L’Australia, Assange, e la “cancellazione” della libertà di stampa

L’Australia è lontana, ma la risonanza della campagna “Your right to know – è tuo diritto sapere”, è arrivata fino a noi lo scorso 21 ottobre, con le prime pagine dei maggiori quotidiani auto-censurate: la grafica mima i documenti “sanitized“; è una tecnica applicata a informazioni che, per motivi di “sicurezza nazionale”, un Governo tiene celate ai cittadini.

Sono una decina le società editoriali impegnate in questa campagna a favore della libertà di stampa; minacciata dall’invadenza delle istituzioni nei media. Due episodi, secondo il comunicato di “Your right to know”, hanno oltrepassato il limite: lo scorso giugno la polizia ha fatto irruzione in casa di una reporter di Newscorp, per sequestrare materiale relativo a una storia del 2018 sulla sorveglianza elettronica; sempre in quei giorni, sono stati perquisiti gli uffici di ABC, per via di un’inchiesta del 2017 sui crimini di guerra in Afganistan delle truppe australiane.

Nella fase processuale conseguente ai raid, il governo pretende di essere neutrale, mentre invece le società editoriali scorgono un tentativo di intimidazione contro il giornalismo di inchiesta; possibile anche attraverso il materiale filtrato dai whistleblower – persone con ruoli in enti istituzionali o privati – che di fronte a reati decidono di “suonare il fischietto” per allertare la comunità. I due raid citati miravano a risalire all’identità di chi aveva interagito con i reporter di Newscorp e ABC.

La protezione dei whistleblower è una delle richieste della campagna; insieme a 1) il diritto di contestare i mandati di perquisizione nelle redazioni o nelle abitazioni dei reporter; 2) ridurre le restrizioni sul segreto di Stato; 3) la difesa dell’interesse pubblico relativo all’informazione; 4) la riforma della legge sulla diffamazione.

Con questi presupposti la campagna si appella ai principi democratici di cui la stampa rappresenta il cosiddetto quarto potere: si propone di custodire il “diritto a sapere” di ogni cittadino. Principio messo in crisi negli ultimi anni anche in altri Paesi anglosassoni, considerati templi del giornalismo: il britannico Guardian è stato costretto a distruggere i file che Edward Snowden, whistleblower sulla sorveglianza di massa, gli aveva consegnato. James Risen, reporter del New York Times, aveva subito pressioni dal Governo Usa per le sue inchieste su operazioni della Cia. I telefoni della Associated Press, nelle sedi Usa, sono stati intercettati indiscriminatamente per due mesi.

Dietro a “Your right to know” c’è una coalizione di società editoriali formatasi nel 2007 proprio per arginare questo tipo di intromissioni. Tuttavia la tempistica della protesta ne ha messo in luce anche le contraddizioni.

Nel giorno in cui le prime pagine dei maggiori quotidiani australiani uscivano “sanitized“, in Gran Bretagna si è tenuta l’udienza per il rinvio del processo di estradizione negli Stati Uniti nei confronti di Julian Assange; da aprile il fondatore di Wikileaks è rinchiuso nel carcere di Belmarsh per violazione degli obblighi di libertà vigilata. Sulla sua testa pende un’incriminazione che potrebbe costargli decenni di prigione: il Dipartimento di Giustizia lo accusa di aver cospirato con il marine Bradley Manning, oggi Chelsea, per aver tentato di crackare un computer governativo, e di aver sottratto documenti classificati del Dipartimento della Difesa. Si tratta dei WarLogs, da cui emergono i crimini di guerra perpetrati dagli Usa nelle campagne in Afganistan e Iraq. Il quadro legale dell’incriminazione è l’Espionage Act, del 1917, introdotta con l’entrata degli Usa nella I Guerra Mondiale: appellarsi a quella legge per condannare Assange, come sottolineato anche dal New York Times, mette in pericolo tutti i giornalisti. Intanto Chelsea Manning, già perdonata nel gennaio 2017, si trova in carcere perché si rifiuta di testimoniare di nuovo su quei fatti, avendoli già esposti nel processo per cui era stata condannata a 35 anni.

Nell’udienza di fronte alla Corte inglese, i legali di Assange hanno chiesto il rinvio del procedimento, in agenda per il febbraio 2020, perché l’incriminato non ha avuto il modo per organizzare la difesa. Il fondatore di Wikileaks, come riportato dalla Reuters, è apparso prostrato e in stato confusionale. L’ex Ambasciatore britannico Craig Murray, sodale di Wikileaks e presente all’udienza, ha denunciato:

“Fino a ieri ero scettico rispetto a chi affermava che il trattamento di Assange ammontava a tortura, o che potessero venirgli somministrate droghe; ma avendo assistito a parecchi processi in Uzbekistan di persone sottoposte a brutale tortura, e avendo lavorato con sopravvissuti in Sierra Leone e altrove, posso dire di aver cambiato opinione; Julian mostra i segni di tortura, in termini di disorientamento, confusione, e difficoltà ad affermare la propria libera volontà attraverso la nebbia di un’indotta incapacità”

E’ il quadro descritto più volte da Nils Melzer, Inviato Speciale delle Nazioni Unite sulla tortura, dopo aver visitato Assange nel carcere di Belmarsh. Un allarme rimbalzato sui muri di gomma dell’informazione occidentale, in parte propensa a considerare il fondatore di Wikileaks un asset del Governo russo. Solo negli ultimi giorni, anche grazie all’interesse di alcuni parlamentari di Canberra, i media australiani si stanno occupando del caso più in termini umanitari e legali.

La giudice Vanessa Baraitser ha disposto che il processo si tenga regolarmente a febbraio 2020; negando ad Assange la libertà vigilata, per il timore di fughe. Murray ha anche descritto l’assoggettamento della pubblica accusa britannica nei confronti del personale dell’Ambasciata americana, presente nel tribunale. Una situazione che fa pensare a un destino segnato per il fondatore di Wikileaks, nonostante gli sforzi di varie agenzie delle Nazioni Unite per fermare l’estradizione.

La campagna “Your right to know” non ha accennato al caso di Assange, che sta vivendo sulla propria pelle la repressione governativa per la sua attività di editore. Nei WarLogs c’erano le prove di un sistemico occultamento da parte degli Stati Uniti di crimini, abusi e torture. Proprio una delle questioni al centro della campagna “Your Right to know”.

Se per ABC è un diritto che i cittadini australiani sappiano che le loro truppe si sono macchiate di crimini di guerra, così la pensa Assange: il quale ha offerto, grazie a un whistleblower, lo stesso diritto ai cittadini occidentali.

L’Iraq, fra l’altro, fu attaccato in base a rapporti di Intelligence artefatti.

Era il 2002, quando l’Amministrazione Bush cominciò una campagna di disinformazione per vendere al mondo l’allucinazione di massa che Saddam Hussein fosse in grado di produrre armi atomiche. In questo fu sostenuta dalla Newscorp dell’editore australiano Rupert Murdoch: da Foxnews al britannico The Sun, la propaganda assunse toni così apocalittici, che l’invasione dell’Iraq venne soprannominata la guerra di Murdoch.

I suoi giornali australiani furono i primi a diffondere il terrore che l’Occidente fosse sotto attacco nucleare da un momento all’altro. Fra i quotidiani che più spinsero quell’allucinazione di massa, figura il Daily Telegraph; il cui Direttore all’epoca era il Campbell Reid, uomo di fiducia di Rupert Murdoch, tanto che oggi è plenipotenziario di Newscorp.

Campbell Reid è fra i promotori di “Your Right to know”.

Come si legge sul sito dedicato, la grafica associata alla campagna non è apparsa solo sulle prime pagine dei quotidiani australiani lo scorso 21 ottobre: i testi “censurati” si distinguono anche nella pubblicità, e sul materiale offerto agli attivisti; il depositario del marchio è proprio Campbell Reid.

Per ironia della sorte, la grafica di “Your rights to know” è, a livello concettuale e artistico, identica all’artwork di Is This The Life We Really Want, album di Roger Waters uscito nel 2017. Per la somiglianza grafica con le “cancellature” dell’artista italiano Emilio Isgrò, Waters rimase impigliato in una diatriba legale per infrazione dei diritti d’autore; l’album fu addirittura ritirato dagli scaffali per ordine del tribunale di Milano. La grafica era stata ideata dall’ex Pink Floyd, che non conosceva Isgrò; ed era un chiaro riferimento ai documenti “sanitized“; riguardanti anche le torture sui detenuti di Guantanamo Bay, un crimine esposto da Wikileaks. Emilio Isgrò e il cantautore britannico trovarono un compromesso, e la querela venne ritirata.

Umanistranieri ha contattato l’artista italiano e i promotori della Campagna “Your right to know”, chiedendo se ci sia stato un qualche tipo di permesso per l’utilizzo della tecnica delle “cancellature”. Per ora non è pervenuta nessuna dichiarazione.

Sarebbe un segnale dei tempi che Reid usi quella tecnica senza autorizzazioni; lui, che suonò i tamburi di una guerra criminale, e ora si pone come alfiere della libertà di stampa e dei whistleblower; mentre la richiesta di permesso è stata pretesa per Roger Waters, instancabile difensore di chi quei crimini li ha denudati.

Nella canzone Is this the life we really want, c’è un verso premonitore che sembra parlarci anche di Julian Assange, del rischio che sia stato abbandonato dall’opinione pubblica:

“Every time a journalist is left to rot in a jail […] it’s because we all stood by, silent and indifferent. // Ogni volta che un giornalista viene lasciato marcire in prigione, è perchè siamo rimasti in disparte, zitti e indifferenti.”

di Cristiano Arienti

Fonti e Link utili

https://www.reuters.com/video/2019/10/21/assange-denied-extradition-hearing-delay?videoId=615655907

https://independentaustralia.net/politics/politics-display/blacking-out-your-right-to-know,13241

https://www.washingtonexaminer.com/opinion/obama-whose-administration-prosecuted-and-spied-on-reporters-claims-trump-is-very-bad-for-criticizing-newsrooms

https://yourrighttoknow.com.au/media-freedom/

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