Murdoch, Berlusconi e il potere della disinformazione

Primavera 2011 – Kabul. Quello che segue è lo stralcio della registrazione di un colloquio riservato tra David Petraeus, allora Comandante in Capo delle Forze armate americane in Afghanistan, e Kathy McFarland, inviata di Fox News, canale di informazione americano apertamente di destra:

“Ecco generale, ho un messaggio da parte di Roger Ailes (fondatore e presidente di Fox News): Roger è pronto a dimettersi per guidare la tua campagna elettorale, qualora tu fossi disponibile a candidarti alle primarie repubblicane.”

All’epoca c’erano molte aspettative attorno a Petraeus, ideologo ed esecutore della strategia “vincente” in Iraq dopo i disastrosi primi anni di campagna militare. La stima di molte personalità, tra cui lo stesso presidente Barack Obama, lo stavano lanciando di prepotenza sulla scena politica. Già circolavano voci di un suo incarico alla guida della Cia, i servizi segreti americani.

“Chi finanzierebbe la mia campagna elettorale?”, domanda Petraues.

“Ailes contribuirà; ma insomma, i soldi ce li mette il ‘big boss!”, risponde la McFarland, che poi aggiunge: “Ailes guiderà la campagna mentre tutta Fox News lavorerà per la tua elezione a presidente degli Stati Uniti. Per questo ti converrebbe rifiutare la proposta di guidare la Cia. E’ solo una mossa di Obama per bruciare la tua candidatura.”

Il ‘big boss’ è Rupert Murdoch, magnate dell’impero mediatico News Corporation, proprietaria non solo di Fox News ma, tra gli altri, delle tv Sky (al 100% o quote maggioritarie) e dei giornali americani New York PostWall Street Journal, .

“Rupert mi sta dietro da tempo”, dice Petraeus, ammettendo così pressioni da parte dello stesso Murdoch.

Il generale lascerà cadere quella proposta, e nell’aprile 2011 accetterà  la guida della Cia, secondo lui l’ambiente dove “si sta spostando il potere”. Appena un anno e mezzo dopo Petraeus sarà costretto a dimettersi, travolto dallo scandalo di una relazione extraconiugale con la sua biografa Paula Brodwell, conosciuta in Afganistan nel 2010, alla quale aveva confidato anche segreti militari.

La conversazione Petraeus-McFarland, uno scoop del Washington Post, fa riemergere il problema dei rapporti troppo stretti che si instaurano tra politica e informazione. Queste due sfere della vita pubblica dovrebbero restare separate, nell’interesse dei cittadini di farsi un’idea libera e onesta su vicende che li riguardano. Purtroppo tale aspirazione deve fare i conti con la realtà di giochi e sete di potere. Questo non significa vietare ai mezzi di informazione privati di avere una linea editoriale schierata, senza distorcere i fatti; nè di rinunciare agli “endorsement”, ovvero l’appoggio di un candidato prima del voto. In questo caso però Fox News ha cercato di “creare” il candidato stesso. Non è l’informazione usata per fini politici, ma la politica asservita al potente editore e non al servizio dei cittadini.

Poniamo il caso che Petraeus avesse accettato la proposta di Ailes, e avesse vinto: che tipo di presidente sarebbe stato? Non ci sono elementi per affermare che Petraeus si sarebbe fatto manipolare da Rupert Murdoch; ma è chiaro che Newscorporation avrebbe avuto solo da guadanarci. Ailes, poi, avrebbe avuto l’opportunità di mettere in atto la sua agenda “politica”: Fox News infatti, che si definisce canale di “informazione”, in realtà promuove la cultura della destra americana. Questo lato è emerso con prepotenza durante le campagne militari in Afghanistan e in Iraq lanciate dai Neoconservatori durante l’era Bush. Ed è degenerato recentemente, spingendo il partito Repubblicano tra le braccia del Tea Party, movimento di cristiani fondamentalisti che ostracizzano il governo federale, sostengono il “creazionismo”, negano il “riscaldamento globale”. Non si conoscono le idee di Petraeus in merito a questi e ad altri temi, come l’aborto, i diritty dei gay o la vendita delle armi automatiche: il vero scandalo è il tentativo da parte di un magnate dell’informazione di cooptare un uomo politicamente in ascesa, e di mettergli a disposizione i suoi “media”.

La campagna di Murdoch in Gran Bretagna

Non è la prima volta che l’impero mediatico di Murdoch cerca di manipolare la vita politica e democratica di una nazione: è già successo in Gran Bretagna, dove possiede il 39% di BSkyB, televisione britannica nata dalla fusione tra la piattaforma Sky e l’emittente di stato British Broadcasting. Newscorp è sul mercato dell’informazione anche con vari giornali, come il Sun e il Sunday Mail.  Fino a poco tempo fa possedeva anche News of the World, attivo da 150 anni; l’anno scorso il “News” ha chiuso in seguito al montare dello scandalo del “phone hacking”: per un decennio alcuni dei suoi giornalisti avevano illegalmente intercettato le conversazioni di politici, celebrità e personaggi della cronaca. Andy Coulson era direttore responsabile del giornale quando nel 2007, agli albori di un’indagine su quella pratica, rassegnò le dimissioni per occuparsi della comunicazione dei Tories, il partito conservatore britannico. David Cameron, leader dei Tories, venne eletto primo ministro, e subito nominò Coulson direttore della comunicazione del suo ufficio. La promozione dell’ex direttore del “News” era stata “caldeggiata” da Rebekah Brooks, braccio destro di Murdoch e di suo figlio James per il ramo editoriale britannico di Newscorporation.

Nel 2003 la Brooks si era già distinta come direttore editoriale del Sun, quando titolò il celebre: “Brits 45 minuets from doom”, in cui si velava la minaccia che Saddam Hussein potesse scatenare una guerra chimica sull’Inghilterra in meno di un’ora. Il Sun all’epoca aveva 8 milioni di lettori; in prima pagina, ogni giorno, spiccava la bandiera americana con la scritta “war on terror”, frase simbolo dell’amministrazione Bush dopo l’11 di Settembre, e stemma fisso proprio sugli schermi di Fox News. A marzo dello stesso anno la Gran Bretagna di Tony Blair, alleata degli Stati Uniti, invase l’Iraq.

E proprio BSkyB, nei piani di Murdoch, poteva diventare una specie di Fox News britannica, visto che nel 2010 aveva fatto un’offerta pubblica per acquistare il 100% della piattaforma satellitare britannica. Prima dello scoppio dello scandalo sullo spionaggio telefonico, il governo Cameron stava facendo il possibile per cedere la partecipazione statale di BSkyB a Newscorporation (fonte Dailymail).

Un’inchiesta parlamentare , seguita allo scandalo del News of the World, ha stabilito che i media britannici non sono in grado di autoregolamentarsi, soprattutto nel rapporto con i politici. Il Guardian, autorevole testata britannica, ha commentato come l’intreccio Cameron-Newscorporation sia da imputarsi, in realtà, al labourista Tony Blair.

“L’ex premier, o per paura o per convenienza, è stato fin troppo accondiscendente con Murdoch, il quale ha potuto condizionare i politici e loro agende. Questo rappresenta una minaccia per la democrazia in Gran Bretagna, proprio perchè l’informazione è meno equilibrata rispetto agli altri Paesi europei, se si eccettua il ‘caso Berlusconi’ in Italia”.

Quando il giornalismo è disinformazione: “Ruby” sul Tg1, l’atomo in Giappone

Mentre negli Stati Uniti e in Gran Bretagna si teme l’influenza che un magnate dei media può esercitare sulla scena politica, in Italia da 20 anni il proprietario di un impero mediatico (e non solo) è anche il capo di una coalizione di destra. Silvio Berlusconi, essendo stato quattro volte presidente del consiglio, ha avuto modo di dettar legge anche sulla Tv di Stato. Come se in Gran Bretagna Murdoch possedesse il 100% delle maggiori emittenti private, e una volta diventato premier, comandasse la Bbc senza aver più bisogno di un Blair o di un Cameron.

S’è scritto e detto di tutto sul conflitto di interessi che rende il proprietario di Mediaset una minaccia per un’informazione onesta e basata sui fatti. Vorrei raccontare una mia esperienza per dare l’idea di come possa ridursi il giornalismo ostaggio di un padrone.

La prima volta che sentii parlare del “caso Ruby” e delle “cene di Arcore” mi trovavo in una mensa, e il televisore era sintonizzato sul Tg1 allora diretto da Augusto Minzolini. Il conduttore introdusse la faccenda così:

“Ora la vicenda delle presunte dichiarazioni di una  minorenne marocchina che ha raccontato di alcune cene nella residenza di Silvio Berlusconi. Vicenda per cui sarebbero indagati a Milano, per l’ipotesi di favoreggiamento della prostituzione, Lele Mora ed Emilio Fede.”

Nel servizio che seguì, la ricostruzione della giornalista e le dichiarazioni di parlamentari del partito del premier mandavano il seguente messaggio: un giornale, la Repubblica, ha rilanciato in modo vergognoso le denunce di una mitomane per montare uno scandalo.

“Povero Berlusconi, già ne ha combinate tante, e ora gli appioppano l’accusa di frequentare delle minorenni”. Ecco cosa pensai.

All’epoca in realtà era già esploso lo scandalo della 18enne ‘Noemi Letizia’, e la conseguente richiesta di divorzio da parte di Veronica Lario, moglie dell’allora premier. La Lario aveva denunciato pubblicamente che il marito era “un uomo malato, un drago a cui venivano offerte in pasto le vergini”; accuse atroci che la macchina mediatica del premier sgonfiò. E dal servizio appena visto, mi parve grottesca l’idea che una minorenne fosse stata indotta alla prostituzione durante delle cene ad Arcore. Impiegai un paio di giorni, basandomi su altri canali di informazione, a comprendere la gravità dell’indagine partita dalle dichiarazioni di Ruby: dal concorso di bellezza dove Fede l’aveva addocchiata, fino alle pressioni di Berlusconi sulla questura di Milano per consegnare la ragazza, destinata a una struttura per minori, a chi gli organizzava “le cene”. Tutti gli ascoltatori fedeli al Tg1, o ai telegiornali in onda sulle reti di Berlusconi, invece, quanto ci hanno messo a ricostruire la vicenda? Forse ancora oggi non ne conoscono i dettagli, o preferiscono credere alle ricostruzioni dei mezzi di informazione di proprietà dell’ex premier.

In un caso come quello appena raccontato, il patto tra cittadino e giornalista si squaglia, e l’informazione diventa l’occasione di nascondere i fatti, distorcerli, per favorire chi sta al potere, o di chi il potere lo vuole a tutti i costi e ha i “mezzi” per raggiungerlo.

La conseguenza dell’anomalia italiana è che nelle elezioni politiche del 2013, dopo una condanna per frode fiscale, gli scandali sessuali e l’aver portato il Paese a un passo dalla rovina, il candidato premier del centrodestra sarà ancora Berlusconi. Ad altre nazioni è andata peggio.

Nel Giappone del dopo guerra, colpito dalle bombe atomiche, il magnate dell’editoria Matsutaro Shoriki decise di promuovere nel Paese l’energia nucleare. Per ottenere il suo scopo, lanciò questa martellante campagna di informazione sui cittadini: “l’energia atomica per scopi pacifici non è affatto pericolosa”. Dopodichè, contribuì a fondare il partito che avrebbe governato per 55 anni di fila; una volta in parlamento, si appropriò della Commissione dell’energia atomica, e inondò il settore con una montagna di soldi pubblici. Il disastro di Fukushima, oltre mezzo secolo dopo, ha dato torto all’uomo che, grazie ai suoi mezzi di informazione e la sua posizione politica, ha supportato la semina di centrali per tutto il Giappone. Intere prefetture evacuate, e la popolazione terrorizzata di contrarre forme di leucemia per l’esposizione alle radiazioni.

L’esposizione all’informazione manipolata non genera certo la stessa paura, ed è normale. Eppure, come dimostrano i casi Murdoch e Berlusconi, l’intreccio tra potere politico e mezzi di informazione può avere un effetto devastante su una democrazia.

di Cristiano Arienti

In copertina: Spetattori abbagliati dallo scoppio di una bomba atomica. Operazione Greenhouse, Atollo di Enewetak. Dal libro How to photograph an atomici bomb,  di Peter Kuran.

http://www.youtube.com/watch?v=SZ8d33JYe-8

(Confronto tra TG1 e TG7 sul “caso Ruby“.)

 

 

 

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