Dal Russiagate all’assalto del Congresso: crisi democratica e lotta per il potere nella sfida Biden-Trump
La “Città sulla Collina”, l’immagine biblica che definisce l’eccezionalismo americano, non risplende più: negli ultimi anni è stata rabbuiata da sospetti di Presidenti illegittimi o delegittimati; inquinata da indagini criminali e perfino assediata con un assalto al Congresso. Donald Trump, il maneggione edonista vincitore delle elezioni nel 2016, è il catalizzatore delle ombre sulla democrazia Usa; tuttavia, da Vice di Obama, Joe Biden agì nell’ombra per impantanare il neoeletto Presidente nel Russiagate.
Eppure saranno loro due a contendersi la Casa Bianca, a novembre; al di là del fattore età, 78 anni Trump, 81 Biden, il sistema non è riuscito a produrre candidati diversi, senza un passato imbarazzante, di menzogne e guai giudiziari; non oberati da un rapporto corroso con la parte avversa di elettorato. La sfida, qualunque sia l’esito, non ridonerà splendore alla “Città sulla Collina”: la luce che farebbe di Washington l’esempio da ammirare, è ridotta a un barlume. Quello di una torcia, manovrata nelle segrete delle istituzioni: scorgono, repubblicani e democratici, un tornaconto nel puntare su due anziani compromessi. Potrebbe però essere la fiaccola dei suprematisti, brandita nelle sacche razziste della società: in Trump individuano un leader da seguire fino agli estremi. Oppure la fiamma inquisitiva di un nuovo maccartismo, come nel Russiagate: perseguire nemici interni calpestando diritti costituzionali.
Sembra lontano il 2008, quando gli americani elessero Barack Obama: dopo le tenebre dell’Amministrazione Bush-Cheney, scelsero lui al posto di una regina degli scandali come Hillary Clinton; e lo preferirono a John McCain, falco militarista. Gli Stati Uniti sembravano un faro, irraggiavano speranza per chi crede nella democrazia e nella pace.
Russiagate, il cavallo di Troia nella democrazia americana
Il 20 gennaio 2017 Donald Trump intuiva di entrare alla Casa Bianca come il pollo siede al tavolo da poker di una combriccola di amici. Al primo incontro con Jim Comey, Direttore dell’FBI, il neo-Presidente si sentì dire: secondo fonti di intelligence lei è ricattabile dal Cremlino. Si trattava dello Steele Dossier, dal nome di Christopher Steele, ex agente britannico a capo dell’agenzia Orbis Business Intelligence. Quel dossier era diventato materiale dell’indagine FBI sulla presunta infiltrazione russa nella Campagna Trump, tesa a influenzare le elezioni presidenziali; circolava già alla Cia, al Dipartimento di Stato, alla Giustizia: le istituzioni americane guardavano al nuovo Presidente come una marionetta di Mosca. Comey, in quell’incontro, omise un dettaglio: il Dossier era stato finanziato dalla Clinton, avversaria di Trump alle elezioni. La decisione di tacere quell’informazione era stata presa il 5 gennaio, in una riunione tra Obama e i vertici di Cia, FBI e DNI (Direttore dell’Intelligence Nazionale): il Presidente uscente e il suo Vice Biden, letto un riepilogo del Dossier, concordarono che il legame Trump-Russia andava trattato da emergenza nazionale.
Se il 20 gennaio 2017 le istituzioni applaudivano la staffetta alla Casa Bianca, nella realtà ci fu un passaggio di potere avvelenato: l’Amministrazione Obama-Biden aveva minato la Presidenza Trump. Quella mattina Susan Rice, Consigliera alla Sicurezza Nazionale, si auto-inviò una email in cui precisava: “il Presidente [Obama], per quanto concerne lo Steele Dossier, ha agito da manuale”.
Con quell’email giustificava l’ordine di nascondere al neo-Presidente l’origine del Dossier, qualora il Russiagate si fosse ritorto contro chi lo aveva architettato. Già a febbraio 2017 il castello costruito da Steele cominciava a sfaldarsi: una sua fonte, interrogata dall’FBI, negò di aver mai fornito certe informazioni.
Intanto l’ex spia aveva consegnato il Dossier a Richard Dearlove, ex Capo dell’Intelligence britannica; e Dearlove lo affidò al leader repubblicano John McCain, che lo diede in pasto alla stampa: da allora la Casa Bianca venne dipinta come una dacia russa.
Per mesi Comey, pur note la provenienza e l’infondatezza del Dossier, perseguì vari collaboratori del Presidente: ne incastrò alcuni per falsa testimonianza, a seguito di intercettazioni. Il 9 maggio 2017 Trump reagì, rimuovendo il Direttore dell’FBI; il giorno dopo ospitò alla Casa Bianca un peso massimo del Cremlino, il Ministro degli Esteri Sergej Lavrov.
La risposta del reggente dell’FBI, il clintoniano Andrew McCabe, fu di aprire un’indagine di controspionaggio sul Presidente; atto preso in accordo con la “gang degli 8”, i vertici bipartisan del Congresso a presidio dell’Intelligence. Lo stesso Congresso appuntò l’ex decano dell’FBI Robert Mueller come Procuratore Speciale: doveva appurare se Trump agisse negli interessi del Presidente russo Vladimir Putin.
Sono trascorsi 7 anni da quelle tempestose giornate: e dopo varie inchieste, dal Rapporto Mueller al Rapporto Durham passando per i rapporti dell’Ispettore Horowitz, oggi si può dire: non solo la collusione non è provata, ma è visibile uno sforzo di pezzi delle istituzioni nel creare un legame criminoso. Il sistema giudiziario si era infiltrato nella Campagna di un candidato alle presidenziali: l’FBI, sulla base dello Steele Dossier, spiò Carter Page, uno dei consulenti di Trump, ben oltre l’insediamento del nuovo Presidente; che Page fosse una fonte affidabile della Cia era stato occultato ai giudici che convalidarono lo spionaggio. In seguito al caso Page, è stato riformato il FISA (Foreign Intelligence Surveillance Act), il quadro normativo per autorizzare il monitoraggio segreto di un cittadino americano.
Nel luglio del 2016, proprio la Cia aveva dettagliato il Presidente Obama sul tentativo di Clinton di montare un caso Trump-Russia; questo, in reazione alla pubblicazione del DNCleak: dalle migliaia di email pubblicate da Wikileaks, emergeva come le primarie democratiche fossero una farsa, visto che la candidata era stata decisa ben prima.
Il Russiagate è stata la “polizza assicurativa” – come l’ha definito uno degli agenti dell’indagine criminale – di un ramificato apparato istituzionale nel caso Trump avesse vinto le elezioni: un cavallo di Troia introdotto alla Casa Bianca occupata da una persona di cui Washington non si fidava.
Ad esempio John Brennan, che da Direttore Cia conosceva le criticità dello Steele Dossier. Da libero cittadino, nel 2018, dopo averlo definito “traditore”, scrisse un tweet sul Presidente: “Non distruggerai l’America; l’America trionferà su di te”.
Sul personaggio anche Comey lanciò strali, paragonando Trump a un boss mafioso: “Pretendeva una lealtà che un civil servant, in uno Stato democratico, può garantire solo alla Costituzione”.
Il giudizio più clinico arrivò da Biden, quando nel 2017 disse di Donald Trump: “Sta distruggendo il tessuto sociale della nostra nazione”.
Condannava la condiscendenza del Presidente nei confronti dei suprematisti bianchi, più in generale, Biden indicava il rischio di rottura del patto sociale americano: l’estrema destra era galvanizzata dal Maga (Make America Great Again), slogan attorno al quale si è coalizzato un movimento nazionalista; ma era la radicalizzazione dell’elettore medio a spaventare.
La vittoria di Trump era arrivata con un’agenda sì populista, ma su problemi sentiti: precarietà economica, deriva della globalizzazione, immigrazione illegale, timore di nuove guerre, minaccia dell’Isis. L’alternativa repubblicana, nel 2016, era Jeb Bush, fratello di un Presidente, George W. Bush, che aveva fallito su tutti i fronti; un duo che, nel 2000, le elezioni le aveva veramente contraffatte.
Tuttavia era la retorica proto-fascista di Trump a ridefinire l’arena politica; mentre la vecchia guardia, dai Bush ai Cheney ai McCain, gli faceva opposizione, il Maga avanzava nelle primarie di Mid-Term del 2018: i candidati di Trump, adottando medesimi toni incendiari, spesso battevano quelli supportati dal Partito.
Un neofita della politica, in appena tre anni, si era modellato un culto della personalità.
Assalto al Congresso Usa: un’insurrezione annunciata
La profezia sulla rottura del tessuto sociale americano si è avverata nel 2020, quando Trump non riconobbe l’esito delle elezioni. A urne chiuse, dopo i primi conteggi, si era decretato vincitore senza scrutinio dei voti per posta – milioni. Quando i numeri cominciarono a premiare Biden, si lanciò in una campagna di delegittimazione; per mesi Trump gridò alla “frode elettorale”: il suo team di avvocati depositò denunce negli Stati dove era avvenuto il sorpasso. Per lui era inconcepibile perdere dopo aver incrementato di 10 milioni il bacino elettorale. Esercitò pressioni per scovare presunti brogli; in una telefonata chiese al Segretario di Stato della Georgia, il repubblicano Brad Raffensperger, di trovargli 11.000 voti. Le indagini, a livello statale e federale, non rilevarono errori.
Tuttavia quell’ossessione aumentò, maturando l’idea che solo un atto di forza potesse evitare “il furto delle elezioni”. Trump lo individuò nella plenaria del Congresso, il 6 gennaio 2021, riunita per ratificare la vittoria di Biden; convocò una manifestazione a Washington per “salvare l’America”: arringando una folla di sostenitori, invitò il Presidente del Senato Mike Pence, suo Vice, a non formalizzare i risultati del voto.
Quella folla, indirizzata da Trump, si assiepò fuori dal Congresso; le frange più agitate, compresi i paramilitari degli Oath Keepers e i Proud Boys, superarono i cordoni di sicurezza, forzando le entrate. L’adunata si trasformò nell’insurrezione, costringendo all’evacuazione parlamentari e funzionari. La plenaria fu sospesa ma non cancellata: la vittoria di Biden venne autenticata poche ore più tardi.
Quel giorno Ashley Babbitt, sostenitrice di Trump, fu uccisa da una guardia all’interno del Campidoglio; e decine tra agenti e manifestanti rimasero feriti. Il tempio della democrazia veniva vandalizzato da chi spiegava di “riprendersi la propria casa”; gergo consequenziale all’idea che alla Casa Bianca stesse entrando un abusivo.
Implorato dall’entourage, a metà pomeriggio Trump chiese ai suoi fedeli, ma senza cenni a “frodi elettorali,” di tornare a casa. Nei giorni precedenti aveva espresso il parere che il Congresso non necessitasse di particolari difese, mentre gli organi federali e locali decidevano di non dispiegare la Guardia Nazionale. Il Campidoglio rimase sguarnito nonostante l’FBI avesse infiltrati nei Proud Boys e gli Oath Keepers, raccogliendo indizi di derive sovversive. Un fallimento che getta dubbi sulla volontà di disinnescare eventuali azioni violente; su alcuni canali social i futuri “insurrezionisti” ne parlavano apertamente.
In retrospettiva, l’assalto al Congresso era annunciato; molti dei 900 condannati hanno dichiarato di aver agito perché “lo aveva richiesto il Presidente”.
I petardi verbali di Trump avevano scatenato un tentativo di golpe. Per quei fatti è stato messo sotto impeachment dal Congresso, con l’accusa di incitamento all’insurrezione: se la cavò per una manciata di voti al Senato.
Non era il primo impeachment: i tentativi di rimuovere il Presidente andavano avanti dal 2017: anche per lo scandalo Trump-Ucraina, sullo sfondo dei torbidi rapporti tra i Biden e Burisma, colosso energetico di Kiev.
Forse fu per dirottare l’attenzione da quei guai che Biden, durante le elezioni del 2020, non aveva insistito sul Russiagate; in fondo nel Rapporto Mueller si definisce inquietante la disponibilità della Campagna Trump ad accettare eventuali aiuti da russi, e la vicinanza di alcuni elementi agli oligarchi; ma nessun americano era stato incriminato per collusione con il Cremlino.
Con il nuovo inquilino alla Casa Bianca, a Washington speravano di essersi lasciati tutto alle spalle; soprattutto chi aveva gettato il Paese nel caos. Bandito dai social, essenziali per l’ascesa del Maga, e trattato come un paria dai vertici Repubblicani, l’ex Presidente veniva abbandonato al suo destino: seppellito di processi, dalle molestie sessuali agli abusi di potere, fino ai fatti del 6 Gennaio.
Biden-Trump: sfida tra due Americhe
Nel 2022, con le elezioni di Mid-Term per Congresso e Governatori, Trump si è rialzato dalla fossa: come uno spettro da dolcetto-scherzetto, ha bussato alla porta delle primarie repubblicane; alcuni dei candidati da lui appoggiati, si sono imposti; altri, suoi critici, hanno perso: come la “nemica” Liz Cheney. In una tornata sfavorevole al Partito, Trump ha incassato consensi, annunciando la corsa alle Presidenziali 2024. Sulla sua scia si sono riposizionati molti che lo avevano incolpato per l’assalto al Congresso: tra questi, lo speaker della Camera Kevin McCarthy; una giravolta inutile, perché i fedelissimi dell’ex Presidente lo hanno detronizzato. Il messaggio era già chiaro: contro Trump rischi la poltrona.
Non è l’unico motivo per cui i Repubblicani stanno serrando le fila dietro a un “golpista”: durante il mandato, Trump ha spedito alla Corte Suprema tre giudici, interpreti della Costituzione in accordo con l’area conservatrice e cristiana del Paese – base del Maga. Essendo a vita, le nomine rappresentano uno spartiacque: il progresso legislativo e giuridico passa per questo organo, e una Corte Suprema così sbilanciata influirà per decenni sulla vita dei cittadini.
Esemplare è la sentenza Dobbs vs Jackson W’sHO, del 2022, che ha permesso di cancellare il diritto all’aborto in Stati ultraconservatori. In un altro giudizio, la Corte ha ridotto il potere dell’EPA (Agenzia Protezione Ambiente) nel limitare le emissioni di CO2; scardinando decennali quadri legislativi nella lotta ai gas nocivi e climalteranti.
Erano cavalli di battaglia di un’America minoritaria; a dimostrazione di quanto abbia inciso Trump sul piano sociale e culturale, oltre che politico; e perché abbia un seguito così tenace nonostante i misfatti.
Lo scorso marzo la Corte Suprema si è pronunciata su un altro tema: il diritto di Trump a partecipare alle Primarie. Lo Stato del Colorado, appellandosi alla Costituzione, lo aveva escluso perché inadatto a incarichi ufficiali dopo i fatti del 6 Gennaio. La Corte ha decretato che solo il Congresso poteva squalificare un candidato adducendo simili motivazioni.
Era l’ultimo ostacolo per la conquista di Trump delle Primarie; nelle quali ha spazzato via Ron De Santis, Governatore della Florida, un trumpista ma senza gli eccessi dell’originale; e Nikki Haley, ex Ambasciatrice all’Onu, più allineata al Partito.
Oggi è realtà l’impensabile: Trump correrà alle Presidenziali; e i sondaggi lo danno testa a testa con Biden: prova che l’assalto al Congresso potrebbe non essere un fattore determinante. Come non verrà sollevato il ruolo dell’attuale Presidente nel Russiagate: uno scandalo con cui i democratici non si sono misurati.
Il Partito però ha ben altre preoccupazioni: in parecchi sono timorosi di una sconfitta, e non solo per i problemi emersi in questi anni: l’immigrazione clandestina, l’arrancare della classe media, la gestione della guerra in Ucraina; da tempo il Presidente offre un mesto spettacolo: un anziano spesso in affanno motorio e linguistico. Ha fatto scalpore il Rapporto dell’Investigatore Speciale Robert Hur, chiamato a indagare sul possesso illegale da parte di Biden – al termine della Presidenza Obama – di documenti classificati: durante l’interrogatorio l’81enne avrebbe sofferto di vuoti di memoria.
Dalla metà del 2023 nel campo democratico si parla di un candidato diverso; anche perché la Vice-Presidente Kamala Harris non pare all’altezza del ruolo, in caso di necessità. Tuttavia, la questione è complessa: al di là della polarizzazione su Biden, rispettato ma altrettanto disprezzato, è arduo trovare una figura esperta e carismatica. Il suo mandato ha garantito le varie anime del Partito, e la continuità dei collaboratori e funzionari già operativi sotto Obama. Al tempo stesso ha rinnovato la proiezione di potenza di Washington, che da 40 anni unisce le ali interventiste di Repubblicani e Democratici.
Biden, nel 1999, fu co-sponsor, insieme a McCain, dell’autorizzazione Congressuale per il bombardamento dell’ex Jugoslavia. Da Presidente della Commissione Politica Estera del Senato guidò un manipolo di Democratici per assicurare a Bush il sostegno all’invasione dell’Iraq. Da Vice-Presidente “sorvegliò” Obama, eletto con un’agenda pacifista, ma reattivo a impegnare gli Usa in molteplici teatri di guerra.
Nelle Primarie Democratiche del 2016, il socialista Bernie Sanders non doveva né poteva imporsi su Hillary Clinton, sebbene nei sondaggi facesse meglio contro Trump. Ecco il timore che spinge la riconferma dell’81enne: accettare una figura capace di sconfiggere i Repubblicani, ma non rassicurante per chi sorregge Biden; o viceversa: che soddisfi la leadership democratica, ma poi debole alle urne.
Novembre si avvicina, e la campagna elettorale sarà pirotecnica. Secondo alcuni, una vittoria di Trump manderà a fuoco il Paese; per altri, Biden alimenterà gli incendi che, dall’Ucraina al Medio Oriente a Taiwan, stanno divampando in una nuova Guerra Mondiale.
Le scintille di questa sfida, per paradosso, provano che la democrazia Usa è ancora viva. Rimane il dubbio però che il vincitore riuscirà a diradare le ombre sopra la Città sulla Collina.
di Cristiano Arienti
Immagine in copertina
Fonti e link utili
Durham Report: The FBI is as bad as you feared, maybe worse | The Hill
Inside the Plot Against the President: With Techno Fog & Lee Smith — @im_1776 (im1776.com)
The Brennan Dossier: All About a Prime Mover of Russiagate | RealClearInvestigations
The Origins of the Russiagate “ICA” – Part 1 (substack.com)
Biden confirms Obama, VP were briefed on unsubstantiated claims against Trump | CNN Politics
January 6 United States Capitol attack – Wikipedia
US Supreme Court to rule on Trump immunity claim – DW – 02/29/2024
US Supreme Court to decide Trump criminal immunity claim in 2020 election case | Reuters
Feds dropping case for 2 Russian companies in troll probe | AP News
DNC Loses Racketeering Suit Over 2016 Election Hack | Courthouse News Service
Exclusive: FBI finds scant evidence U.S. Capitol attack was coordinated – sources | Reuters
I Bush, i Clinton, e lo scandalo Iran-Contra: una parabola americana – Parte 2/2 | UMANISTRANIERI
https://x.com/nytimes/status/1592268660831408133?s=20
Trump, l’editoriale del NYT, e Brennan: i pericoli per la democrazia Usa | UMANISTRANIERI
Republican infighting escalates over poor 2022 election results as Trump re-emerges (nbcnews.com)
Sidney Powell pleads guilty in Georgia Trump election case | AP News