Emailgate, la caccia dell’Fbi ai Clinton diventa scontro istituzionale
Lo scorso 2 novembre il Presidente Usa Barack Obama ha pesantemente criticato il Direttore dell’Fbi James Comey per aver riacceso il caso Emailgate: “Non operiamo sulla base di leaks (notizie filtrate alla stampa), ma su basi concrete. Fbi e Dipartimento di Stato, continua Obama, avevano deciso che la Clinton, nella gestione delle sue email private, non aveva fatto nulla che giustifichi un’incriminazione. Comey ha generato tensione nella campagna presidenziale con notizie incomplete”.
E’ una condanna netta e senza appello contro il capo della polizia federale degli Stati Uniti.
Si acuisce così una crisi istituzionale causata dalla lettera di Comey, inviata al Congresso, lo scorso 28 ottobre: il Direttore dell’Fbi comunicava la scoperta di nuove email del server privato di Hillary Clinton, ritrovate su un computer di una persona non autorizzata a gestire materiale classificato, ed estranea alla precedente indagine. Il Direttore Comey non ha saputo specificare quante e quali email siano ora oggetto di indagine. Sarebbero decine di migliaia, scambi di posta elettronica tra Clinton e Huma Abedin, la sua storica assistente, durante il periodo al Dipartimento di Stato. Il computer appartiene ad Anthony Weiner, da qualche mese ex marito della Abedin; era stato sequestrato nel corso di un’inchiesta su una relazione di natura sessuale tra Weiner e una minorenne. Il caso era in mano agli agenti Fbi di New York i quali, una volta analizzati i metadati delle email, hanno passato le informazioni ai colleghi di Washington. Potrebbero esserci anche le 33.000 email mai consegnate al Dipartimento di Stato (in violazione di varie leggi federali) e cancellate con un software nel marzo 2015 nonostante il Congresso avesse appena ordinato di conservarle tramite sub-poena.
Lo scorso aprile, interrogata dall’Fbi, la Abedin aveva ammesso che forse le email del server della Clinton erano state immagazzinate su un laptop, ma non ricordava che fine avesse fatto l’apparecchio. Tuttavia l’Fbi non aveva emesso nessun ordine di perquisizione per ricercare quel computer.
Per la mancanza di ordini di perquisizione, per la distribuzione di immunità a figure chiave dell’inchiesta, e per la benevola interpretazione di fatti accostabili a ostruzione di giustizia, l’esito dell’indagine Fbi era stato oggetto di critiche, in particolare da esponenti repubblicani. Il tutto si risolveva in un’estrema imprudenza da parte dell’ex Segretario di Stato, generata, come sottolineato in un editoriale del New York Times, dall’inclinazione dei Clinton a mettersi al di sopra della legge. Per il Direttore Comey l’ex Segretario di Stato aveva sì trasferito materiale classificato su canali non governativi, (un reato), tuttavia non era stata riscontrata nessuna intenzionalità malevola. E la distruzione di materiale governativo, ad esempio le email tra Clinton e il Direttore della Cia David Petraeus – era stato solo un incidente.
Ecco giustificata la raccomandazione, lo scorso luglio, di non incriminare l’ex Segretario di Stato; annuncio avvenuto durante un’insolita conferenza stampa: Comey si era sentito in dovere di motivare la sua raccomandazione, dopo che il Segretario alla Giustizia Loretta Lynch si era goffamente chiamata fuori dal prendere l’ultima decisione. Ufficialmente, la Lynch aveva fatto un passo indietro – ma senza ricusare il ruolo – a causa di un incontro eticamente scorretto con Bill Clinton, implicato nell’inchiesta. “Accetterò qualsiasi raccomandazione dell’Fbi”, aveva dichiarato la Lynch.
Un modo per dire: il Dipartimento di Giustizia non intende incriminare Hillary Clinton, o non si prende la responsabilità di un’incriminazione a opera dell’Fbi.
La crisi istituzionale di cui si parla oggi, quindi, era già scoppiata a causa della rottura delle procedure tra il Dipartimento di Giustizia e il suo braccio operativo, l’Fbi. Uno strappo, tanto che davanti al Congresso, Comey era stato accusato di aver coordinato la sua indagine con l’entourage dei Clinton.
Il primo strappo, però, va datato ben prima: proprio l’inquilino della Casa Bianca aveva sorvolato sulla separazione dei poteri istituzionali; nell’ottobre 2015, pochi mesi dopo l’apertura dell’indagine, Barack Obama aveva di fatto sponsorizzato la non incriminazione della Clinton, all’epoca già in corsa per le elezioni Presidenziali; era un avvertimento per l’Fbi: lasciate perdere.
Emailgate e l’isolamento dell’Fbi
Loretta Lynch ha tentato di stoppare in extremis il Direttore dell’Fbi, prima che inviasse la lettera al Congresso: la riapertura dell’indagine su una candidata alla Casa Bianca, a una decina di giorni dalle elezioni Presidenziali, può avvantaggiare l’avversario.
Comey, tuttavia, è andato contro il parere del Segretario alla Giustizia, ufficialmente per una ragione tecnica: aveva promesso di informare il Congresso in presenza di nuovi indizi sul caso del server privato. A peggiorare il quadro, un dettaglio: nella lettera spiega di non sapere quanto siano rilevanti le email per un’eventuale incriminazione.
Gli agenti Fbi che hanno scovato le email sul computer di Weiner non le hanno lette (un’autorizzazione è pervenuta qualche giorno dopo per gli agenti titolari dell’inchiesta); tuttavia hanno avuto tutto il tempo di studiarsi i metadati: quindi chi invia, chi riceve, la data e l’oggetto delle email.
Comey deve aver fatto questo ragionamento: se non annuncio il ritrovamento di nuove email sul computer di una persona non autorizzata a gestire materiale classificato, qualcuno all’interno dell’Fbi potrebbe filtrare le informazioni alla stampa. L’ex sindaco di New York Rudy Giuliani, consigliere del candidato repubblicano Donald Trump, ha ammesso di aver saputo la notizia con largo anticipo (alimentando la narrativa di una caccia alle streghe da parte della polizia federale). Il Direttore dell’Fbi rischiava di passare per un insabbiatore, peggiorando una rivolta interna dell’Fbi, ormai scoppiata da quasi un anno, per il trattamento di favore riservato ai Clinton (fonte WSJ).
Negli ultimi mesi, tra l’altro, l’impianto assolutorio è crollato miseramente, riguardo alla cancellazione delle oltre 30.000 email mai consegnate: è stata comprovata coordinazione tra l’entourage dell’ex Segretario di Stato e lo specialista IT che si è autoaccusato del fatto; alcuni rappresentanti del Congresso, come Jim Jordan, hanno ricostruito davanti a Comey la scaletta degli eventi incriminanti, con prove accessibili su internet: un’umiliazione per la più alta carica della polizia federale.
Inchieste giornalistiche della Associated Press e di Politico, solo per fare due esempi, avevano sollevato il dubbio che nelle email cancellate ci fossero le prove dell’interessamento di Hillary per gli affari della Fondazione; in aperto conflitto di interessi.
Il discredito sull’Fbi è conflagrato con la pubblicazione delle “Podestaemails” da parte di Wikileaks. Lo scorso 6 ottobre l’organizzazione editoriale di Julian Assange ha cominciato a pubblicare le email di John Podesta, capo campagna di Hillary Clinton, già capo di transizione di Barack Obama, e potente lobbista di Washington. Le email sarebbero state rubate da un hacker (o un gruppo di hacker) tramite phishing, operato attraverso un indirizzo IP ucraino. A oggi, nonostante negli Usa si punti il dito contro il Cremlino, non si conosce l’identità di chi abbia violato la posta elettronica di John Podesta, nè le sue motivazioni.
Dalle email è emersa la conferma che l’entourage di Clinton aveva ostruito l’indagine Fbi e la Commissione su Bengasi. Inoltre, salta fuori che il Presidente degli Stati Uniti sapeva che la Clinton usava un indirizzo email privato mentre era alla guida della politica estera Usa.
L’indagine dell’Fbi aveva già stabilito la quasi certezza che gli archivi email dell’ex Segretario di Stato erano stati visitati dall’Intelligence di vari Paesi, anche ostili. Oltre che da comuni hacker, ad esempio il rumeno Marcel Leher, noto come Guccifer.
In sostanza, tutti erano al corrente delle gravi mancanze della Clinton nella gestione di materiale governativo, e della sua estrema imprudenza riguardo a informazioni classificate, anche top secret; ma è toccato all’Fbi mettere una pezza a un problema che investe le maggiori istituzioni del Paese.
Tuttavia la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la scoperta che la moglie del supervisore dell’inchiesta sul server della Clinton, il vice-Direttore Fbi Andrew McCabe, ha ricevuto finanziamenti per 500.000 $ da parte di un fedelissimo dei Clinton, il Governatore della Virginia Terry McAuliffe.
E come se non bastasse, dalle “Podestaemails” è emerso che Peter Kadzik, vice-Segretario alla Giustizia, aggiornava il capo della campagna di Hillary Clinton sulle novità relative all’indagine.
Attualmente Kadzik, all’interno del Dipartimento di Giustizia, è la persona incaricata di supervisionare il nuovo filone d’inchiesta sulla Clinton, relativo al computer di Weiner-Abedin.
Il coinvolgimento del vice-Direttore dell’Fbi e del vice-Segretario alla Giustizia nel proteggere la Clinton ha corroborato le accuse rivolte a Comey durante le audizioni al Congresso: di aver coordinato l’inchiesta con attori esterni all’indagine.
A questo si aggiunga: le nuove email provenienti dal periodo della Clinton al Dipartimento di Stato (diverse da quelle già consegnate) sono state ritrovate nel computer di Anthony Weiner, un ex politico in carriera, e Huma Abedin, i cui genitori siedono ai vertici della Fratellanza Musulmana. Se fosse stato filtrato alla stampa prima che l’Fbi riaprisse l’inchiesta, lo scandalo avrebbe dato il colpo di grazia alla credibilità della polizia federale.
Lo schema corruttivo dei Clinton a cielo aperto
“La decisione di Comey è un fatto senza precedenti; chiediamo che sia fatta immediatamente luce”. Questo è l’attacco frontale della Clinton nei confronti del Direttore Fbi. Le accuse vanno ad aggiungersi a un coro di proteste contro l’operato di Comey. Il critico più severo è stato Eric Holder, ex Segretario alla Giustizia dell’Amministrazione Obama, con un editoriale apparso sul Washington Post il 30 ottobre: “Comey ha negativamente influenzato la fiducia pubblica nell’Fbi e nel Dipartimento di Giustizia, distribuendo disinformazione. Inoltre, continua Holder, ha violato la tradizione di non intervento di pubblici ufficiali negli ultimi mesi di campagna presidenziale. Un grave errore da parte di Comey.”
Se a luglio Comey era completamente in balia delle critiche, stavolta è successo qualcosa di molto diverso: lo scorso 2 novembre l’Fbi ha pubblicato 130 pagine di inchiesta sull’operato di Holder da vice-Segretario alla Giustizia, nel caso di Marc Rich, un fund manager ricercato dalle autorità Usa per frode e riciclaggio. Nel 2001, nell’ultimo giorno di Bill Clinton alla Casa Bianca, il Presidente concesse il perdono a Rich. Il Procuratore federale titolare dell’inchiesta era proprio James Comey, il quale criticò aspramente la decisione, e in particolare il vice-Segretario alla Giustizia. Fu uno scandalo, perché Holder aveva gestito personalmente la pratica di perdono, rompendo varie procedure formali.
Nell’inchiesta Fbi sul caso, emerge come Holder fosse stato convinto dall’avvocato di Rich, quel Peter Kazdik che oggi è supervisore al Dipartimento di Giustizia del nuovo filone emailgate.
Dopo il perdono concesso da Bill Clinton, Marc Rich divenne uno dei primi grandi finanziatori della Clinton Foundation. Infatti l’Fbi ha indagato sull’intreccio Rich-Kadzik-Holder-Clinton per capire se vi fosse dietro una schema corruttivo: perdono in cambio di soldi.
Il sito dell’Fbi, nell’introdurre l’inchiesta sul caso Rich, specifica che è la prima parte di un’indagine (ormai più che ventennale) sulla Clinton Foundation. E’ un avvertimento nemmeno troppo velato: sui Clinton e i loro alleati abbiamo materiale molto compromettente.
Ed è proprio sulla Clinton Foundation, ufficialmente un’organizzazione benefica e non profit, che da tempo esiste una profonda divergenza fra l’Fbi e il Dipartimento di Giustizia. Sempre per l’articolo del Wall Street Journal già citato, fonti autorevoli hanno confermato: ben tre uffici territoriali della polizia federale avevano chiesto al Dipartimento di Giustizia di incriminare i Clinton con l’accusa di corruzione.
L’impianto indiziario, però, adesso è sotto gli occhi di tutti, attraverso le “Podestaemails” pubblicate da Wikileaks.
Lo schema corruttivo è ricostruibile, in particolare, grazie a un memorandum di Doug Band, capo di Teneo, la società di Pubbliche Relazioni di cui fino al 2015 Bill Clinton era Presidente onorario. Il documento risale al novembre 2011 (Hillary era Segretario di Stato), e fu inviato da Band per paura che i Clinton volessero tagliare fuori Teneo dagli affari della Fondazione.
Si tratta di un resoconto del rapporto fra Teneo e i Clinton, e delle attività della società di pubbliche relazioni: pressioni sui clienti perchè elargiscano donazioni alla Fondazione, ed emolumenti ai Clinton in forma di discorsi e consulenze; Band usa le espressioni “leveraging Teneo for the Foundation” e “for-profit activities of President Clinton”.
In cambio i clienti di Teneo, multinazionali, banche, governi esteri, hanno accesso ai Clinton; i quali spendono una trentennale influenza politica per favorire i loro benefattori. I Clinton hanno continuato ad avvantaggiarsi di questo schema ben oltre la discesa in campo di Hillary nelle elezioni presidenziali, come attestano i 12 milioni di dollari $ sborsati dal Re del Marocco per incontrare la candidata democratica.
Nel memorandum di Band viene confermato che organizzazioni come Ubs e Dow Chemical hanno donato solo dopo aver avuto accesso a Hillary Clinton mentre era Segretario al Dipartimento di Stato. Entrambe le organizzazioni hanno risolto problemi con le leggi Usa nell’ordine di miliardi di dollari.
In 25 anni la Clinton Foundation ha creato un giro di denaro per oltre 2 miliardi di $. I Clinton potrebbero aver recepito all’incirca 100 milioni di $ solo grazie ai contratti di lavoro procurati da Teneo; è Doug Band che dettaglia questa cifra nel memorandum.
Oggi l’Fbi ha in mano la chiave di lettura per incriminare i Clinton, sullo sfondo dello schema corruttivo appena delineato. Infatti, quando il Presidente Obama avvisa: “non operiamo basandoci su leaks”, si riferiva quasi certamente al documento di Doug Band.
Tradotto meglio: l’Fbi può anche trovarsi di fronte a uno dei più grandi schemi corruttivi nella politica Usa degli ultimi decenni, ma senza un solido impianto indiziario non può pretendere nessuna incriminazione.
Il problema è capire quali siano le prove dell’Fbi; è appurato che Loretta Lynch (che iniziò la carriera di Procuratore federale su nomina di Bill Clinton) ha attivamente protetto Hillary Clinton, rifiutandosi di prendere parte al processo decisionale nell’Emailgate. Che farebbe, invece, un altro Segretario alla Giustizia? Trump ha già annunciato: “se vinco, do ordine di perseguire la Clinton Foundation”.
Rimane il rebus su come intende procedere Comey: raccomandare un’incriminazione di Clinton per l’Emailgate, oppure chiudere le indagini ri-assolvendola definitivamente? E le indagini sulla Clinton Foundation sono destinate ad andare avanti fino a quando l’Fbi non avrà costruito un caso inaffondabile? Si noti che a quell’ora, Clinton sarà Presidente degli Stati Uniti (o semplice cittadina): è prevedibile che alla Casa Bianca uno dei suoi primi obiettivi sarà far fuori Comey.
Jason Chaffetz, giovane leader repubblicano e Presidente della Commissione Oversight and Reforms del Congresso, ha già annunciato che qualora Hillary Clinton diventasse Presidente, non esiterebbe a metterla in stato d’accusa per l’Emailgate.
Siamo di fronte, quindi, a una crisi istituzionale di proporzioni enormi, che mette contro l’Fbi e parte del Congresso contro l’inquilino della Casa Bianca e la sua probabile erede; fino al punto che vari commentatori si sono chiesti: perchè Obama non si decide a perdonare la Clinton?
Ormai l’Emailgate è uno scandalo paragonabile al Watergate, o all’Iran-Contra. Nixon resistì due anni, poi venne travolto dallo scandalo (e il tentativo di insabbiamento) delle cimici piazzate nel quartier generale del Partito Democratico. George H. W. Bush ne uscì indenne, e rafforzato, dallo scandalo delle armi vendute all’Iran per finanziare una guerra segreta in Nicaragua.
La sorte di Hillary Clinton, il futuro della sua Fondazione, e la sua eredità politica: tutto è legato agli sviluppi dell’Emailgate, un macigno che non ha ancora arrestato la sua corsa.
di Cristiano Arienti
In copertina: Hillary Clinton – foto AFP di Jewel Samad
Link per i precedenti articoli sull’emailgate di UmaniStranieri
http://nypost.com/2016/10/31/huma-abedins-april-warning-from-the-fbi/
https://www.theguardian.com/us-news/2016/nov/03/fbi-leaks-hillary-clinton-james-comey-donald-trump