Da Clinton a Trump: la “politica” del MeToo 20 anni dopo lo scandalo Lewinsky

All’estate del 1998, e “ai mortificanti dettagli della relazione fra Bill Clinton e Monica Lewinsky”, è dedicata l’apertura di un grande romanzo: La Macchia Umana, di Philip Roth. Attraverso la voce del narratore, Nathan Zuckerman, riviviamo quel periodo, “quando il pene di un Presidente era nella mente di ognuno, e la vita in tutta la sua vergognosa impurità confondeva, ancora una volta, gli Americani”; come ai tempi della colonizzazione, descritti ne La Lettera Scarlatta di Nathaniel Hawthorne, nel quale gli “inquietanti moralizzatori imbastirono la persecuzione dello spirito”. Zuckerman, che nel romanzo è uno scrittore e capace quindi di un’analisi profonda, non solo prova pietà per Bill Clinton, ma avrebbe voluto proteggere la sua privacy; si immagina che Christo, l’artista bulgaro, avvolga la Casa Bianca in una delle sue installazioni, un enorme telo con la scritta: “Un essere umano vive qui”.

Ma nel romanzo di Roth c’è un altro tipo di analisi sulla questione, ben più brutale, esposta attraverso un dialogo carpito in un parco; degli sconosciuti, con un linguaggio da osteria, condannano Bill Clinton, ma non per obiezioni moraliste: “Ha sbagliato perché non ha dominato quella stagista fino in fondo, sodomizzandola; così Monica Lewinsky non avrebbe avuto voglia di discutere della relazione con il Presidente, sarebbe rimasta zitta”. Nella loro visione, da inquilino della Casa Bianca, Clinton aveva perso l’attitudine del donnaiolo: citano la relazione extraconiugale con Jennifer Flowers, che l’allora Governatore dell’Arkansas non esitò a minacciare perché tenesse la bocca chiusa. A fregarlo non sarebbe stata la corruzione, ma la buona disposizione verso la Lewinsky. La giovane, per altro, “parlò solo perché l’avevano già registrata di nascosto mentre si confidava a un’amica; per poi finire “vittima di una gang-bang organizzata dall’Investigatore Kenneth Starr con il suo team, spingendola a confessare gli atti sessuali del Presidente”.

Fra loro c’era anche un 33enne avvocato, Brett Kavanaugh, diventato autore principale dello Starr Report, nella sezione proprio sui rapporti fra Clinton e Lewinsky. Dopo aver descritto ogni “mortificante dettaglio”, Kavanaugh concludeva che il Presidente doveva essere rimosso per spergiuro, e ostruzione alla giustizia. Ma la crociata di Kavanaugh non si fermò: sempre nel quadro dell’Indagine condotta da Starr, l’avvocato approfondì la morte di Vince Foster, presunto amante di Hillary Clinton fin dai tempi della loro partnership nello studio legale Rose, in Arkansas; intendeva dimostrare che Foster non morì suicida, come avevano concluso gli inquirenti, ma assassinato.

Una ricostruzione che rientra nella famosa vast right-wing conspiracy: è l’espressione usata dall’allora first lady Hillary contro chi attaccava lei e il marito. In questa teoria del complotto la Clinton ci infilava dentro, ridicolizzate, anche le donne che denunciavano Bill di molestie, come Paula Jones; o addirittura di stupro, come Juanita Broaddrick.

Risulta più comprensibile la frase di Kavanaugh di fronte alla Senate Judiciary Committee, mentre si difendeva dall’accusa di molestie su una ragazzina 36 anni prima: “E’ una vendetta dei Clinton”. L’ha pronunciata lo scorso settembre a un’audizione per la conferma a Giudice della Corte Suprema; una nomina contestata in partenza dal Partito Democratico, per via delle opinioni di Kavanaugh  sull’espansione del potere esecutivo del Presidente Usa, e le idee radicali sull’aborto. Il processo di conferma ha trovato un ostacolo in più con la testimonianza della Dottoressa Christine Blasey-Ford: è lei la ragazzina che 36 anni fa avrebbe subito l’aggressione da parte di un 17ettenne Brett Kavanugh in preda ai fumi dell’alcol.

Accuse rigettate con sdegno, e “smontate” anche per la scarsa memoria della presunta vittima: la Ford non ricorda il luogo dove avvenne la molestia, come ci finì, e insieme a chi. I Repubblicani hanno fatto quadrato intorno alla nomina fortemente voluta dal Presidente Trump; lanciando sospetti sulle manovre per circuire una testimone, messe in atto da un’amica della dottoressa Ford, l’ex agente FBI Monica McLean. E hanno giudicato infondate le accuse di un’altra donna: la prova, ai loro occhi, di un complotto contro il giudice.

Tuttavia, a loro volta, i Repubblicani hanno ignorato i fragili dinieghi di Kavanaugh riguardo alla sua fama di goliardico bevitore al liceo; e soprattutto la sua appartenenza a una confraternita che fra i motti annoverava “no vuol dire sì”.

I Democratici hanno chiesto con forza un’indagine dell’FBI prima del voto di conferma in Senato – per altro passata con il voto decisivo del democratico Joe Manchin; un’indagine concessa dalla Casa Bianca, ma con tempi e modalità per cui è stata definita un insabbiamento.

Vent’anni esatti dopo lo scandalo sui rapporti di Bill Clinton con Monica Lewinsky, l’America si ritrova sconvolta da un nuovo caso a sfondo sessuale. Stavolta, però, sono i Repubblicani a sgonfiarlo: secondo loro i Democratici hanno politicizzato episodi di 36 anni fa, e nemmeno provati, solo per bloccare la nomina di Kavanaugh. Con un’ulteriore accusa di doppio-pesismo: hanno sempre perdonato tutto a Clinton. Forse anche per questo le accuse di molestie rivolte a Donald Trump da parte di 22 donne, durante la Campagna presidenziale 2016, non hanno scioccato gli elettori repubblicani: durante una conferenza stampa il magnate ha personalmente presentato Paula Jones e Juanita Broaddrick, le quali indicavano nel marito di Hillary un molestatore e uno stupratore.

Dal canto loro, i Democratici puntano il dito contro l’ipocrisia dei Repubblicani: si ergono a difesa della sacralità della famiglia, ma sostengono un Presidente che, di fronte allo staff di uno show televisivo, si vanta di poter approcciare come vuole le donne, anche di “afferrarle per la f**a”. E poi, come può Trump difendere i valori del matrimonio, visto che si intratteneva in una relazione extraconiugale con una pornostar mesi dopo la nascita di suo figlio?

Se vent’anni fa uno scandalo sessuale rischiò di spodestare un Presidente eletto, oggi i rapporti extra-coniugali, o le accuse di molestie, non scalfiscono nemmeno Trump; il quale, a sua volta, ha fatto da scudo a Kavanaugh. E probabilmente lo sosterrebbe anche se la denuncia della Ford fosse ben più documentata. Invece il Presidente si è scagliato contro la presunta vittima, definendola indirettamente “una persona malvagia“.

La politicizzazione del caso Ford-Kavanaugh è destinata a riverberarsi ancora per molto, come lo scandalo Clinton-Lewinsky; ma in un contesto diverso: oggi siamo in pieno MeToo (Anche Io), il movimento di risveglio dell’universo femminile. Da circa un anno la società Usa, e molti altri Paesi, devono fare i conti con una verità fin troppo trascurata: molte donne sono state oggetto di molestie, aggressioni o stupri; sul posto di lavoro, all’università, per strada, e perfino fra le pareti di case ritenute sicure, e che invece erano trappole. Con coraggio hanno iniziato a farsi avanti, spesso identificando l’aggressore, e raccontano pubblicamente la loro esperienza di dolore; fino a oggi celata sotto il peso della vergogna, o della paura di non essere credute; traumi bisbigliati, al limite, a parenti e amici; solo in rari casi denunciati alla polizia, vincendo l’ansia di vedersi umiliate dai giudizi di conoscenti ed estranei, o bloccate nella carriera.

Non si tratta più dell’ossessione pruriginosa, o puritana, per le evoluzioni erotiche fra un potente e una stagista; ma la presa di coscienza che la stagista – come la studentessa, la collega, la parente – ha subito un abuso, o una violenza; e il potente – come il professore, o il compagno, o l’ultimo dei colleghi – non può più passarla liscia. L’obiettivo di MeToo, in definitiva, non è spodestare Kavanaugh, Trump, o mettersi alle spalle Bill Clinton e Hillary – malvista perché coprì l’infedeltà maniacale del marito; il movimento aspira a un mondo dove le donne vivano con più tranquillità le dinamiche con gli uomini; soprattutto nei contesti dove non ci si aspetterebbe molestie. Perchè non si debba aggiungere un’altra voce al coro: “Me Too – anche io sono stata abusata-aggredita-stuprata”.

Christine Blasey-Ford è diventata un’icona del movimento: ha trovato il coraggio di farsi avanti e indicare l’uomo che, da una posizione pubblica così invasiva come la Corte Suprema, la costringerà a “rivivere” la molestia subita 36 anni prima. E se alla fine le accuse dovessero dimostrarsi infondate, MeToo andrebbe avanti comunque: troppe sono le storie, corroborate anche da testimonianze, che dipingono una società insensibile verso i torti subiti dalle donne.

Il caso Kavanaugh impone, però, un altro tipo di riflessione: va certo garantita alla vittima la possibilità di denunciare un torto; il tempo trascorso non può essere un’attenuante per chi ha segnato l’esistenza di una donna. Tuttavia va garantito anche il diritto di difendersi per chi è sospettato di crimini ripugnanti; e di mantenere la presunzione di innocenza fino a prova contraria. Altrimenti si rischia un altro genere di “persecuzione”: invece della lettera “A” di adultera, come ne La Lettera Scarlatta, sulla fronte di uomini senza colpe potrebbe imprimersi la lettera “M” di molestatore.

Infine, c’è un’altra differenza rispetto a vent’anni fa: lo scorso maggio ci ha lasciato Philip Roth; uno scrittore ispirato come lui ci aiuterebbe a definire meglio i termini del caso Kavanaugh-Ford, e lo spirito di questi nostri tempi.

di Cristiano Arienti

In copertina: Tarana Burke, iniziatrice dell’hashtag MeToo

Link Utili

Audizioni di Brett Kavanaugh e Christine Blasey-Ford davanti alla Senate Judiciary Committee

 

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