La traiettoria di Orwell su pacifismo, guerra ed era post-atomica
“Combattere contro il fascismo, per la libertà”: è il motivo per cui Eric Blair, giunto a Barcellona nel 1936 come aspirante cronista bellico, si arruolò tra i Repubblicani nella Guerra Civile spagnola; lo racconta nel reportage Omaggio alla Catalogna, pubblicato due anni dopo. Da quell’esperienza lo scrittore inglese, ancora lontano dalla fama, inizia il suo percorso intellettuale lungo una decade cruciale per l’umanità. Una traiettoria battezzata con un nome d’arte, quel George Orwell con cui è universalmente noto; e proseguita con saggi, articoli, corrispondenze e romanzi: un corpo a corpo ideale con temi polarizzanti quali la guerra e il pacifismo, il fascismo e la giustizia sociale, l’imperialismo e la rivoluzione, l’informazione e la propaganda, il totalitarismo e la libertà; un lavoro di impegno civile e politico, fusosi con quello letterario, che ce lo consegna come uno dei massimi pensatori del ‘900, tutt’oggi contemporaneo.
In Catalogna Orwell arrivò sfruttando i contatti con l’ILP (Independent Labour Party), partito socialista che fece da ponte per i volontari pronti a lottare contro l’insurrezione del Generale Franco, e in difesa del Governo del Fronte Popolare. A Barcellona l’atmosfera rivoluzionaria degli anarchici convinse l’ex ufficiale di polizia dell’Impero britannico a unirsi alla causa: si stava combattendo contro un’internazionale fascista, ingrossata dalle truppe tedesche di Hitler e gli italiani di Mussolini; ma si stava anche realizzando una visione marxista di giustizia sociale, con l’abbattimento del capitalismo e il superamento delle classi borghesi. Una propensione per il socialismo, a livello idealistico piuttosto che partitico, maturata attraverso i precedenti vagabondaggi nei quartieri proletari di Londra e Parigi; e durante i viaggi nelle aree industrializzate nel nord dell’Inghilterra: lì, Orwell testimoniò, provandola, la vita fatiscente degli ultimi. Esperienze a cui si sommano gli anni in Birmania, dove la macchina capitalista e la gerarchia sociale poggiavano sul colonialismo razzista. E’ il rifiuto di quel tipo di società, difendibile solo con la coercizione e la repressione, che persuase Eric Blair a dimettersi da una posizione di potere, e lasciare il sub-continente indiano. E’ il rigetto del fascismo, una struttura sociale intrinseca alla violenza di Stato, a spingere George Orwell a partecipare alla guerra in Spagna: con tutte le conseguenze di quella scelta.
Come racconta, Orwell probabilmente uccise in battaglia più di un uomo, con spari a distanza e lanci di granate; e non ha celato l’episodio in cui tentò di ammazzare alla baionetta un nemico, inseguendolo per i cunicoli di un fortino. D’altro canto, egli stesso rischiò la morte in trincea, colpito alla gola da un cecchino; la ferita gli varrà il congedo, e l’appiglio per lasciare una Barcellona dilaniata dalla faida nel Fronte Popolare.
Per un fatto casuale Orwell si era arruolato nelle file del POUM (Partito Operaio di Unificazione Marxista), che insieme agli anarchici aveva imposto in Catalogna una semi-autonomia di ispirazione leninista. Al fronte il POUM e gli anarchici combattevano con lealtà sotto al Governo centrale; ma il Partito Socialista Operaio Spagnolo (PSOE), azionista di maggioranza del Fronte Popolare, non condivideva quella deriva; e non la tollerava l’Unione Sovietica di Stalin, che sosteneva Madrid con finanziamenti e armi. La Generalitat, poi, era presieduta da Lluis Companys, che nel 1934, per qualche ora, aveva proclamato la Catalogna Stato indipendente. A Barcellona i carabineros, milizie governative, insieme ai comunisti inquadrati nell’esercito, esautorarono i presidii del POUM e degli anarchici; scatenando una vera e propria persecuzione dei militanti. Nelle retate, supervisionate da agenti di Mosca, finirono pure i volontari stranieri come Orwell; il quale riuscì a sfuggire all’arresto grazie alla tempestività di sua moglie Eileen O’Shaughnessy, giunta in Spagna qualche mese prima. Quella caccia all’uomo fu una pugnalata alle spalle: perché anarchici e membri del POUM erano accusati falsamente di essere una quinta colonna nazi-fascista.
Nel giugno del 1937 Orwell e la moglie Eileen riuscirono a scappare in Francia, ma si lasciavano indietro amici destinati a marcire in galera; mentre il leader del POUM Andreu Nin veniva torturato dagli emissari di Stalin, e infine giustiziato.
L’esperienza in Catalogna, con il suo carico di speranze, sofferenze e disincanti, fu catartica per Orwell: fornì allo scrittore una lente etica e un metro critico per osservare le dinamiche sociali, analizzare i fatti politici, ed elaborare una visione della realtà. A cominciare dalla presa di coscienza che sull’Europa gravava il rischio di una grande guerra: troppo forte lo scontro tellurico tra la spinta rivoluzionaria delle classi proletarie e la mobilitazione fascista transnazionale. Quando Omaggio alla Catalogna venne pubblicato, in Spagna Franco non aveva ancora vinto: ma era evidente la forza ideologica del nazismo, e la proiezione di potenza di Hitler sull’Europa; ed era lampante come le rivendicazioni di giustizia sociale, ovunque spuntassero, dovevano fare i conti con il comunismo sovietico e l’ortodossia staliniana.
In quel quadro, a Orwell e alla moglie Eileen, molto influente sul marito, appariva improrogabile una scalata socialista in Inghilterra; per attuarla, era necessario scongiurare lo scoppio di una nuova guerra europea: avrebbe riproposto, ingigantite, le dinamiche della Guerra Civile Spagnola, oltre che gli orrori.
Nel 1938 Eileen O’Shaughnessy aderì alla PPU (Pledge for Peace Union – Unione per l’Impegno per la Pace): fondata nel 1934, si prodigava affinché la Gran Bretagna non precipitasse più in nessuna guerra; erano passati vent’anni dal conflitto 1914-18, un buco nero in cui erano cadute milioni di vittime. Il pacifismo della PPU aveva fondamenta etiche e morali: si confrontava con un Paese militarista e imperialista, in un’epoca in cui il bellicismo tracimava dai centri di potere. La scelta della moglie Eileen influì parzialmente su Orwell: non aderì alla PPU, ma abbracciò il pacifismo (e l’anti-imperialismo) dell’ILP, mosso da una convenienza politica tutta interna alla Gran Bretagna.
In quel periodo Orwell si spese per allontanare lo spettro della guerra, come ammette ne Il Mio Paese di Destra e Sinistra, scritto nell’autunno del 1939 (ma pubblicato un anno dopo). Lo stesso Omaggio alla Catalogna è venato di anti-militarismo: con la descrizione di giovani che andavano a morire inconsapevoli.
La Conferenza di Monaco del 1938 scongiurò un nuovo conflitto in Europa, con la politica dell’appeasement: concedere a Hitler un’area di Cecoslovacchia a larga maggioranza tedescofona. Praga, nella primavera del 1939 finì in pasto non solo alla Germania, ma anche ai Paesi limitrofi: Polonia e Ungheria rivendicavano pezzi di territorio su base etnica, e se li presero; l’Ucraina carpatica si dichiarò indipendente. Tuttavia la politica dell’appeasement era destinata a fallire. Passata una settimana dalla firma del “Patto di Non Aggressione URSS-Germania”, il 1 settembre 1939 Hitler invase la Polonia. Con il gioco delle alleanze, Francia e Gran Bretagna entrarono in guerra; ma la macchina bellica nazista si rivelò inarrestabile: in pochi mesi l’Europa continentale, tra annessioni, conquiste e alleanze, era marchiata di svastiche e fasci littori. Dopo la disastrosa ritirata di Dunkerque, la Gran Bretagna si asserragliò sull’isola, assediata da mare e cielo.
Quella situazione aveva accresciuto le richieste di un armistizio con Hitler: come poteva sperare la sola Gran Bretagna di battere la Germania, e invertirne l’espansione in Europa? Bisognava evitare inutili spargimenti di sangue. Questa era la posizione della PPU, al picco della popolarità.
Tuttavia già nei primi mesi dallo scoppio della guerra, l’approccio di Orwell era mutato; prima di tutto, sotto il profilo etico e politico:
“Non c’è una vera alternativa tra l’opporre resistenza a Hitler e concedergli la resa, e da un punto di vista socialista dovrei dire che è meglio resistere; in ogni caso non vedo argomenti per la resa che non rendano assurda la resistenza Repubblicana in Spagna, la resistenza cinese contro il Giappone, eccetera.”
Lo scrive, appunto, nel saggio Il Mio Paese di Destra e Sinistra, nel quale preconizzava il Governo di unità nazionale presieduto da Winston Churchill con la partecipazione del Partito Laburista. Poi però descrive una molla sentimentale per motivare il sostegno alla guerra: la lealtà alla patria, la cui esistenza era a rischio – come avrebbero dimostrato i bombardamenti su Londra; “agire diversamente sarebbe come sabotarla”. Il suo patriottismo va al di là di un leader detestato come il conservatore Neville Chamberlain: sono i valori dell’Inghilterra che Orwell si impegna a preservare; “persisterebbero anche qualora, durante il conflitto, si dovesse verificare una rivoluzione socialista”. Ma nessun tipo di riforma sociale sarebbe più possibile “senza tenere alla larga Hitler”, ancora popolare in Gran Bretagna. In questo periodo inizia a criticare il “pacifismo orbo di chi si sente protetto dalla grandezza della forza navale”; e di chi si nasconde dietro alla mattanza della Grande Guerra per non affrontare la presente minaccia.
E’ con la solita lucidità che Orwell espone tali considerazioni; mischiata, però, a un’emotività che sale dall’inconscio: come se lo spirito del tempo scuotesse l’interiorità di ognuno, fino agli angoli reconditi della psiche. Scrive nel saggio:
Per molti anni vedevo lo scatenarsi di questa guerra come un incubo, e in qualche occasione ho fatto perfino discorsi e scritto pamphlet per scongiurarla. Tuttavia, la notte prima dell’annuncio del patto fra Russia e Germania [Patto di non Aggressione del 23-8-1939 – n.d.r], sognai che la guerra era cominciata. Era uno di quei sogni che, qualunque sia l’intimo significato freudiano che possono avere, qualche volta ti svelano il vero stato dei tuoi sentimenti. Il sogno mi ha insegnato due cose: primo, mi sarei dovuto sentire semplicemente sollevato allo scoppio della guerra, così a lungo temuta; secondo, ero patriottico fino al midollo, non avrei sabotato o agito contro la mia parte; e avrei supportato la guerra, e l’avrei combattuta se possibile.
Scandagliandosi, Orwell misura anche il rapporto con il militarismo, che riconosce intrinseco nel sistema educativo inglese: “i ragazzi sono sempre stati preparati all’eventualità di combattere”; pure quelli che da adolescenti, lui compreso, avevano ignorato la Grande Guerra, e snobbato i reduci. Per ribellione, successivamente al conflitto 1914-18, il quindicenne si era atteggiato da pacifista; maturando, però, aveva concluso che la disposizione a sacrificarsi per la patria era un valore; e preziosa era la formazione militarista per chiunque volesse lottare per le giuste cause. Nel saggio fa l’esempio del comunista John Cornford, studente di scuole prestigiose, morto a 21 anni combattendo in Spagna.
Scoppiata la guerra, il 38enne Orwell provò ad arruolarsi nell’esercito, pronto a qualunque mansione, anche il soldato semplice. I rifiuti non ne smorzarono l’entusiasmo: contribuì ad addestrare la guardia civile – anche in previsione di una rivoluzione socialista inglese, di cui parla nel saggio del 1941 Il Leone e l’Unicorno: il Socialismo e il Genio Inglese. Tuttavia è l’ingaggio alla BBC come autore di un programma radiofonico che definisce i termini di quella disponibilità: i contenuti culturali erano destinati a un pubblico indiano; e nelle pieghe di poesie e romanzi, veicolava messaggi propagandistici per convincere gli universitari di New Delhi a sposare la causa contro i Paesi dell’Asse – l’India mobilitò 2 milioni di truppe nella II Guerra Mondiale. Orwell razionalizzava quel ruolo, in antitesi al suo rodato anti-imperialismo, con un ragionamento: gli indiani un giorno non lontano potrebbero ottenere l’indipendenza dalla Gran Bretagna; ma non la otterrebbero mai se Londra cadesse in mano nazista; o se il Giappone riuscisse nei suoi piani di invasione.
I calcoli di Orwell si riveleranno corretti: mancano pochi anni all’indipendenza dell’India. Tuttavia quel contributo alla BBC lo rese un bersaglio negli ambienti pacifisti e socialisti: additavano il suo lavoro come un supporto non solo all’imperialismo britannico, ma anche al sistema capitalista, prosperante nelle liberal-democrazie. In definitiva, nei circoli intellettuali si dipingeva Orwell come un incoerente e un bellicista.
Questi attacchi diventarono lo spunto di uno dei suoi saggi più famosi: Il Pacifismo e la Guerra, pubblicato su Partisan Review nel numero di agosto-settembre 1942 – quando le sorti del conflitto pendevano a favore di Germania, Italia e Giappone. Lo scrittore difende le proprie posizioni, spiegandole con la totale avversione al nazi-fascismo: “la pace duratura la si può raggiungere solo con la completa sconfitta dei Paesi dell’Asse”. E stana gli argomenti retorici usati contro chi appoggia la guerra; disinnescando una per una le ragioni di un armistizio con Hitler. L’analisi parte da un concetto che suona come una dannazione:
Il pacifismo è oggettivamente pro-fascista. Questo è elementare buon senso. Se intralci lo sforzo bellico di una parte, automaticamente aiuti quello dell’altra. E non esiste un modo concreto di rimanere al di fuori di una guerra come quella attuale. Detto in modo semplice: ‘chi non è con me, è contro di me.’”
Nel saggio rigetta anche l’accusa di “essere a caccia di intellettuali”, mossagli da Alex Comfort, scrittore e futuro medico-scienziato; una figura significativa per Orwell e il suo lascito umano e intellettuale. Il saggio partiva dagli attacchi indirizzati a Partisan Review riguardo ad alcune recensioni di Orwell; fra queste, la stroncatura di un romanzo di Comfort, No Such Liberty, definito “propaganda pacifista” – per decenni Comfort, membro della PPU e obiettore di coscienza, sarà un leader del pacifismo britannico. Quella schermaglia, però, diede vita a una tenzone epistolare, rinsaldando un rapporto basato sulla stima.
Quei botta e risposta spronarono Orwell ad approfondire ulteriormente la dicotomia tra guerra e pacifismo, incardinandola però in un discorso più ampio e sfaccettato: “l’onestà nelle dispute politiche”, analizzato con un approccio linguistico, prima ancora che ideologico. Nel dicembre 1944, su Tribune comparve un saggio di Orwell sulle tecniche della propaganda: usate indiscriminatamente da tutti, a cominciare dalle cricche intellettuali e partitiche; e “in totale spregio della correttezza e dell’accuratezza”. Inaugurava un’indagine coltivata per un più articolato lavoro: La Politica e la Lingua Inglese, del 1946; e immortalata con la “newspeak – la lingua nuova“, armamentario della società totalitaria immaginata nel suo romanzo più celebre, 1984.
Con il saggio uscito per Tribune si limitò a riannodare il discorso di due anni prima, quando aveva decretato che il “pacifismo è oggettivamente pro-fascista”. Per l’uso improprio di “oggettivamente”, Orwell si cosparse la testa di cenere, ammettendo la “disonestà” di quell’affermazione: lui stesso, spiega, dovette scappare dalla Spagna per salvarsi da un’accusa simile e altrettanto ingiusta. Delineò il danno di sentenze così gratuite, spesso lanciate con campagne di odio; e aggiunse che generalizzare è sbagliato per due motivi: si disprezzano le intime ragioni di un individuo che, in buona fede, può essere sia contro la guerra sia contro il fascismo; e perché facendo di ogni erba un fascio, si perde la capacità di individuare chi è davvero a disposizione di un nemico.
Un convincimento che non abbandonerà più Orwell. Da quel periodo inizia a profilare personalità pubbliche, secondo lui soggette alle sirene di un regime totalitario; o che per ideologia, debolezza o stupidità, potevano fare il gioco di un nemico. Sul taccuino privato di Orwell finirono, in particolare, intellettuali che intrattenevano rapporti con l’URSS: durante la II Guerra Mondiale la politica e la stampa britannica trattavano con i guanti Stalin, dal 1941 alleato imprescindibile nella guerra contro Hitler. Fu il motivo per cui Orwell nel 1943 si era allontanato dalla BBC, in contrasto con la narrazione “autocensoria” sul regime sovietico. In più temeva che nei circoli politici e culturali inglesi alcuni fossero più leali a Stalin che all’Inghilterra. Era già in essere la composizione de La Fattoria degli Animali, romanzo allegorico sull’esito della Rivoluzione Russa del 1917: dal sogno di una società giusta basata sul marxismo, fino all’imborghesimento e alla corruzione dei vertici del partito; per arrivare alla scomparsa dei sospetti oppositori, deportati nei gulag; e al terrore delle purghe, con l’esecuzione di chi non si accodava al tiranno. Nel febbraio del 1944 il libro era già terminato, ma nessun editore era disposto a farlo uscire: perché ciò avvenisse, si dovette attendere l’agosto del 1945, e la fine della guerra. Quella posticipazione andava imputata all’intervento del Ministero dell’Informazione: un funzionario ne aveva sconsigliato, se non proprio vietato, la pubblicazione.
E’ lo stesso Orwell a documentarlo ne La Libertà di Stampa, saggio sulla censura e l’autocensura; lo stese come introduzione al libro, quando il destino del manoscritto era ancora incerto. E’ ironico che il saggio venne eliminato in fase di stampa, e avrebbe visto la luce solo nel 1972; ma in quelle pagine Orwell confermò di saper anticipare gli accadimenti del suo tempo: l’uscita de La Fattoria degli Animali era legata a un cambio di percezione di Stalin in Gran Bretagna; significava che il suo giudizio sull’URSS, da lui considerato “un regime malvagio”, sarebbe stato condiviso.
La Libertà di Stampa è un testamento sul dovere dell’onestà intellettuale, in difesa della libertà per chi fa informazione, senza la quale “la civiltà occidentale potrebbe esistere solo in modo incerto”; ma è anche una testimonianza sul passaggio repentino dalla II Guerra Mondiale alla Guerra Fredda: dalla lotta al nazi-fascismo si scalava allo scontro tra il blocco comunista sovietico e quello occidentale capitalista, guidato dagli Stati Uniti.
Il termine “Guerra Fredda” comparve per la prima volta proprio in un saggio di Orwell: Tu e la Bomba Atomica, pubblicato su Tribune nell’ottobre 1945. Lo scrittore inglese presentiva la minaccia dell’URSS, sul piano bellico e non solo ideale e politico, ben prima di Winston Churchill: il leader britannico avrebbe pronunciato il suo celebre discorso sulla “cortina di ferro” solo nel marzo 1946.
La definizione, nell’ottica di Orwell, era legata alla scoperta della bomba atomica, che avrebbe “raffreddato” le dinamiche conflittuali fra i super-Stati usciti vittoriosi sui Paesi dell’Asse – USA, URSS, Cina; era impensabile, dopo Hiroshima e Nagasaki, una guerra su scala globale senza mettere in conto la polverizzazione della civiltà umana. In questo scenario, poi, sarebbe aumentato il rischio di una stagnazione sociale e politica all’interno dei super-Stati: con il risultato di un arroccamento dei regimi al vertice; e l’involuzione dei cittadini, sempre più ideologizzati e derubati di diritti.
Tutti spunti, quelli elencati finora, che Orwell tesserà per creare la distopia di 1984: una Londra pseudo-socialista, annichilita dall’olocausto nucleare, e perennemente in conflitto con altri super-Stati; una società alienante spadroneggiata dal “Grande Fratello”, il volto del potere che ti tortura perfino nei pensieri più intimi.
“LA GUERRA E’ PACE” è uno degli slogan del partito unico di 1984, e riassume l’assurdità di uno stato di guerra perpetuo; un terrorismo psicologico che paralizza i “fratelli” di quella società. Una visione non lontana dalla realtà della Guerra Fredda, con la silhouette del fungo atomico in ogni mente; almeno fino al crollo del Muro di Berlino, nel 1989; ma ancora dal 2001 in poi, con la Guerra al Terrore post-11 Settembre; e con l’odierno conflitto in Ucraina, e il rischio di escalation fra Russia e Stati Uniti.
Fino a Little Boy e Fat Boy, le atomiche che provocarono 250.000 vittime, Orwell non aveva inteso la guerra come elemento strutturale di una società, ma come fenomeno legato a dispute tra Paesi, tra popoli, o tra gruppi di persone; e quasi sempre scatenata per il nazionalismo, nell’accezione ampia che ne dà lo scrittore:
“l’identificarsi con una singola nozione o altra unità, elevandola oltre il bene e il male, e non riconoscendo nessun altro dovere se non quello di avanzare gli interessi che rappresenta.”
La definizione è in un saggio del 1945, ma scritto a maggio, prima dell’attacco atomico americano: Appunti sul Nazionalismo è un manifesto contro ogni cartello intellettuale, politico o religioso che promuova un qualche tipo di superiorità identitaria; perché su tale superiorità i “nazionalisti”, con la loro “instabilità, ossessività, e disprezzo dei fatti”, minano qualsiasi tentativo di convivenza civile e decente. Le tendenze inquadrate come nazionalismo, nella società britannica di allora, erano svariate: ad esempio il fascismo, il neo-conservatorismo, il comunismo, il cattolicesimo politico, il sionismo, il razzismo, il classismo, l’antisemitismo, l’anglofobia.
Tra di essi, Orwell inserì anche il pacifismo, di per sé un atteggiamento contraddittorio: perché “i pacifisti possono abiurare all’uso della violenza solo perché altri sono disposti a commettere violenze al posto loro”; il nazi-fascismo era stato sconfitto grazie a coloro che avevano combattuto, non agli obiettori di coscienza. Tuttavia Orwell non ce l’ha con loro; anche perché in quel periodo si era riavvicinato ai circoli anarchici, attivandosi per il rilascio di tre editori anti-bellicisti arrestati in osservanza di leggi marziali; i legami personali, per altro, non si erano mai interrotti dall’esperienza in Catalogna: all’improvvisa morte della moglie Eileen, nel marzo 1945, in quelle amicizie aveva trovato un sostegno.
In realtà Orwell ce l’aveva con “una minoranza di intellettuali pacifisti” i cui veri motivi erano “l’odio per le democrazie occidentali e l’ammirazione per i regimi totalitari”. Che pacifismo può essere, si chiedeva, se viene condannato solo il militarismo anglo-sassone, e non quello della Germania di Hitler? Se si concede il diritto di difendersi solo ai russi, e non ai britannici? Se si attacca l’uso della forza degli Stati Uniti, ma non quello dell’URSS? Quella disonestà intellettuale era il bersaglio dello scrittore inglese.
Il movimento pacifista, poi, secondo Orwell, si era ingiustamente intestato anche la “non-violenza” di Gandhi, che dopo una lotta quarantennale aveva portato all’indipendenza l’India; lo spiega in Riflessioni su Gandhi, saggio pubblicato nel gennaio 1949, a un anno dall’assassinio del Mahatma per mano di un fondamentalista hindu:
“Anarchici e pacifisti, in particolare, lo hanno raffigurato come uno dei loro […]. L’approccio di Gandhi non era quello di un pacifista occidentale. Satyagraha, elaborato per la prima volta in Sudafrica, era una specie di guerra non-violenta, un modo di sconfiggere i nemici senza fargli del male, senza essere mossi dall’odio o senza generare odio. Implicava cose tipo la disobbedienza civile, gli scioperi, sdraiarsi davanti ai binari dei treni, sopportare le cariche della polizia senza scappare via e senza contrattaccare, e altre cose del genere. Gandhi obiettava all’espressione “resistenza passiva” come traduzione del termine Satyagraha: in lingua gujarati pare che il termine significhi “fermezza nella verità”. In giovane età Gandhi servì come portantino nella guerra anglo-boera, per i britannici, ed era pronto a fare lo stesso nella guerra del 1914-18. Anche dopo aver abiurato totalmente la violenza era abbastanza onesto da capire che in guerra di solito è necessario pendere per una parte.“
La guerra non-violenta di Gandhi aveva un nemico, la Gran Bretagna, che tutto sommato gli aveva lasciato libertà d’azione. Lo scrittore, infatti, dubitava che in un regime totalitario come l’Unione Sovietica, senza una stampa libera e il diritto di radunarsi, le mobilitazioni di massa sollevate dal Mahatma avrebbero avuto luogo. Perfino l’esistenza stessa di un Gandhi russo rischiava l’anonimato, se perso nell’arcipelago gulag. Tuttavia la domanda pressante, per Orwell, era un’altra: quel metodo avrebbe potuto funzionare in una crisi internazionale come la II Guerra Mondiale? Com’era possibile, si chiedeva lo scrittore, attuarla per fermare lo sterminio degli ebrei?
Applicato alla politica estera, il pacifismo smette di essere pacifismo o diventa appeasement, cioè un accordo al prezzo di gravi concessioni. In più la supposizione, che aiutò Gandhi così tanto nel trattare con gli individui, che tutti gli esseri umani siano più o meno approcciabili e reagiscano a gesti generosi, deve essere seriamente messa in discussione. Non è necessariamente vero, ad esempio, quando stai trattando con dei folli. Allora la domanda diventa: Chi è sano? Era sano Hitler? E non è possibile che una cultura sia insana nella sua interezza per gli standard di un’altra cultura? E, per quanto sia possibile misurare i sentimenti di intere nazioni, esiste un qualche apparente legame tra un atto generoso e una risposta amichevole? E’ un fattore la gratitudine, nella politica internazionale? Queste sono domande concatenate che richiedono un dibattito, con urgenza, nei pochi anni che ci restano prima che qualcuno prema il bottone e comincino a volare razzi. Appare dubbioso che la civilizzazione possa sopportare un’altra guerra su vasta scala, ed è almeno immaginabile che la via d’uscita risieda nella non-violenza.
In questo saggio si scorge la massima concessione di Orwell al pacifismo: la follia è un elemento della guerra, soprattutto in un conflitto come quello del 1939-45; e questa follia, munita di bombe atomiche, può portare alla fine della civilizzazione. La strada della non-violenza dovrà essere il percorso per disinnescare uno scenario da 1984 – pubblicato proprio nel giugno del 1949.
Tre mesi dopo, gli Stati Uniti annunciarono che l’URSS aveva sperimentato con successo la denotazione di una bomba atomica; di lì a poco spuntò la dottrina del “primo colpo”. Solo con la crisi dei missili di Cuba, nel 1962, sull’orlo di un conflitto mondiale, le due super-potenze intrapresero quella strada intravista da Orwell, in direzione opposta all’autodistruzione. I due leader di allora, l’americano John F. Kennedy e il sovietico Nikita Khruscev, pagarono per aver stoppato l’escalation: ma avevano scelto la via della diplomazia invece del burrone nucleare. Lo scollinare di ogni timore reciproco coincise con gli Accordi di Helsinki, e il compimento della politica della “distensione”. Era il 1975, venticinque anni dopo la morte dello scrittore inglese.
Orwell morì il 21 gennaio 1950 per le complicazioni di una tubercolosi che lo aveva costretto a lunghe degenze nei sanatori. Gli ultimi anni furono un periodo di vulnerabilità: lasciò indicazioni poi impugnate sull’eredità dei diritti d’autore; già gravemente malato, si sposò una seconda volta, con Sonia Brownell, ma dopo aver corteggiato altre quattro donne. Tra di loro Celia Kirwan, che iniziò successivamente a lavorare per l’IRD (Information Research Department), una sezione segreta dell’Ufficio degli Esteri britannico. L’IRD si occupava di diffondere propaganda anti-comunista, e Kirwan approfittò dell’amicizia con Orwell per chiedergli una lista di persone inadatte a lavorare in quel senso per la radiotelevisione.
Ufficialmente era quello il motivo per cui i 35 nomi fatti da Orwell arrivarono all’IRD; poteva però assomigliare a una lista di soggetti da attenzionare per le loro posizioni politiche. Forse Orwell non aveva nemmeno così chiare le implicazioni di quel gesto: si autoconvinse che i segnalati fossero già nel radar dell’IRD; tanti avevano la tessera del Partito Comunista, o erano noti simpatizzanti comunisti: gente che non avrebbe accettato di diffondere propaganda contro l’URSS. E’ un fatto che indicò Peter Smollett, il funzionario del Ministero dell’Informazione che aveva bloccato l’uscita de La Fattoria degli Animali: anni dopo sarebbe stato smascherato come l’agente sovietico “Smolka”. Di nessun’altro emersero legami del genere con l’URSS.
Di sicuro Orwell non avrebbe approvato alcuna forma di maccartismo; e mai discusse proposte di messa al bando del Partito Comunista. Ne La Libertà di Stampa aveva messo in guardia dall’incoraggiare metodi totalitari anche nel difendere la democrazia: “perché quegli stessi metodi, prima o poi, si ritorceranno contro di te.”
I 35 nomi spediti all’IRD erano tutti segnati sul taccuino di Orwell, riscoperto molti anni dopo la sua morte. In quelle pagine si leggono altri 100 profili: c’è anche Alex Comfort, lo scrittore con cui aveva intessuto un proficuo scambio epistolare. Così Orwell lo tratteggiò:
E’ un pacifista-anarchico. Grande enfasi sul suo essere anti-britannico. Soggettivamente pro-tedesco durante la guerra, per temperamento appare pro-totalitario. Non moralmente coraggioso. Ha una mano menomata. Di grande talento.
Non considerando quella lista un reclutamento governativo, l’episodio va però incluso nel bagaglio di Orwell: prova dove potesse arrivare la sua disponibilità per la patria durante la Guerra Fredda (e per una donna amata); e racconta di un conflitto interiore, verso la fine, tra la libertà di parola e il rischio di perderla; tra la libertà di pensiero e il timore che il totalitarismo esondasse anche in Gran Bretagna. L’URSS, sei anni dopo, avrebbe inviato i carrarmati a Budapest per schiacciare la Rivoluzione ungherese: la prima grande frattura tra i comunisti del blocco occidentale e quelli del Patto di Varsavia.
Quel taccuino ci fa interrogare su Orwell sul piano umano ed etico – come il suo avvallo per i bombardamenti a tappeto delle città tedesche pone questioni morali; ma non può ridimensionare il suo lascito intellettuale e civico. L’impegno a combattere contro il fascismo e per la libertà, imbracciando un fucile in Catalogna, si è mantenuto intatto anche quando decise di prendere in mano la penna; e con quella, negli anni, ha elevato i termini della lotta. E’ l’autore stesso a illustrarlo nel 1946, nel saggio Perché Scrivo:
La Guerra spagnola e altri eventi nel 1936-37 hanno fatto pendere l’ago della bilancia, e da allora ho saputo da che parte stare. Ogni riga di serio lavoro che ho scritto dal 1936, è stata scritta, direttamente o indirettamente, contro il totalitarismo e per il socialismo democratico, per come lo intendo io.
Seguendone la traiettoria nelle sue opere successive, si potrebbe aggiungere un impegno ulteriore nel suo “desiderio di spingere il mondo verso una determinata direzione”: lottare perché l’umanità salvi se stessa.
di Cristiano Arienti
In copertina: Familiar Silhouettes – Henry Carr, 1942
Fonti e link utili
La Libertà di Stampa – traduzione su UmaniStranieri
Il Mio Paese Destra e Sinistra / Pacifismo e la Guerra – traduzioni su UmaniStranieri
Tu e la Bomba Atomica / Riflessioni su Gandhi – traduzioni su UmaniStarnieri
Essays and other works | The Orwell Foundation
George Orwell: Pacifism and the War
You and the Atom Bomb | The Orwell Foundation
George Orwell on politics and war | Review of International Studies | Cambridge Core
Peace Pledge Union – Wikipedia
Eileen, Orwell and Anti-Militarism – The Orwell Society
Why I Write | The Orwell Foundation
The Comfort of Pacifism? – The Orwell Society
My Country Right or Left | The Orwell Foundation
Hoover Institution – Hoover Digest – Why Orwell Matters (archive.org)
Reflections on Gandhi | The Orwell Foundation
“Pacifism Is Objectively Pro-Fascist” – The Atlantic
8 December 1944 – As I Please – George Orwell, Book, etext (telelib.com)
U.S. Security Cooperation with Ukraine – United States Department of State
John Cornford, the tragedy of a faithful communist | Plain English (artsjournal.com)
Politics and the English Language | The Orwell Foundation