Il voto e la violenza: promemoria per la democrazia

La mia tessera elettorale è custodita in un vecchio armadio: la tiro fuori nel giorno di elezioni in un gesto automatico, da quotidianità. Spalanco le tre facciate, come un menù: controllo le caselle timbrate di precedenti tornate; un promemoria di quanto manca al rinnovo. Ripiegandola, col suo riposante beige e il cartoncino levigato, riscopro il piacere di maneggiarla: non mi assale l’entusiasmo della prima volta ai seggi, rito di passaggio all’età adulta; ma una rassicurazione civica la percepisco: quasi che la tessera, in un’eventualità remota, possa smagnetizzarsi della sua funzione: darmi la voce, con il voto, per le decisioni sulla “cosa pubblica”.

Dovrei avere più consapevolezza del simbolo: in quel pochi grammi si pesano millenari dibattiti filosofici sul rapporto che lega i cittadini a chi esercita il potere; si tocca l’eterna lotta per gli ideali di libertà, giustizia, egalitarismo, solidarietà. La ritiriamo sbrigativamente in municipio; ma ce l’hanno donata loro, i sognatori del suffragio universale; la cui visione si è proiettata fino alla Assemblea Costituente, al termine di una ventennale dittatura picchiatrice: ci diamo un governo del popolo, per il popolo, che riconosce i nostri diritti. Nozioni metabolizzate in età scolare, e perciò date per scontate.

Questa prerogativa i miei nonni l’avevano acquisita solo da trentenni, mentre oggi la tessera è il permanente boccaglio della nostra interiorità politica. Se germogliava un’idea divergente dalla fanfara fascista, doveva restare ovattata in petto, come “il seme sotto la neve”, per citare Ignazio Silone; l’intellettuale abruzzese scrisse quel romanzo nel 1939, in esilio. Sette anni dopo, nel primo suffragio universale, Silone fu eletto nell’assemblea che scrisse la Costituzione democratica.

Possiamo anche lasciarla sottocute, questa interiorità politica: il punto è riconoscere l’aspirazione di ognuno ad avere una preferenza, e di esprimerla senza remore. E’ l’esplicito accordo fra concittadini: adunarci periodicamente e deputare una forza politica alla guida del Paese; potendo scegliere in uno spettro di ideali e proposte, senza conseguenze sulle vite private e lavorative, né sull’incolumità dei candidati.

Alla sezione elettorale (di solito una scuola approntata col sudore di manovalanza comunale), incrocio persone che avranno opinioni opposte alle mie: ma tollerano l’eventualità che le loro finiscano in minoranza; viceversa, sono pronto a rispettare una maggioranza che non condivido. Con una postilla: possiamo sperare di ribaltare la sconfitta in future elezioni.

Sono i codici della nostra convivenza: in Italia fare politica, parlare di politica, perfino arrabbiarsi per la politica, rientrano nella quotidianità.

Se al bar è possibile infervorarsi fino al litigio, in quella scuola adibita a sezione elettorale ci si augura buongiorno col sorriso. I dibattiti accesi possiamo confinarli nelle aule parlamentari; dove, appunto, si discutono le leggi. Chi si presta alla politica non solo ha la missione di difendere le nostre idee e valori: è deputato a esporsi per tutti i problemi che sollecitano una risposta, sia nel governare, che nel fare opposizione; risparmiandoci un confronto che, senza regole, può sbracare nell’incivile.

Tuttavia, affinché il clima rimanga respirabile, è necessario che i cittadini possano sempre partecipare alla politica: assistere ai lavori delle assemblee e avere accesso ad atti pubblici; assembrarsi, associarsi in movimenti, sindacati e partiti; manifestare e protestare pacificamente; rivolgersi alla magistratura. Attività garantite dalla costituzione, sotto il cielo della libertà di parola e di stampa, ossigeno di ogni civiltà aperta.

Solo con questa mobilità civica di massa il singolo può limitarsi a eleggere chi farà i suoi interessi; ma basta la sospensione dell’agire politico, anche graduale, per smagnetizzare la tessera: ci si riduce a votare un governo che non è più del popolo; eleggendo leader che difendono principalmente i loro, di interessi.

Quando l’ipotesi dell’alternanza sfuma, e si ammutolisce l’opposizione in Parlamento, l’atmosfera diventa soffocante: i cittadini si riversano in piazze che quasi sempre le forze dell’ordine riducono a tonnare. Se l’autorità comincia a cancellare così il dissenso, al bar non c’è più nessuna polemica da intavolare; la parola di troppo, in pubblico, potrebbe accendere i riflettori su di noi: quelli di un ring da strada, tra schiaffi e inseguimenti; o peggio nella stanza di un commissariato. Nella scuola adibita a seggio ci si augura un buongiorno a denti stretti.

In quei Paesi l’opinione dei cittadini conta poco, e rivendicarne una disallineata diventa pericoloso. Ogni giorno la cronaca internazionale ci riporta di estromissioni dei candidati, scontri pre e post-elettorali, arresti di attivisti, attentati ai comizi, minacce ai seggi.

E’ da quasi mezzo secolo, dagli anni di piombo, che in Italia non si respira un simile clima. Nei miei trent’anni da elettore non ho mai testimoniato ad aggressioni, né sentito di rappresaglie per l’esito delle urne. Questo non significa che il processo elettorale non abbia bisogno di protezione.

Ai seggi ci si imbatte in un presidio che salta all’occhio: divise lucide, pistola nella fondina, berretti calcati sulla fronte. Grazie a quella pattuglia, da moltiplicarsi per le oltre 60.000 sezioni sul territorio, nessuno mi intimidisce. Carabinieri e polizia rappresentano un baluardo contro chi volesse alterare il processo di voto; se qualcuno ci provasse, interverrebbero subito: è il Presidente del seggio che ha l’obbligo di allertarli.

Presidente di seggio, segretario e scrutatori compongono la squadra che garantisce la regolarità dell’elezione: circa 400.000 concittadini si mettono a disposizione, e per l’occasione diventano pubblici ufficiali.

A loro consegno carta di identità e tessera in cambio di scheda elettorale e matita; una pratica semplice – tutt’ora più sicura di sistemi elettronici – che permette di accedere al primario diritto-dovere di ogni cittadino.

Milioni di italiani, tra uomini delle istituzioni, operai, forze dell’ordine e ufficiali di seggio, sono impegnati affinché io faccia in serenità quel breve tragitto: dai banchi dove han registrato la mia partecipazione, al segreto della cabina elettorale.

Tirata la tendina, nella penombra, si espande la mia interiorità politica. Succede anche a chi non parla mai di preferenze, né ci tiene a far conoscere le proprie opinioni: a capi e colleghi, a parenti e conoscenti, ad autorità e forze dell’ordine, a parrocchiani ed esponenti di partito.

Quasi sempre so già dove mettere la crocetta. Resto lì pochi secondi, che però si sommano al mio percorso civico; l’arco di maturazione del pensiero, visto che le convinzioni di un giovane possono mutare negli anni: ideali un tempo granitici erosi per ripensamenti, approfondimenti o disincanto; visioni alte di come dovrebbe andare il mondo sgonfiate per problemi terra-terra; la presa di coscienza che le conflittualità, senza il rispetto di leggi, bisogni primari e diritti fondamentali, possono solo peggiorare.

Quella crocetta sulla scheda sintetizza anche una capacità critica affinata grazie all’informazione. Se però abbiamo accesso a fonti contate, magari filo-governative, rischiamo di rotolare nella propaganda. La stampa è libera solo se pluralista e indipendente; complementare al legislativo, l’esecutivo e il giudiziario – architravi della democrazia – è definita il “quarto potere”: consente al cittadino di riflettere sulle questioni della “cosa pubblica”; aggiorna i motivi per promuovere il lavoro di chi guida il Paese, o bocciarlo.

Mantenere l’informazione libera è una delle sfide di ogni democrazia. Nell’era di Silvio Berlusconi sorse il pericolo di una concentrazione mediatica nelle mani del Presidente del Consiglio. Oggi sono i social media a destare preoccupazione – anch’essi, per altro, in poche mani impastate col potente di turno. Nati per connettere, da qualche anno stanno dividendo le persone con fosse d’incomunicabilità: intrecciate a informazioni rilevanti per capire la realtà, diffondono anche notizie false e tendenziose, che distorcono i fatti; tra ragionamenti legittimi e confronti pacati, scorrono aggressioni verbali pompate da settarismi. L’esasperazione, a volte giustificata, porta a scrivere post che, in modo ingiustificabile, sputano in faccia a chi legge; toni radicali che dal virtuale esondano nel dibattito pubblico.

Oggi, in cabina elettorale, l’interiorità politica può emergere più informata e con le idee più chiare; oppure manipolata e frastornata; e macerata nell’acredine.

Nemmeno il fact-checking più neutrale sembra in grado di fermare l’inquinamento mediatico; però non si scorge una vera alternativa alla libera circolazione delle opinioni: il rischio di censura e autocensura è alto; armi, per altro, di ogni efficace autoritarismo.

Se in un Paese si monitorano capillarmente i social, molto probabilmente si imbavagliano anche i giornalisti e attivisti; se la maggioranza dei cittadini lo tollera, significa che la partecipazione politica ha un prezzo in cambio di un patto sociale: Sicurezza? Etno-nazionalismo? Ritorno a un’età dell’oro? Miraggi di giustizia sociale? Promesse di uno Stato funzionale? Sconfitta di un nemico esterno o domestico?

Gli elettori, sotto propaganda e annebbiati dalla paura, possono anche accettare leggi liberticide e brutalità sugli “avversari”; quando poi arriva il momento di reagire allo smantellamento della costituzione, o all’accentramento dei poteri, di solito è già tardi: la violenza è sistema di Stato, e ultima tentazione di chi lo contesta.

In quei Paesi preservare una quotidianità senza problemi significa non reclamare più certi diritti, perché potrebbe portare all’emarginazione. Per chi è in minoranza, nel giorno di elezione, la scheda diventa un menù senza oppositori, magari in esilio, in carcere, o sottoterra; c’è solo un autocrate o un’ideologia da trangugiare. Spesso si è fagocitati alle urne: non farsi vedere al seggio è interpretabile come critica; la cabina diventa un acquario dove i cittadini si uniscono in un boccheggiare plebiscitario. L’opinione si rimpicciolisce nel seme da seppellire in petto, nella speranza di tempi migliori.

Suona esagerato in Italia: ma quei pochi secondi in cabina dovrebbero essere l’occasione per testare la salute della nostra democrazia. Come palombari, dovremmo indagare l’ecosistema politico locale, nazionale e continentale; nuotiamo liberi nella vivacità delle idee? Annaspiamo fra diritti minacciati e rancorose divisioni? Piombiamo nell’oscurità della repressione civile?

Dovremmo anche illuminare le profondità della nostra vita repubblicana: scandagliare verità scomode insabbiate nel passato.

Almeno fino agli anni ’80, la democrazia in Italia aveva una fragilità connaturata al contesto della Guerra Fredda, con l’esclusione da alleanze di governo dei neo-fascisti del Movimento Sociale Italiano (MSI), e soprattutto del Partito Comunista Italiano (PCI); la seconda forza politica del Paese non poteva raggiungere e mantenere il potere nella dialettica dell’alternanza. Solo con la caduta del Muro di Berlino, nel 1989, sarebbero emerse dalle retrovie delle istituzioni piani di colpi di Stato; e soprattutto Gladio, l’organizzazione creata con gli americani per combattere un’eventuale invasione dell’Unione Sovietica: si temeva che Mosca contasse sul PCI per instaurare la dittatura, sebbene il segretario Enrico Berlinguer proponesse un socialismo europeo fuori dal Patto di Varsavia (collassato ovunque nel continente, insieme a quel muro).

Se il potere del proletariato non arrivava per via democratica, negli ambienti extraparlamentari di estrema sinistra si coltivò la frenesia che andava conquistato con la rivoluzione armata. Se le elezioni non garantivano la permanenza dell’Italia nella Nato, pezzi dei servizi segreti, pescando nell’estrema destra, ricorsero alla strategia della tensione. Dalla strage di Piazza Fontana del 1969, e per una dozzina di anni, la penisola fu squassata da bombe, sequestri e assassinii di matrice terroristica rossa e nera, con fiancheggiatori insospettabili e mandanti innominabili.

Negli anni di piombo il Paese visse in apnea, rischiando di affondare con il rapimento e l’esecuzione di Aldo Moro, leader della Democrazia Cristiana (DC). In quella primavera del 1978, Moro e Berlinguer stavano realizzando il compromesso storico: l’appoggio del PCI a un Governo a guida DC.

Da un lato duole dragare quel passato; dall’altro, rinsalda i propositi democratici: istituzioni e cittadini si strinsero alla Costituzione, e la Repubblica parlamentare sopravvisse a quella stagione. Nelle politiche del 1979 l’affluenza andò oltre il 90% degli aventi a diritto: recandosi ai seggi, gli italiani si difendevano dall’attacco al cuore dello Stato; la tessera elettorale uno scudo contro i tentativi di destabilizzazione, come la strage di Bologna del 1980.

“Sul ponte sventola bandiera bianca”, cantava nel 1981 Franco Battiato, in un’Italia sfinita dal sentire “spari in una via del centro”; ma anche dal “guardare quei programmi demenziali di tribune elettorali”. Se gli anni ’70, con tutta la loro retorica ideologica, avevano prodotto immenso dolore in nome di massimi sistemi, la politica poteva e doveva far tornare l’uomo come “centro di gravità permanente”: prima dello Stato o di un ideale di società. Alla fine del brano, con la risacca sonora “minima immoralia”, Battiato cita Theodore Adorno: l’opera in cui il filosofo, durante la WWII, indaga il legame tra soggetto e società, immerso nella violenza intrinseca alle dinamiche macro-sociali.

Si prefiguravano anche l’individualismo edonista e affarista, che insieme al fallimento del comunismo segnarono gli anni ’80: radici e cause del salto nella 2° Repubblica. Era il prezzo per un nuovo tipo di cittadino, slegato dalle ideologie ma ancorato all’impegno politico e la partecipazione civile.

Si spiega così la forte risposta nelle elezioni del 1994: tangentopoli aveva spazzato via la 1° Repubblica; e la mafia, persi i riferimenti, minava lo Stato. L’assetto parlamentare si disegnò in modo imprevedibile: la discesa in campo di Silvio Berlusconi e il suo partito-azienda, Forza Italia; la trasmutazione del MSI nel post-fascismo di Alleanza Nazionale; l’ascesa degli indipendentisti della Lega Nord: nuove forze di un Governo improbabile, nato però nel solco di una dialettica dell’alternanza, con l’inaugurazione del bipolarismo; e vaccinato della “par condicio” per arginare il potere mediatico di Arcore. L’affluenza superò l’86%, confermando la cultura democratica nel nostro Paese: l’Italia reggeva agli urti della Storia e all’eversione mafiosa; assimilava l’ascesa al governo dei post-fascisti e il successo di un’anomalia come Berlusconi; il quale avrebbe condizionato il Paese nei successivi 30 anni.

Tre decenni in cui la partecipazione elettorale si è incrinata di quasi 25 punti percentuali – per non parlare del crollo alle amministrative locali. Nelle politiche del 2022, con il successo della “fiamma tricolore” di Fratelli d’Italia l’affluenza è stata del 63%: un italiano su tre, fra gli aventi diritto, ha preferito trascorrere la domenica elettorale nella solitudine civica.

In quella cabina siamo isolati, ma non siamo soli; lì dentro transitano decine di milioni di connazionali: insieme generiamo una miriade di bolle che salgono in superficie per far respirare al Paese aria di democrazia.

L’oggi, forse, evolve in modo così caotico e rapido che la politica fatica a stare al passo, e offrire soluzioni lineari: nel prevenire problemi titanici, come la Crisi del debito nel 2011 – che però ha generato il successo di una forza nata dal basso come il Movimento Cinque Stelle; o reagire alla Pandemia del 2020 – che però ha convinto l’Unione Europea (UE) a puntare sul debito comune, e un destino unico.

Due crisi che hanno richiesto l’inusitata rielezione di due Presidenti della Repubblica, Giorgio Napolitano e Sergio Matterella; la nomina di Presidenti del Consiglio tecnici con maggioranze trasversali; e un rapporto sempre più vincolante con Bruxelles, con minor spazio di manovra per i governi uscenti dalle urne. Fattori che possono in parte spiegare la minor affluenza, insieme a una “stanchezza civica”; ma che non la rendono meno preoccupante. Non è obbligatorio recarsi ai seggi per contribuire alla vita politica del Paese; tuttavia, se il numero dei votanti è al ribasso, si indebolisce la legittimità di chi va in parlamento: allentando il legame tra i cittadini e chi esercita il potere. In quel vuoto, allora sì, in cabina, potremmo sentirci un po’ alla deriva.

Se esiste un’epoca in cui non possiamo permetterci il naufragio della democrazia, è quella attuale. Dall’invasione russa dell’Ucraina, nel 2022, si erge la minaccia di nuovi muri in Europa: alle frontiere dell’UE, ma anche all’interno delle singole nazioni: si squalificano le ragioni l’avversario; ci si aliena tra cittadini. Esiste il rischio che in un contesto bellico, determinate forze non debbano ottenere il potere: perché potrebbero far saltare i codici di convivenza costruiti negli ultimi decenni; e simmetricamente, che il popolo non abbia più voce tramite l’azione dei governi: chi possiede il potere, vorrà esercitarlo nell’indifferenza degli elettori.

In gioco ci sono sia la sopravvivenza della dialettica dell’alternanza, sia quella dell’Unione Europea: se questi due fattori si escludessero a vicenda, torneremmo alla fragilità democratica; o alla disgregazione continentale. In entrambi i casi, con risvolti imprevedibili.

Solo tutti insieme usciremo da questa conflittualità. Come, dopo aver ripiegato la scheda, usciamo tutti insieme da quella cabina; ripercorso il breve tragitto, infiliamo la nostra interiorità politica nell’urna, mischiandola, anonima, tra quelle dei nostri concittadini.

E’ poi compito del presidente, del segretario e degli scrutatori, allo scadere del termine per presentarsi ai seggi, procedere con lo spoglio e il conteggio: un lavoro da cui dipende il nostro futuro prossimo. Essendo una fase così delicata, è supervisionata da osservatori esterni: rappresentanti di partito, membri di organismi internazionali, uomini delle istituzioni. Dovessero spuntare difficoltà nel validare o meno una scheda, si apre una “contestazione”; perché ogni voto può essere decisivo, la piccola grande goccia che costituisce un intero bacino elettorale: ciascuna delle sezioni è l’affluente che riporta al Ministero dell’Interno le opinioni raccolte nelle urne, dove verranno processate per i risultati finali.

Un intero Paese rimane con il fiato sospeso per lunghe ore. I verdetti ufficiali sono accompagnati da esplosioni di gioia di chi si appresta a governare: nella coalizione annunciata, o preparandosi a tessere alleanze parlamentari; si fa festa nelle sedi di partito, nei comitati elettorali, e perfino nelle piazze. E’ amara invece la delusione degli sconfitti, a cui rimane il compito di analizzare l’insuccesso, e iniziare a organizzarsi come opposizione.

In alcune aree del mondo si tira un sospiro di sollievo, quando i verdetti non sono accolti da esplosioni di violenza. In altre ancora, da tempo la democrazia è implosa, o mai percorsa come via per le decisioni sulla “cosa pubblica”.

Intanto noi torniamo a casa, a rimettere la tessera, con un timbro in più, nell’armadio; con la speranza che più avanti, in nuove e libere elezioni, la nostra voce continui a contare.

di Cristiano Arienti

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