Guerra Israele-Hamas: il genocidio (in)accettabile
Al colpo di fucile la giovane sente il tonfo, si pianta smettendo di fuggire, si gira: vedendo l’amica immota, e il boia avvicinarsi, si inginocchia nella polvere, a mani giunte e tremante; la supplica per la vita dura qualche secondo, il tempo di udirlo ricaricare: il fucile è inclinato dall’alto verso il basso, verso il suo viso bagnato di sole e il petto battente di cuore, ma per quanto ancora? Poi il nuovo sparo, e il corpo della giovane cade all’indietro, già senz’anima.
La mattina del 7 ottobre, in quella terra insanguinata, giace una delle vittime israeliane causate dall’attacco di Hamas, il movimento di resistenza islamico che spadroneggia sulla Striscia di Gaza dal 2007. L’operazione “Alluvione di Al-Aqsa”, dal nome della Moschea in una Gerusalemme Est detenuta da Tel Aviv, fa parte del piano di liberazione della Palestina; un obiettivo che nega il diritto di Israele a esistere in quanto forza di occupazione. Nel Negev sorpreso dall’ondata terroristica, fino al 1948-49 prosperavano decine di comunità arabe spazzate via durante la Nakba, la “catastrofica” pulizia etnica operata dal nascente Stato ebraico: insieme a una Cisgiordania allargata, la Striscia di Gaza, il nord e Gerusalemme est, quel territorio era destinato, su proposta delle Nazioni Unite, a uno Stato della Palestina che non si è mai realizzato in 75 anni; nonostante le risoluzioni, tra guerre e tentativi di accordi, è stato militarmente mangiato dalla colonizzazione.
Nell’ora in cui 3.000 guerriglieri di Hamas seminavano morte nei kibbutz, centinaia di gazawi varcavano festanti la barriera che li separava da una terra in cui affondano le loro radici; la maggioranza della popolazione della Striscia discende dai 700.000 profughi scacciati dalle abitazioni con pogrom. Un sessantenne si è filmato nel momento in cui si incamminava oltre le recinzioni: recitava i nomi dei villaggi cancellati dalle mappe, dedicando il pensiero ai genitori che non misero più piede a casa. Mentre l’anziano piangeva di gioia e ripeteva il Takbir, Allah Akbar – Dio è il più grande – le lacrime dell’innocente inginocchiata nella polvere non impietosivano il boia.
Per tutto il 7 Ottobre, con il cielo tracciato dai razzi lanciati dalla Striscia verso Tel Aviv, il Takbir è stato il grido di battaglia dei fondamentalisti di Hamas: lo urlavano assaltando le postazioni dell’IDF, l’esercito israeliano; e lo urlavano anche alle donne, ai bambini, ai vecchi che assassinavano, che ferivano, che massacravano, che molestavano, che rapivano. Lo urlavano i tanti assiepati per le strade della Striscia di Gaza accogliendo chi rientrava con prigionieri senza distinzione tra militari e civili, né di genere o età.
Sul corpo esanime e contorto di Shani Louk, la giovane portata in parata come selvaggina, dei ragazzini ci sputavano.
Al netto delle ricostruzioni su quel che davvero accadde il 7 Ottobre – i piani d’attacco di Hamas ben noti ai vertici di Israele, gli allarmi delle sentinelle nei giorni precedenti, e nonostante ciò la guardia abbassata; la reazione tardiva dell’esercito, l’artiglieria pesante in aree urbane con decine di vittime carbonizzate dal fuoco amico: alla fine si contano 1.143 morti più migliaia di feriti e quasi 250 rapiti; l’innervarsi del trauma in una nazione disposta a sacrificare il dialogo con i Palestinesi in cambio della sicurezza, dopo gli attentati kamikaze degli anni 2000; il risveglio del terrore in un popolo, ma per estensione pure in una parte degli ebrei sparsi per il mondo, investito da una violenza cieca e odio fanatico, echi dell’Olocausto.
“Siamo in guerra”, è stata la prima dichiarazione del Premier israeliano Benjamin Netanyahu: “La nostra risposta sarà di una proporzione e di un’intensità che il nemico non ha ancora provato. Il nemico pagherà un prezzo senza precedenti.”
Nonostante l’avviso a non commettere gli errori post-11 Settembre, è arrivato l’appoggio dagli Stati Uniti, che da sempre forniscono armi e copertura politica a Israele. Un sostegno incondizionato anche di fronte al piano di rappresaglia del Ministro della Difesa Yoav Gallant, con l’ordine di mettere sotto completo assedio la Striscia di Gaza: “Non ci sarà più elettricità, né gas, né cibo. Israele sta combattendo contro animali, e come tali vanno trattati”.
Era il 9 Ottobre, e quel giorno il Corriere della Sera pubblicò l’editoriale di Paolo Giordano, “In Israele una violenza come in Ucraina e al Bataclan: questi volti sono il punto di non ritorno“; si delineava la postura dell’Occidente nel prepararsi a “Spada di Ferro”, l’operazione militare calante su Gaza. Lo scrittore, sentendosi affine con i raver trucidati al Nova Festival come alle vittime del Bataclan, i rocker di Parigi massacrati dall’Isis nel 2015, annunciava di parteggiare per Israele; parlando della necessità di decostruire un conflitto decennale, a Giordano risultava impossibile rinnovare solidarietà per le aspirazioni dei palestinesi: andava abbracciata la danza per la vita di quei giovani, al ritmo di rock e trance-music, contro i balletti macabri dei carnefici sul salmodiante “Allah Akbar”. Davanti alle barbarie compiute nei kibbutz, paragonabili alla mattanza di Bucha, si può riflettere solo sul post-7-Ottobre; e come per la guerra in Ucraina, è perentoria una scelta di campo: da una parte l’autoritarismo radicale di Hamas, e dall’altra Israele, che con tutte le sue pecche è comunque una democrazia.
Pur guidata, si scorda, dal mandante morale dell’assassinio nel 1995 di Yitzak Rabin, il Premier israeliano che aveva firmato, due anni prima, gli Accordi di Oslo per la pace con i palestinesi.
Sulla pelle di Rabin, ucciso da un estremista colonico – la stessa identità di molti suoi ministri e collaboratori – Netanyahu costruì l’ascesa politica con un disegno preciso: sabotare il progetto di una entità palestinese indipendente. Durante il suo primo premierato, nel 1996, minò gli Accordi di Oslo, che sarebbero implosi a Camp David nel 2000. Rieletto nel 2009, per realizzare il suo mandato popolare Netanyahu ha acconsentito ai flussi di fondi qatarini ad Hamas, oppressore dei settori secolari della società. Cementare il movimento di resistenza islamica nella Striscia – una prigione a cielo aperto – ha sgretolato l’Autorità Nazionale palestinese, interlocutore per la pace che aveva abbandonato la lotta armata e riconosciuto il diritto di Israele a esistere.
Mantenere divisi i palestinesi è cruciale per questa leadership israeliana: delegittimando la rappresentanza per un popolo unito, non può esistere nemmeno uno Stato della Palestina; così si è spianata la via per l’occupazione militare della Cisgiordania, arcipelago di comunità ridotte all’apartheid e in balia di soprusi da parte dei coloni – sedicenti padroni del territorio, pur originari di altri Paesi, per una promessa divina di oltre 4000 anni fa, e ravvivata dal sionismo all’inizio del ‘900.
Se Paolo Giordano, sconvolto dalle vittime del 7 Ottobre, è persuaso a rimuovere il pregresso, Antonio Guterres, Direttore Generale delle Nazioni Unite, ha puntualizzato che l’attacco terroristico di Hamas non è avvenuto in un vuoto; un’analisi che gli è costata pesanti critiche in Occidente, e l’accusa di antisemitismo. L’impegno di Guterres per un cessate il fuoco e la liberazione di tutti gli ostaggi, è stato vano. Netanyahu punta all’eliminazione totale di Hamas, che altrimenti canterebbe vittoria, avendo riacceso la questione palestinese. Un piano confluito in una vasta pulizia etnica con pulsioni genocide: lo dicono le affermazioni di esponenti del Governo e intellettuali di Tel Aviv, scalpitanti per nuova terra da colonizzare; e lo denota lo svolgimento delle operazioni dell’IDF dentro la Striscia, largamente inabitabile. E’ un’accusa, quella di genocidio, sulla quale è in corso un processo intentato contro Israele presso la CPI, Corte Penale Internazionale dell’Aja.
A sette mesi da quel giorno, con 38.000 palestinesi ammazzati – in maggioranza donne e minori – 90.000 feriti – la popolazione di Gaza brancola sotto le bombe e tra le macerie, patisce la carestia, è piagata da infezioni, e sopravvive privata di una sanità funzionante; una domanda tenta di edulcorare la portata dell’orrore versato su 2,2 milioni di esseri umani: cosa avrebbe dovuto fare Israele? Cedere al terrorismo in cambio degli ostaggi? Ed è sempre accompagnata dall’espressione usata da Tel Aviv e ribadita da Washington, “Israele ha il diritto di difendersi”: un punto fermo, dal suono di legalità, da cui parte un compasso morale per l’assedio di Gaza e l’assalto alla popolazione. Da quel punto fermo, però, si van tracciando cerchi sempre più tremebondi, dove non si distinguono più i principii stessi di “difesa” e di “legalità”: massacri quotidiani, fosse comuni, esecuzioni sommarie, assassinii all’interno di luoghi di culto, omicidi mirati di giornalisti, di personale medico e umanitario, tortura, arresti arbitrari in condizioni degradanti, fame inflitta e blocco degli aiuti internazionali, la distruzione sistematica di infrastrutture, complessi civici, ospedali, siti culturali e religiosi, e perfino campi profughi e tendopoli. Il tessuto di una intera società è ormai a brandelli. Tutto documentato nel rapporto del gruppo di esperti della procura della CPI: e che ha portato alla richiesta per Netanyahu e Gallant di un mandato d’arresto per crimini di guerra e crimini contro l’umanità; parallelo, ma non equiparabile, al mandato d’arresto per i leader di Hamas, Yaya Sinwar, Ismail Haniyeh e Mohammed Deif, gli organizzatori degli attacchi terroristici del 7 Ottobre.
Sia Hamas che Israele rigettano il dispositivo giudiziario: entrambe le parti si discolpano parlando di divario tra “aggrediti e aggressori”. Se le immagini e le testimonianze del 7 Ottobre – al netto della propaganda su episodi raccapriccianti ma non accaduti – segnano già una condanna per Hamas, in Occidente l’incriminazione per Netanyahu e Gallant ha scandalizzato: Israele e i suoi difensori giustificano le modalità dell’operazione di Gaza menzionando i bombardamenti di Dresda e Hiroshima durante la 2° Guerra Mondiale, quando gli Alleati rasero al suolo obiettivi sì civili, ma “strategici” per annichilire lo spirito dei tedeschi e dei giapponesi, imbevuti di nazismo e imperialismo.
Già nel 1945 il bombardamento di Dresda veniva considerato un attacco terroristico, e oggi in molti lo giudicano un crimine di guerra; e si dibatte se a Nagasaki – con Hiroshima che non lasciava dubbi sull’impatto dell’atomica – ci fu intento genocida.
Hamas, nelle parole di Ghazi Amad, uno dei capi politici, ha promesso “un secondo, un terzo e un quarto 7 Ottobre, fino alla liberazione di tutta la Palestina”, definendo l’esistenza di Israele “illogica”: in questo caso l’intento non può che essere genocida.
Quando il Presidente di Israele Isaac Herzog, nel rispondere degli attacchi sempre più indiscriminati su Gaza, spiega che “un’intera popolazione è responsabile del 7 Ottobre”, implica che ogni civile è un target legittimo. Anche i bambini palestinesi, “i piccoli serpenti” in parole condivise da Ayelet Shakel, fino al 2022 Ministra degli Interni: “per questo è necessario ammazzare le madri dei fondamentalisti, perché non generino i serpenti di domani.”
Era il luglio 2014 quando Shakel pubblicò sui social quella pagina – scritta da Uri Elitzur, ex Capo di Gabinetto di Netanyahu – il giorno prima che Israele lanciasse una campagna di bombardamenti su Gaza, durata 7 settimane e che uccise 1500 civili.
Per quanto sia duro, professando Israele i nostri stessi valori di democrazia e libertà, va affrontata la realtà: anche il Governo Netanyahu mostra un intento genocida, a Gaza, e non da oggi; nel tempo Tel Aviv ha perfezionato un regime di apartheid in Cisgiordania. Finora in Occidente si è accettato questo stato di cose perché il nemico di Israele è imbevuto di Islam politico: la retorica di questi fanatici ribalta i tavoli del dialogo; la violenza di cui sono capaci rimanda a un culto della morte. Fattori che proiettano la paura anche sulla nostra società europea, con la presenza di immigrati musulmani di varie generazioni sempre più massiccia. La disumanizzazione dei palestinesi viene tollerata per il timore che, criticando gli israeliani, riesploda l’anti-semitismo, un fenomeno che ha generato mali assoluti come le deportazioni nei campi di sterminio. Tuttavia nutriamo valori che trascendono i sistemi politici e sociali, e che sono alla base di una coscienza individuale e collettiva: giustizia, diritti umani, uguaglianza. Esistono momenti nella storia che vanno affrontati con coraggio, perché altrimenti il passato rischia di diventare una scusante per tutto, perfino per la vendetta colpendo scientificamente i bambini.
“In molti nell’esercito, ha confidato un soldato dell’IDF in un’intervista a Channel 4, vedono nei giovani di oggi, che siano combattenti o meno non fa differenza, i bambini che abbiamo risparmiato nel 2014.”
In un pezzo del Guardian dello scorso aprile sono state raccolte le voci di nove dottori a Gaza, otto dei quali volontari stranieri, che hanno testimoniato un fenomeno di questa guerra: se la maggior parte delle vittime minorenni sono morte sbudellate dalle bombe o schiacciate da macerie, negli obitori e nelle sale operatorie c’è un flusso costante di piccoli colpiti alla testa o al petto con una singola pallottola. Un trauma che porta a un sospetto atroce: i cecchini israeliani mirano bambine e ragazzini per ammazzarli a sangue freddo. Un’accusa respinta dall’IDF, ma è il passato recente a contraddire la Difesa di Tel Aviv.
Nel 2018 i giovani di Gaza, slegati da Hamas, organizzarono “La Grande Marcia del Ritorno”: assiepandosi alle barriere controllate dall’IDF, i manifestanti volevano richiamare l’attenzione del mondo sui diritti dei Palestinesi. I cecchini israeliani hanno assassinato, nell’arco di pochi mesi, 223 ragazzi, inclusi 43 bambini, e ne hanno feriti circa 10.000: un’esecuzione di massa al rallentatore. La commissione indipendente delle Nazioni Unite chiamata a indagare sull’eccidio, ha stabilito che solo in un caso, sui 223 incidenti mortali, l’IDF aveva agito per un percepito pericolo: “la repressione delle proteste fu un crimine contro l’umanità”, si legge nel rapporto.
E’ il tipo di pregresso su cui l’Occidente chiude gli occhi, asserendo che il processo di pace, finché resta nelle mani di Hamas, degli jihadisti, degli Hezbollah libanesi, o dei Pasdaran iraniani, non ha futuro. Nel 2018 gli Stati Uniti di Donald Trump lavoravano già per normalizzare i rapporti tra Tel Aviv e i Paesi Arabi, per la ratifica degli Accordi di Abramo; abbandonando i palestinesi a un destino di umiliazione.
A non avere più un futuro erano quei giovani manifestanti della Grande Marcia del Ritorno; non i fanatici della resistenza islamica, ma i break-dancer che ballano al ritmo del rap, e i fan della pop-music, colonna sonora di feste e grigliate. Una vita davanti pensava di averla Razan Najjar, paramedica di 21 anni colpita a morte da un cecchino mentre soccorreva un ferito.
E’ un rapper americano, Macklemore, che ha dedicato una canzone alle proteste nelle università occidentali in solidarietà con i palestinesi investiti da questa violenza cieca, da questo odio fanatico; l’ha intitolata Hind’s Hall, come è stato ribattezzato l’atrio della Columbia University prima che la polizia sgomberasse gli occupanti.
Sono trascorsi centotredici giorni dopo il 7 Ottobre: alla sventagliata di mitra del soldato del IDF, al quindicenne Layab casca la mano stretta al cellulare; era in linea con la Croce Rossa palestinese per chiedere soccorsi: un carrarmato israeliano, a Gaza City, aveva appena centrato la macchina su cui viaggiava insieme al padre, a tre fratelli e una cuginetta. Tutti morti tranne la bambina. La sopravvissuta, appallottolata tra i caldi cadaveri, è Hind Rajab, 6 anni; pur ferita, afferra il cellulare da cui sale una voce metallica e comincia a parlare con l’impiegata: “Ho paura, venite a prendermi.”
Si stabilisce un collegamento d’emergenza tra la Croce Rossa palestinese e le forze israeliane per coordinare il soccorso della bambina. Una volta ricevuta l’autorizzazione per l’intervento, un’ambulanza viene inviata sul luogo del massacro; i due paramedici non raggiungeranno mai Hind, perché ammazzati da un colpo d’artiglieria dell’IDF.
Il corpo di Hind è stato recuperato 12 giorni dopo senz’anima.
di Cristiano Arienti
In copertina: un’immagine di un bombardamento israeliano su Gaza
Fonti e link utili
240520-panel-report-eng.pdf (icc-cpi.int) (report panel di esperti dell’ICC a sostegno della richiesta di mandato d’arresto per i leader del Governo israeliano e i capi di Hamas)
From the river to the sea, Israel is waging the same war (972mag.com)
https://x.com/muhammadshehad2/status/1782737187982721039
Israele-Palestina: la redazione di “MicroMega” a confronto
Onslaught of violence against women and children in Gaza unacceptable: UN experts | OHCHR
Cable: 10STATE15722_a (archive.org) Cablo che spiega come gli US bloccarono l’accusa di crimini di guerra contro Israele mossa nel rapporto Goldstone
Más de un millón de casos de enfermedades infecciosas en Gaza (efe.com)
Arab citizens of Israel – Wikipedia
This Sydney psychologist spent weeks in Gaza. She saw children ‘frozen’ from starvation | SBS News
https://x.com/tparsi/status/1796983653525856317 (video dalla Grande Marcia del Ritorno)
Killing of Hind Rajab – Wikipedia
Israeli Disinformation: Al-ahli Hospital ← Forensic Architecture (forensic-architecture.org)
Before They Vowed to Annihilate Hamas, Israeli Officials Considered It an Asset (theintercept.com)
Israel’s brutality against Palestinians draws on British rule (declassifieduk.org)
Killings and massacres during the 1948 Palestine war – Wikipedia
UN rights chief ‘horrified’ by mass grave reports at Gaza hospitals (bbc.com)
Animal stereotypes of Palestinians in Israeli discourse – Wikipedia
Israeli inquiry finds Oct 7 hostage likely killed by friendly fire | Reuters
Stories from an occupation: the Israelis who broke silence | Israel | The Guardian
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2000 Camp David Summit – Wikipedia
https://x.com/democracynow/status/1791086467101372880 (l’attacco dell’IDF agli operatori umanitari a Gaza)
Before They Vowed to Annihilate Hamas, Israeli Officials Considered It an Asset (theintercept.com)
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Deir Yassin massacre – Wikipedia (pogrom del 1948 da parte delle milizie paramilitari sioniste, che scatenò il terrore fra i palestinesi di etnia araba, e fu uno dei motivi dell’attacco dei Paesi arabi quando Israele proclamò l’indipendenza)
Killings and massacres during the 1948 Palestine war – Wikipedia
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Israele puntava a una nuova Nakba da ben prima del 7 ottobre (micromegaedizioni.net)
Stories from an occupation: the Israelis who broke silence | Israel | The Guardian
2000 Camp David Summit – Wikipedia
UN rights chief ‘horrified’ by mass grave reports at Gaza hospitals (bbc.com)
Animal stereotypes of Palestinians in Israeli discourse – Wikipedia
Kibbutz Be’eri on New York Times Sexual Assault Story: “Not True” (theintercept.com)
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