisce il pasto, la madre sta col busto prono sulla tavola, la faccia incastrata sotto l’ascella, la testa contornata dal suo stesso abbraccio disperato.

“Non vi vedo più”, ripeteva, “che faremo noi?”

Cede Rao, nascondendosi la faccia fra le mani. Subito spezza quel sentimentalismo con un rapido sussulto, tirandosi su in piedi il momento prima di accogliere le preghiere di Kyat. La guarda con sincera pena: per lei, ma anche per se stesso; per suo fratello Wai, e sua sorella, e l’amico Wen, e Aung San Suu Ky e per l’intero popolo del Myanmar: ma quella sofferenza va ribaltata lotta.

“Torno, mamma, stai tranquilla.”

Dal retro della casetta, Rao esce sul vialetto saltando oltre una pozzanghera, il rivolo del suo medesimo bagno. Qualche passo, ed Hein lo chiama dalla veranda; poco dopo esce anch’egli sul vialetto, portando a mano la sua motoretta. Parlano al volo di Wen, si rabbuiano; ma s’intendono con un cenno: non c’è altro da fare, soluzioni diverse non ce ne sono. Il figlio del vicino fa uno smorfia di dolore mentre accende il mezzo: ha una grossa sbucciatura sul ginocchio, dice. In fondo alla via, all’ombra delle alte piante, si intravedono altre figure di giovani che viaggiano veloci verso le strade della città. Piccole arterie che andranno a ingrossare la marcia nel cuore di Yangoon.

Rao monta in sella: cinge un braccio al fianco di Hein che sgasa. Qualcuno, stretto sulla soglia di casa, saluta mentalmente il duo. Sono addii impliciti; quei giovani stanno andando incontro a un bagno di sangue. Forse lo sanno, forse no.

Rao torce un ultimo sguardo in direzione di casa. Sua madre li aveva seguiti per una cinquantina di passi: sbraccia un saluto. Lui risponde con la mano aperta e un mezzo sorriso; poi si volta avanti, fissando un miraggio che non gli pare sia mai stato così vicino.

II

Seduto sul bordo del letto a baldacchino, le palme dei piedi sul liscio tek, Tun Shei allunga il braccio verso il comodino; lo tasta un po’ prima di arrivare agli occhiali con la montatura di ferro. L’attendente ha già spalancato le spesse tende; i bagliori dell’alba stingono l’oscurità della stanza ancora pregna di profumo notturno. Da sotto le coltri di lenzuola, spunta la spalla olivastra di una donna. La sveglia, oggi, è particolarmente pesante per il settantenne dagli occhi neri; la pressione delle ultime giornate, le ore piccole della notte che si è concesso, le scelte obbligate che finiranno per dipingerlo, ancora una volta, agli occhi di chi gli vuole male, per il cattivo, per il brutale, per il dittatore.

Alza la testa verso il soffitto intarsiato, Tun Shei, tendendo le orecchie al cielo: pale di elicottero fanno tremare per un momento il tetto della corte dove il Generale passa le giornate dallo scoppio della crisi; il rumore si estingue nell’allontanamento.

“Di già?”, chiede la donna sollevando il lenzuolo, scoprendo il busto florido e il ventre invitante. Lo fissa con una faccia bamboleggiante e assonnata. “Vieni ancora un po’?”

L’uomo non le risponde; si infila gli occhiali e mette a fuoco la vista: degna la donna e il suo odore di uno sguardo ammirato. Poi torna a osservare avanti a sé: non vede però l’alta parete, e il cassettone anticato sovrastato dal ritratto della sua persona in alta uniforme: i suoi occhi sono già proiettati all’agenda di giornata.

Questa rivolta non si risolverà facilmente: gli arresti e i feriti fra monaci e studenti cominciano a essere un po’ troppi. Le scene più truculente stanno facendo il giro del mondo. Le classiche note della comunità internazionale non si sono fatte attendere: preoccupazione per gli eventi in Myanmar. Lo hanno già contattato dall’Europa, Pechino, Washington; per non parlare delle chiamate agitate dai quartier generali delle multinazionali.

La piccola strega, pensa Tun Shei, sembra avere un’aura magica: tutti la vogliono, tutti la cercano. Cosa deve fare, lui, con Aung San Suu Ky? La richiesta per liberarla è tornata a farsi ridicola; ma anche stavolta non l’accoglierà; non l’ha liberata dopo il Nobel per la Pace, perché dovrebbe farlo ora?

Ma come? Non piace più il gas del Myanmar? E il petrolio dei nostri fondali? E i minerali del sottosuolo? E la manodopera a costo quasi zero? E’ stato bello finora fare affari con me, e ora non mi volete più? In fondo l’idea di togliere i sussidi sul carburante non era stata nemmeno sua: si era fatto convincere, ma a lui non è mai piaciuta sin dall’inizio. Gli investitori volevano un prezzo di mercato? Ecco cosa c’è da pagare: decine di migliaia di persone per le strade che chiedono la sua testa; e le teste spaccate di studenti e operai, le galere già riempite di semplici impiegati. Eccolo il vostro prezzo di mercato: la fame, la disoccupazione, l’anarchia.

Quel che è peggio, lo spettacolo pare essere a uso e consumo proprio degli occidentali, comodi e stravaccati davanti alle televisioni. E lo sanno quei suoi connazionali che vogliono gettare il Paese nel caos: per questo non mollano. Ma loro cosa vogliono capire di come funziona uno Stato? Lui lo governa da 15 anni il Myanmar, non glielo devono spiegare dei poveri studenti, o degli infimi impiegati, come lo si manda avanti. Per non parlare di quei pazzi di monaci: ma cosa pensano di ottenere facendosi massacrare?

Si leva dal letto l’uomo, avvicinandosi a passi lenti verso il luminoso ingresso del bagno: un vero salone, con le cilindriche colonne e le piastrelle in ceramica porcellanata, il marmo italiano e le decorazioni in stucco, i pomelli d’ottone e i vasi di piante in fiore.

Gli aromi del bagno addensano l’ambiente: dalla vasca sale tepore, con la schiuma al pelo dell’acqua calda. Spogliandosi tutto, Tun Shei si studia nell’enorme specchiera con finiture dorate – una mobilia proveniente da qualche castello francese. Alla sua età ormai gli acciacchi e le malattie hanno un peso su di lui. Eppure, dentro, nello spirito, si sente in controllo: il comando è l’ossatura interiore che lo tiene ferreo di fronte a faccende che periodicamente infestano le menti della gente.

Al centro della sala, su un tappetino in gomma, si dedica al mattiniero esercizio di meditazione, recitando il suo mantra quotidiano: si espande riempiendosi della forza che necessita per esistere. Il suo pensiero viaggia freddo in quella materia di fisse parole; mentre il corpo, nella tensione immobile, s’imperla di sudore. Le mani giunte si slegano con lentezza. Scioglie le spalle, snoda il collo, inspira ed espira. Poi si immerge adagio nell’acqua, col solletico della schiuma profumata sotto le ascelle. Dall’attendente si lascia spazzolare il torso. Mentre viene energicamente dondolato, ragiona degli ordini impartiti nei giorni scorsi, durante le riunioni d’urgenza: guardavano a lui come a un manuale d’istruzione. E lui non li ha delusi: reprimere le manifestazioni, prima che s’ingrossino troppo; arrestare sindacalisti, attivisti, e perfino i giornalisti se occorre.

Con una mano sciaborda un po’ di schiuma. Tiene gli occhi spalancati sull’acqua, come se potesse evitare le immagini dei suoi militari sciamanti per le strade mentre bastonano alla cieca.

Gli obiettivi dei ribelli, ripeteva il Generale ai suoi consiglieri di Governo, non sono la libertà e la giustizia e tutti quegli altri valori che è più facile nominare che mettere in pratica; e nemmeno la carne e il riso sono l’autentica questione. In Myanmar dicono che si muoia di denutrizione; ma lui lo sa, non è vero; ma anche se fosse, poi, non muoiono di freddo, di alcol e di droga, per le strade, gli americani? Siamo noi il loro vero bersaglio.

“E’ me che vogliono far fuori”, si ripete ininterrottamente da anni Tun Shei.

Si tira su in piedi il generale, azionando i pomelli della doccia; l’acqua casca come una pioggia tropicale. “Li schiaccerò tutti, li distruggerò tutti”, bisbiglia, sciacquandosi via la saponata dal torace e dal collo.

Fuori dalla vasca, l’attendente gli porge l’accappatoio; il miglior tessuto sul mercato, ripeteva la commessa a sua moglie, in quell’atelier di Singapore; ne aveva acquistati dieci; e tre, nella versione femminile, anche per l’ultima delle sue figlie: da ritirare nella filiale di Londra, dove sta completando il dottorato in economia.

Asciugato e profumato, si siede sulla poltrona in pelle, con a portata di mano un tavolino apparecchiato di una succulenta colazione. Mangiucchia, beve del tè verde. Poi si arrende alle mani premurose dell’attendente, che si mette a raderlo, imbrillantinarlo e impomatarlo.

“Ingratitudine, ecco cos’è”, si lascia scappare dalla bocca, mentre si alza dalla poltrona ad accappatoio aperto; “la piccola strega cosa voleva fare? Sarebbe stata travolta anche lei, con la sua idea della democrazia. Questo è un popolo che non è pronto per decidere da sé; non lo è mai stato: ha bisogno di una guida.”

Spostatisi nella comunicante sala degli armadi, una cassaforte di radica con uno dei migliori guardaroba del Myanmar, l’attendente comincia la vestizione del Generale: lo addobba della divisa da Capo del Consiglio di Stato per il Ripristino della Legge e dell’Ordine; partendo dalla fina canottiera della salute, la camicia militare color verde acqua, e la cravatta in tinta petrolio.

“Cos’è questa?” chiede l’uomo, mentre l’attendente lo aiuta a infilarsi i pantaloni. Ha un inconsueto scatto di rabbia: “Ma siamo impazziti?”

Una piccola piega all’altezza della caviglia. L’attendente si prostra in scuse prima di scappare verso la stireria, i passi svelti scivolati sul tek della camera da letto, e poi scalpicciati per il corridoio.

Si pente quasi subito, Tun Shei, della reprimenda; ma è solo un piccolo, fisiologico sfogo: l’ansia da sbollire, per quanto minima. D’altronde è giornata di grandi annunci oggi: al Generale lo vedranno nei telegiornali di tutto il mondo. Sarà sulla bocca anche del Presidente degli Stati Uniti, e dell’alleato cinese: dovrà scintillare più che mai della gloria del Myanmar; impeccabilmente marziale.

Vestito a metà, Tun Shei esce dalla sala degli armadi come un centauro: dalla vita in su un Capo militare inappuntabile, incravattato e impettito; inferiormente, in slip bianchi su natiche flaccide, coperte dalla coda della camicia, con le calze tirate su tutto il nodoso polpaccio.

Cammina circospetto sul lucido tek della camera, per paura di capitombolare. Sotto il cumulo di lenzuola la donna pare sonnecchiare. Passando vicino al letto a baldacchino, si ferma davanti all’appendino, dove come un’armatura sta impettita la sua giacca militare: è fitta di gradi, medaglie e onori. Accanto, ecco il suo cappello da Generale, con la tesa nera maculata di placche dorate, la stoffa morbida color crema. Lo afferra, lo carezza, e se lo posa sulla testa dai capelli ben pettinati. Si guarda allo specchio aggiustandosi gli occhiali.

Eccolo affacciarsi alla finestra, prendendosi il primo sole mattutino. Dopo il saluto alla bandiera, alta nello spiazzo antistante, scruta la capitale che s’è fatto costruire nella foresta: Naypydaw, la Sede dei Re, distesa su un’urbanizzazione bassa e recente. In mezzo all’architettura, come cetacei a pelo d’acqua, le pinne svettanti nel cielo monsonico, giacciono le pagode.

“Anche oggi i monaci scenderanno per le strade?”

La donna si è alzata, coprendosi l’olivastra nudità con un lenzuolo. Si avvicina al militare, ma non così da pareggiarlo sul bordo della finestra.

“Non preoccuparti: se lo fanno, avranno modo di pentirsene, te l’assicuro. Piuttosto, fatti preparare la vasca quando torna l’attendente. C’è anche qualcosa da mangiare di là, se hai fame.”

“Stanotte ci vedremo?”

Quella domanda rimane senza risposta.

La donna si volta slanciando un’appiccicante falcata attraverso la camera, strascicando il lenzuolo verso il salone del bagno; è un rumore che accarezza le orecchie di Tun Shei.

Ama il Myanmar il Generale, che con il suo sguardo nero abbraccia la capitale dietro alla bandiera in primo piano. Il suo popolo, annidato in quell’orizzonte dipinto dalla mattinata, sa di avere bisogno ancora di lui. Sono i bagni di folla durante le cerimonie, e le ali di cittadini sulle strade che percorre da 20 anni, la conferma che è rispettato, se non riamato. Un rispetto che gli sembra non essere mai stato così blindato.

Fine

Di Cristiano Arienti

Racconto scritto originariamente col titolo “Rao si lava” nel 2009 e rivisitato.

In copertina: Aye Ko – What is Peace? – opera del 2013

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