L’Unione Europea di Dijsselbloem: dopo l’austerità, il sovranismo
L’iceberg del sovranismo sta squarciando la fiancata dell’Unione Europea, ma a Bruxelles non sembrano preoccupati: il progetto è considerato irreversibile, come la rotta di un transatlantico; ignorando che perfino imperi secolari sono affondati: figurarsi un progetto che, in embrione dopo la II Guerra Mondiale, ha qualche decennio, e conta già la defezione della Gran Bretagna. E’ l’impressione che si trae ascoltando chi ha tenuto il timone in questi anni di crisi; in particolare le affermazioni sulla “situazione italiana”, così definita dalla stampa internazionale, da parte di Jeroen Dijsselbloem. L’ex Ministro delle Finanze olandese, ex guida dell’Eurogruppo, lo scorso settembre ha rilasciato le seguenti dichiarazioni alla CNBC:
“E’ il Governo italiano che deve salvare il proprio Paese: i mercati non lo faranno, l’Europa non lo farà. Gli italiani devono risolvere i loro problemi. Con l’attuale situazione, e le questioni sollevate dai populisti, stanno solo perdendo tempo; che è un bene molto scarso in Italia”.
Come risaputo, dal 2008 l’Italia ha visto aumentare il debito pubblico a 2,2 trilioni di euro, pari al 132% del PIL (Prodotto Interno Lordo); ha una crescita asfittica, con alle spalle anni di recessione; una disoccupazione al 10% (31% quella giovanile) e una pressione fiscale fra le più alte d’Europa. Tutto questo, nonostante gli acquisti di titoli di Stato da parte della BCE (Banca Centrale Europea) per tenere bassi i tassi di interesse; in cambio, Roma ha intrapreso misure per rendere più funzionale il bilancio: come la Riforma sulle Pensioni, varata durante il Governo Monti nel 2011, in pieno attacco speculativo sui mercati.
A partire dal 2015 l’acquisto di titoli di Stato (Quantitative Easing) è diventato un programma della BCE del Governatore Mario Draghi; ma è agli sgoccioli, con termine nel dicembre 2018.
Anche per questo le parole di Dijsselbloem, essendo “consigliere strategico del Fondo Salvataggi Europei”, hanno un peso: l’olandese esprime la mentalità che ha retto le scelte di Bruxelles; specialmente dopo l’introduzione del Patto di Bilancio Europeo nel 2012, ma in assenza della condivisione dei debiti pubblici, e conseguenti eurobond. Dijsselbloem è stato l’alfiere del rigore e dell’austerità, linee dettate da Germania e Paesi nordici: i quali hanno osteggiato il Quantitative Easing. E’ vero che l’ex Presidente dell’Eurogruppo non ha posto il veto sulla politica della BCE; tuttavia ha rappresentato le posizioni più intransigenti nelle trattative con Paesi in difficoltà, o in crisi.
A Cipro ha imposto il prelievo forzoso dai conti correnti non assicurati nelle due principali banche, un danno collaterale della crisi greca. Ad Atene ha “offerto” un Terzo Programma di Aggiustamento Economico, dopo le traumatiche riforme del 2012; in cambio, un nuovo prestito da 86 miliardi di € per onorare i debiti contratti con la banche europee prima della Crisi del 2008.
Alla maggioranza dei greci non fu sufficiente, all’inizio del 2015, preferire Syriza, partito pronto a ridiscutere i termini degli accordi presi dal 2010; non gli bastò rifiutare via referendum le proposte di Bruxelles: ad Atene furono accollate misure draconiane. E le accettarono, poiché la BCE, dopo il mancato pagamento di una rata, stoppò il meccanismo di trasferimento monetario; e il Governo fu costretto al controllo dei capitali per evitare fughe all’estero. In quei giorni dilagò la disperazione, con anziani piangenti per le strade, non riuscendo nemmeno a ritirare la pensione.
E’ lo stesso Dijsselbloem ad aver recentemente ammesso: “Sulle riforme, abbiamo chiesto troppo ai greci; riforme molto difficili da raggiungere perfino per un governo funzionante, e non era il caso di Atene”.
Le sue parole sono giunte dopo la fine ufficiale del programma di salvataggio per la Grecia. In otto anni, l’economia ellenica è crollata di un quarto, e un terzo dei greci è finito sotto la soglia di povertà; quasi il 5% della popolazione, in maggioranza giovani e professionisti, è emigrato.
Perciò l’analisi di Dijsselbloem, cioè che “l’Italia si deve salvare e invece il Governo sta perdendo tempo”, non va scambiata con un semplice editoriale di Bloomberg o del Financial Times. Quel commento lo concesse nel giorno in cui il Consiglio dei Ministri targato Lega-M5S si riunì per approvare il DEF 2018 – il Documento di Economia e Finanza da sottoporre anche alla Commissione Europea.
Sulla carta, i Paesi dell’Eurozona, per evitare un’altra crisi greca, devono perseguire politiche di contenimento del deficit, e di riduzione del debito pubblico. Come è stato fatto notare, ad esempio dal Sole24Ore, il DEF va nella direzione opposta: vengono cancellate misure prese dai precedenti governi, e pure la riforma delle Pensioni di Monti.
Nell’ottica M5S-Lega, l’Italia non può badare solo ai margini di bilancio imposti dal Fiscal Compact: la crescita verrà spinta solo con l’aumento della domanda interna. Soprattutto perché le politiche della Ue si sono rivelate insufficienti: il Quantitative Easing del 2012 è stato sfruttato dalle banche per ricapitalizzarsi; quello del 2014, legato all’iniezione di fondi per le imprese, non ha sortito risultati apprezzabili. Tutto ciò in presenza di un surplus della Germania pari a oltre 260 miliardi di €: il più alto del mondo; soldi che dovrebbero essere investiti in parte nell’Eurozona, affinché l’unione monetaria sia davvero funzionale.
Invece non accade; ed è in questo panorama apparentemente immutabile che M5S e Lega, alle scorse elezioni, si sono imposti rispettivamente come primo partito, e primo della coalizione del Centro-Destra. Lo stesso Matteo Renzi nel 2017, da Segretario del Partito Democratico, aveva promesso di aumentare il rapporto Deficit/PIL al 2,9% – appena sotto la soglia consentita dagli originali patti europei: fondi ulteriori per contrastare la stagnazione.
A Bruxelles la pensano diversamente: a crescere con questo DEF, sebbene il rapporto deficit/PIL, sulla carta, sia “solo” del 2,4%, sarà solo il debito; l’Italia dovrebbe perseguire nella tenuta dei conti. Non è una sorpresa, quindi, che la Commissione Europea abbia chiesto a Roma di riscrivere la manovra. Un invito rimandato al mittente dal Governo M5S-Lega.
Ecco quindi che lo scorso 18 ottobre Dijsselbloem, sempre alla CNBC, spiega cosa accadrà: le pressioni da parte della Commissione Europea non basteranno. L’autorità bancaria europea dovrà intervenire sugli istituti italiani, per far capire loro i rischi: siccome il debito è detenuto in larga parte proprio dalle banche nazionali, la perdita di valore dei titoli di Stato farà implodere il sistema (a maggior ragione con la fine del Quantitative Easing della BCE). Quindi, prosegue l’ex Presidente dell’Eurogruppo, un ruolo lo avrà anche il mercato, visto che l’Italia nel 2019 si deve finanziare per circa 260 miliardi di euro: “i mercati guarderanno con molta attenzione alla situazione italiana”.
Dallo studio della CNBC Dijsselbloem, però, tranquillizza un po’ tutti, anche chi potrebbe speculare: “a pagare le conseguenze di questa crisi saranno solo gli italiani”.
Ed è ridicolo che l’M5S abbia distorto le parole di Dijsselbloem, inventandosi un complotto per aumentare i tassi di interesse sui titoli di Stato. Sono proprio le parole dell’ex Presidente dell’Eurozona, così come sono, a distorcere la realtà: se l’Italia, in un confronto con Bruxelles, dovesse scegliere la linea dura, il conto lo pagherebbero anche gli attori internazionali che hanno un mercato nel nostro Paese. E se dovesse collassare il sistema bancario italiano, le conseguenze sarebbero anche sul piano politico: il progetto dell’Unione Europea rischierebbe la disintegrazione.
Per risanare l’Italia secondo le linee di Bruxelles, potrebbe anche arrivare Mario Draghi in persona alla guida di un governo tecnico – operazione già vista con Mario Monti. Tuttavia si troverebbe un arco parlamentare molto diverso rispetto al 2011; con una maggioranza dell’elettorato euro-scettico, e uno zoccolo pronto ad abbandonare l’Unione Europea.
Se in Grecia il governo di Syriza, nel 2015, voleva solo cambiare i termini del salvataggio, a Roma c’è un Governo i cui rappresentanti hanno più volte dichiarato: la soluzione per i mali dell’Italia è abbandonare la moneta unica. Il Ministro degli Affari Esteri Paolo Savona, nonostante le recenti rassicurazioni, “lavora” da anni a un piano d’uscita dall’euro. Perfino il Ministro delle Finanze greco Yannis Varoufakis, nel 2015, ne aveva predisposto uno per fronteggiare, temporaneamente, il previsto blocco dei trasferimenti bancari da parte della BCE. All’epoca fu il Primo Ministro Tsipras a rigettare quel “piano B”, arrendendosi alle condizioni di Bruxelles.
Oggi i termini del confronto sono molto diversi, e non solo perché l’Italia è molto più solida rispetto alla Grecia, avendo un surplus in attivo. L’attuale Governo scommette che la Germania e i Paesi nordici accetteranno severi compromessi; altrimenti l’Unione Europea dovrà sopportare l’uscita dell’Italia dalla moneta unica. E le elezioni europee del maggio 2019, qualora dovessero imporsi i partiti anti-europeisti, potrebbero radicalizzare le posizioni di M5S e Lega.
Per Dijsselbloem, grazie all’azione congiunta Ue-BCE-mercati, sarà il Governo di Roma a cedere; e gli italiani capiranno che è sbagliato l’approccio antagonista con Bruxelles. Nemmeno per un istante viene attraversato dal sospetto: se in Italia c’è un Governo disposto a uscire dall’euro, e smontare l’Unione Europea, lui è uno dei colpevoli principali. Dijsselbloem è fra quelli che, al timone del transatlantico, non solo non è riuscito a schivare l’iceberg del sovranismo; ma finge che lo squarcio sia solo un problema dell’Italia.
Di Cristiano Arienti
In copertina: Graffito anonimo ad Atene
Fonti e Link utili
https://www.bbc.com/news/av/world-europe-31561114/greece-and-eurozone-nations-agree-four-month-bailout-deal
https://www.theguardian.com/world/2015/jan/26/syriza-forms-government-rightwing-independent-greeks-party
https://www.youtube.com/watch?v=Dg9O5CNNbRc