Non lasciarmi, umanità
Cosa siamo disposti ad accettare, come società, pur di raggiungere obiettivi meritevoli, come ad esempio la cura di malattie terminali? Esistono limiti etici oltre i quali il sogno di lenire le sofferenze diventa impraticabile, a prescindere dalla capacità della scienza di avverarlo? E cosa succede se la speranza di allungare la vita all’improvviso è realtà, e il dibattito su tali limiti giunge in ritardo? Quanto è difficile tornare sui propri passi quando la società, a livello individuale e collettivo, mette in discussione il benessere garantito unicamente dal sacrificio di “altri”?
Ecco le questioni poste in Non lasciarmi, romanzo ucronico del premio Nobel Kazuo Ishiguro; l’opera, non è un caso, è stata pubblicata nel 2005, due anni dopo la morte della pecora Dolly, il primo mammifero clonato. Ambientato in un arco di tempo che va dagli anni ’70 fino all’inizio del millennio, racconta di come a partire dal dopoguerra, grazie alle scoperte scientifiche in campo genetico, in Gran Bretagna si iniziarono a clonare esseri umani con l’unico scopo di creare “donatori”; veri e propri magazzini viventi di organi da trapiantare ai cittadini ammalati. Inizialmente riprodotti in vitro, con il trascorrere del tempo le autorità decisero di “crescere” quelle creature in cattività, anche per una ragione pratica: i trapianti sono qualitativamente migliori con organi di giovani adulti sani. Tuttavia, in presenza di quelle repliche, generati dal DNA di persone emarginate, si sono materializzate domande di carattere etico: avranno un’anima anche loro? Per quanto a noi sembri assurda, in Non lasciarmi la questione diventa il cuore di un acceso dibattito in quella società, con gruppi di pressione in lotta per migliorare le condizioni di vita di quei “sub-umani”. Si istituiscono quindi percorsi di crescita, in luoghi sempre meno indecorosi, dove i “donatori” imparano anche a diventare “assistenti”: i cloni, nella fase di sanguinolenti espianti, non sono abbandonati a loro stessi, ma ricevono le cure – pratiche, psicologiche ed emotive – di altri replicanti. Quel che attende tutti, però, è la morte, che sia alla prima donazione, o alla quarta, di solito quella fatidica; il loro destino è di spegnersi affinché i “cittadini” ricevano organi freschi.
Tuttavia è con la fondazione di vere e proprie scuole, dove i bimbi vengono istruiti nelle arti, nella filosofia, nella scienza, che la domanda se essi abbiano un’anima diventa superflua: la produzione artistica, sebbene scimmiotti quella di veri poeti e pittori, è comunque espressione di una vastità interiore. I cloni, insomma, reclamano una umanità semplicemente vivendo; ed è a quel punto che il dibattito, nella società distopica immaginata da Ishiguro, si arresta: riconoscergli un’identità – o un’anima – necessiterebbe riservare ai cloni dei diritti; il che minerebbe alle fondamenta il progetto stesso di “coltivare” magazzini viventi di organi.
Ecco che a livello collettivo gli “studenti”, come vengono soprannominati, diventano sostanzialmente invisibili. Si procede a un’opera di disumanizzazione di quei bambini. All’interno degli stessi gruppi che si adoperano per migliorarne le condizioni, i “donatori” vengono” chiamati “povere creature”: sorge il dubbio, quindi, che le buone intenzioni si limitassero a sciacquare una coscienza turbata; e che il traguardo non fosse l’accesso, per gli”studenti”, a uno stato di diritto. Anzi, quella vita dignitosa garantita in alcuni istituti, viene addirittura smantellata: perché incoraggiava i ragazzi verso una pericolosa auto-coscienza.
Il lettore di Non lasciarmi, invece, non nutre dubbi sul fatto che gli “studenti” siano in tutto e per tutto esseri umani, nell’accezione universale del nostro tempo; il romanzo parte con l’incipit lancinante:
“Mi chiamo Kathy H. Ho trentun anni, e da più di undici sono un’assistente”
Leggendo l’autobiografia di Kathy, ci addentriamo in questo presente distopico dal punto d’osservazione degli “studenti”; e sin dalle prime pagine ci rendiamo conto che la loro vita, rinchiusa nel recinto di un collegio, assomiglia alla nostra infanzia-giovinezza: dalle amicizie con chi ci è affine, alla competizione fra i banchi di scuola; dalle prime infatuazioni ed esperienze sessuali, alle liti e delusioni; dalla consapevolezza di una propria identità, ai sogni rivolti alla vita adulta. Con alcune grandi differenze: Kathy e i suoi compagni non hanno un padre né una madre, e non potranno mai diventare genitori; il personale dell’istituto, gli unici adulti di riferimento, si fanno chiamare “guardiani”. E infine, il crescente presentimento di essere in qualche modo “diversi”; con un destino speciale che si manifesta nel periodo post-adolescenziale: sono gli stessi “studenti” a decidere quando inoltrarsi nella società, a rendersi reperibili per “l’assistenza” prima, e rispondere alla convocazione per le “donazione” poi.
La resa di fronte a questo destino sacrificale fa ribollire il sangue al lettore; eppure gli studenti non hanno alcuna alternativa. E questo nonostante l’assenza di uno stato di polizia, visto che sono liberi di movimento; forse però, basta davvero la coercizione psicologica praticata su questi cloni sin dall’infanzia a renderli mansueti. L’unico a intuire a livello sub-conscio che c’è qualcosa di profondamente sbagliato in quell’esistenza è Tommy, il compagno di Kathy; ma la sua è la ribellione del pazzoide, non di un individuo che coltiva una “coscienza politica”; la sua produzione artistica, sbocciata in ritardo, è però un intuitivo disvelamento: disegna ossessivamente degli animali metallici. E quando i due giovani, inseguendo voci non verificate, si presentano dai vecchi “guardiani” per ottenere un prolungamento di vita, sperando che Tommy sia esentato da nuove donazioni, ecco che si ritrovano di fronte, semplice e terrificante, la verità: vivono sotto il dominio di una società che li considera solo carne da macello.
Si ribaltano così i ruoli, agli occhi del lettore: sono i “cittadini” a essere disumani e bruti, secondo l’accezione del nostro tempo – l’inizio millennio di Ishiguro. I “guardiani”, in teoria solidali verso i cloni, si negano perfino al contatto più innocente con gli studenti; costruendogli intorno una barriera anaffettiva più solida di qualsiasi recinto fisico. Ed è fortissimo il contrasto fra questa fredda distanza con il passo più lacerante del libro, quando Tommy e Kathy, svanito il sogno di vivere come una normale coppia, si ritrovano stretti l’uno all’altra nella notte buia e spazzata dal gelo.
E’ quel contatto fisico, in caduta libera nel baratro della disperazione, che sa tanto di calore d’anima-le; è quel preciso sentimento che ci rende davvero umani, più di qualsiasi scoperta scientifica – che anzi ha dato il via al processo di disumanizzazione dei “cittadini”. E’ l’amore che ci rende davvero vivi, più di qualsiasi capacità letteraria o pittorica, quelle per cui è stato determinato che i cloni avessero un’anima. L’arte stessa, nella società di Non lasciarmi, diventa un esercizio sterile, visto che poi i “cittadini” non sanno come comportarsi di fronte all’umanità di quei cloni, e continuano a concepirli allo scopo di “coltivare” organi.
Paradossalmente, però, sono proprio Kathy e Tommy a ridare un senso alla parola “arte”: lui con disegni che traducono in immagini lo spirito del suo tempo; lei con il suo memoriale, dai primi ricordi fino all’esperienza da “assistente”; che forse non basterà a liberare “gli studenti” dallo spietato giogo, ma contribuirà a cambiare l’attitudine della società nei loro confronti.
Attraverso la letteratura o l’arte in generale, del resto, sono stati rilanciati grandi movimenti di liberazione nella nostra storia: si pensi all’abolizione della schiavitù, o il consolidamento dei diritti dei lavoratori; fenomeni politici non a caso del diciannovesimo secolo, quando si è imposto il romanzo come veicolo di lotte e ideali in grado di mutare, nel corso di decenni, la sensibilità della società.
In Non lasciarmi, steso nei primi anni del millennio, è esclusa l’esplosione di internet, e dei social media, che stanno mutando la diffusione di idee e messaggi in modo non del tutto decifrabile; ma rimane saldo il principio che l’arte, intesa come testimonianza, porti avanti battaglie in campo politico, sociale ed etico. Anche, perciò, per la questione complessa al centro del libro di Ishiguro: le frontiere della scienza, il suo abusarne, e i risvolti sulla società. Sono temi certamente attuali: si pensi al referendum abrogativo sui limiti alla ricerca clinica e sperimentale sugli embrioni, proprio del 2005, o alla sperimentazione su animali viventi a scopi di studio e ricerca; la necessità di trovare cure a malattie terminali entra in attrito con il rispetto nei confronti della vita, in qualunque modo essa venga intesa. Ogni generazione di cittadini è destinata a confrontarsi su questi temi – come ad esempio l’interruzione della gravidanza – e rinnovare il compromesso fra le varie idee di umanità, e il progresso nel campo medico e della salute.
Tuttavia l’impianto narrativo di Ishiguro si presta a un altro tipo di lettura: mostra l’autorità dello Stato che si trasforma in un organo perverso; con la società che accetta, per convinzione, ignoranza o indifferenza, la legge della violenza e della sopraffazione sui diversi, i deboli, i sottomessi, i perseguitati. Purtroppo è sempre esistito lo schiacciamento perpetrato da classi dominanti su uomini, donne e bambini attraverso la schiavitù, la colonizzazione, l’apartheid, la pulizia etnica, l’odio religioso. E’ una cicatrice della nostra storia, ed è ancora aperta in varie regioni del pianeta, ovunque vi sia l’esercizio di controllo sociale su chi non ha diritti. Ed è possibile allargare il perimetro dell’indagine agli animali confinati negli allevamenti intensivi, vere e proprie catene di sterminio di esseri viventi.
Ecco quindi che Ishiguro sembra offrirci uno specchio: i “cittadini” di Non lasciarmi potremmo essere noi, che restiamo indifferenti di fronte a persecuzioni di interi popoli o etnie; che rimaniamo freddi alla sorte riservata agli animali destinati alla sperimentazione o agli scaffali dei supermercati; che non ci preoccupiamo delle condizioni di lavoro di chi, senza protezioni basiche, cuce i vestiti esposti nei grandi centri di abbigliamento; che voltiamo le spalle a chi attraversa distese di sabbia, e lenzuoli di acqua, per sfuggire da miseria e guerre.
In quell’immagine riflessa scorgiamo l’umanità nella quale, da individui e da cittadini, desideriamo riconoscerci?
di Cristiano Arienti
In copertina: locandina del film Never let me go, tratto dall’omonimo romanzo.
Letto il libro, che avevi consigliato anche su twitter, grazie.
Bello e straziante. Spaventoso anche. Perché parla di come noi esseri umani riusciamo a essere crudeli e indifferenti con chi ci è indicato come inferiore. Come diamo maggiore importanza ai “prodotti” (fossero pure grandi opere d’arte) che all’empatia, alla solidarietà, all’amore: a ciò che realmente riempe la nostra vita e rende anche la più misera e oscura degna di essere vissuta. Di come talvolta l’aiuto che crediamo di dare sia soltanto un narcisistico inganno. Di come avesse ahimè ragione Freud: alla felicità preferiamo la sicurezza. E l’accettazione passiva dei cloni a me ha riportato alla mente le parole di Primo Levi sui kapò in Sommersi e salvati, dove dice che la responsabilità dei comportamenti dei kapò è interamente dei nazisti, che così li hanno costretti a essere. Mette paura il romanzo anche perché la consapevolezza che chiede, la consapevolezza che umanamente sempre dovremmo mantenere (vedere Kathy ragazzina ballare a occhi chiusi abbracciata al cuscino) si scontra troppo spesso con l’impotenza delle situazioni in cui ci troviamo a vivere.
A proposito di Primo Levi, che hai citato nel tuo intervento, ti consiglio un libro che inonda di energia positiva – in contrapposizione a questo che, come hai osservato, e per quanto sia bello, è spaventoso.
E’ “Il Sistema Periodico”, una raccolta di racconti autobiografici che ti danno la misura di un uomo nato normale, e costretto suo malgrado a diventare un gigante per mettersi in spalla l’immensa tragedia dell’Olocausto.
Un libro fantastico.