Orwell: Il mio Paese di destra o sinistra / Il Pacifismo e la Guerra
Di seguito si propongono le traduzioni di due saggi di George Orwell: Il Mio Paese di Destra o Sinistra e Il Pacifismo e la Guerra; più una riflessione dell’autore a due anni di distanza dalla pubblicazione di Pacifismo e Guerra. Questo materiale è qui inteso come accompagnamento del saggio proposto su UmaniStranieri: “La Traiettoria di Orwell su pacifismo, guerra ed era post-atomica“.
Il mio Paese di Destra o Sinistra
George Orwell – Titolo originale: My Country Right or Left – Folios of New Writing, Autunno 1940
Contrariamente al credo popolare, il passato non è affatto più gravido di eventi rispetto al presente. Se così sembra, è perché quando si guarda indietro a fatti successi ad anni di distanza, li si osserva come in un telescopio, tutti insieme; e perché davvero pochi dei nostri ricordi affiorano genuinamente limpidi. Ciò è dovuto in gran parte a libri, film e reminiscenze che si sovrappongono, e che fanno sì che la guerra del 1914-18 sia vista, oggi, con una qualche incredibile ed epica qualità che mancherebbe alla guerra di oggi.
Ma se avete vissuto durante quella guerra, e se districate le vostre vere memorie dai ricordi accumulati in seguito, scoprirete che non era uno di quegli eventi che all’epoca vi infiammavano. Non credo che la Battaglia della Marna, per esempio, fosse accolta dal pubblico generale con lo stesso trasporto melodrammatico che in seguito le è stato tributato. Non ricordo nemmeno di aver sentito la frase “Battaglia della Marna” se non anni dopo. La sua importanza si riduce al fatto che i tedeschi erano a una quarantina di chilometri da Parigi – e di certo era un fatto terribile, dopo le storie di atrocità in Belgio – e poi per qualche ragione se ne tornarono indietro. Avevo 11 anni quando la guerra cominciò. Se ripercorro le mie memorie e levo tutto quello che ho appreso in seguito, devo ammetter che nulla nell’intera guerra mi emozionò così profondamente come era successo per la perdita del Titanic qualche anno prima. Quel disastro, piccolissimo se paragonato alla Guerra Mondiale, colpì il mondo intero, e lo shock non è ancora del tutto svanito ancora oggi. Ricordo i terribili e minuziosi racconti letti ad alta voce a tavola, a colazione (all’epoca era un’abitudine diffusa leggere il giornale ad alta voce); e ricordo che in tutta la lunga lista di orrori, quello che più mi impressionò fu che alla fine il Titanic si ribaltò e affondò di prua: le persone aggrappate a poppa vennero sollevate a non meno di 100 metri nell’aria prima di cascare nell’abisso. Mi dava una sensazione di agitazione nella pancia che riesco a sentire ancora bene. Niente nella guerra mi diede quel tipo di sensazione.
Dello scoppio della guerra [luglio 1914 – N.d.R] ho tre vividi ricordi che, essendo insignificanti e irrilevanti, non sono influenzati da nulla che abbia appreso in seguito. Uno riguarda l’illustrazione dell’“Imperatore Tedesco” (credo che il detestato nome “Kaiser” venne reso popolare solo poco dopo) pubblicata negli ultimi giorni di luglio. La gente era scioccata da quel tipo di monarchia informale (“Ma è un così bell’uomo, davvero!) per quanto fossimo sul ciglio di una guerra. Un altro si riferisce a quando l’esercitò requisì tutti i cavalli del nostro villaggio, e un cocchiere scoppiò a piangere nella piazza del mercato quando il suo cavallo, al suo servizio da molti anni, gli venne portato via. Un altro ricordo riguarda una calca di giovani uomini che si fiondarono sui giornali della sera, appena arrivati con il treno da Londra. E ricordo la pila di giornali verdognoli (alcuni erano ancora in verde in quei giorni), gli alti colletti, i pantaloni attillati e i cappelli a bombetta, molto meglio di quanto possa ricordare i nomi delle terribili battaglie che si stavano già scatenando alla frontiera francese.
Degli anni centrali della guerra ricordo principalmente le spalle quadrate, i polpacci sporgenti e gli speroni tintinnanti degli artiglieri, la cui uniforme mi piaceva più di quella dei fanti. E per quanto riguarda il periodo finale, se mi chiedete di dire davvero il mio ricordo primario, rispondo semplicemente: la margarina. E’ un esempio dell’orribile egoismo dei bambini: nel 1917 la guerra aveva quasi smesso di avere un impatto su di noi, ad eccezione dei nostri stomaci. Nella biblioteca della scuola una enorme mappa del fronte occidentale era attaccata su un cavalletto, con un filo di seta rossa che vi scorreva attraverso con un zig-zag fatto di puntine. Occasionalmente, il filo si muoveva di un centimetro da una parte oppure dall’altra: ogni movimento stava a significare una catasta di cadaveri. Non ci facevo caso. Ero a scuola tra ragazzi con un livello di intelligenza superiore alla media: eppure non ricordo nemmeno un singolo evento maggiore dell’epoca che ci apparisse nella sua reale importanza. La Rivoluzione Russa, per esempio, non fece impressione su di noi, eccetto sui pochi i cui genitori avevano investimenti in Russia. Tra i più giovani la reazione pacifista era iniziata molto prima della fine della guerra. Comportarsi nel modo più fiacco possibile alle parate dei cadetti, e non mostrare nessun interesse nella guerra, era considerato un segno di illuminismo. I giovani ufficiali tornati dal fronte, induriti dalla terribile esperienza e disgustati dall’attitudine delle generazioni più giovani, che di quelle esperienze non se ne facevano niente, ci rimproveravano per la nostra mollezza. Chiaramente loro non potevano offrire nessuna argomentazione che noi fossimo in grado di comprendere. Riuscivano solo ad abbaiarti addosso che la guerra “era una buona cosa”, “ti teneva in forma”, eccetera. Gli ridevamo dietro. Il nostro era il pacifismo orbo caratteristico dei Paesi protetti da una potente forza navale. Per anni dopo la guerra, avere una qualche conoscenza o interessi per le questioni militari, perfino sapere da quale parte una pallottola esca fuori da una pistola, era guardato con sospetto nei circoli “illuminati”. La Guerra 1914-18 era stata messa da parte come un inutile mattatoio, e perfino gli uomini che erano stati macellati erano in qualche modo da biasimare. Ho sorriso spesso al pensiero di quel poster per il reclutamento: “Che cosa hai fatto tu nella Grande Guerra, papà?” (un bambino sta facendo questa domanda a un padre scosso per la vergogna), e di tutti quegli uomini che vennero attirati nell’esercito semplicemente guardando quel poster, per poi essere disprezzati dai loro figli per non essere stati degli Obiettori di Coscienza.
Gli uomini morti, però, si sono vendicati, dopo tutto. Mentre ci lasciavamo la guerra alle spalle, la mia generazione, in particolare, quelli che erano “appena troppo giovani”, diventarono coscienti della vastità dell’esperienza che avevano mancato. Ti consideravi un po’ meno di un uomo, perché l’avevi mancata. Ho trascorso gli anni tra il 1922 e il 1927 intorno a uomini un po’ più vecchi di me che avevano partecipato alla guerra. Parlavano in modo incessante di essa, con orrore, certo, ma anche con una nostalgia che cresceva in modo costante. Si riesce a vedere questa nostalgia in modo perfettamente chiaro nei libri di guerra inglesi. Inoltre, la reazione pacifista fu solo una fase, e perfino quelli “appena troppo giovani” erano stati preparati alla guerra. La gran parte della classe media inglese viene preparata per la guerra dalla culla in avanti; non tecnicamente, bensì moralmente. Il primo slogan politico di cui ho ricordo è “We want eight (eight dreadnoughts) and we won’t wait – Ne vogliamo 8 (8 navi da guerra) e non attenderemo”. A sette anni ero un membro dei marinai cadetti e indossavo un abito da marinaio con “H.M.S. Invincible – Nave di Sua Maestà Incinvible” sul mio berretto. Perfino prima di andare alla public school per l’OTC (Accademia per ufficiali), avevo frequentato una scuola privata per ufficiali cadetti. A intermittenza, da quando avevo dieci anni ho sempre imbracciato un fucile, in preparazione non solo della guerra ma per un tipo particolare di guerra: una guerra in cui le armi da fuoco sollevano un frenetico orgasmo sonoro, e al momento opportuno ti arrampichi fuori dalla trincea, spezzandoti le unghie sui sacchi di sabbia, e inciampi tra fango e filo spinato verso il barrage della mitragliatrice. Credo che uno dei motivi per cui la Guerra Civile Spagnola esercitasse un fascino su gente della mia età, sta nel fatto che somigliasse alla Grande Guerra. In certi periodi Franco [Leader fascista e in seguito dittatore spagnolo] riusciva a disporre di abbastanza aeroplani per innalzare la guerra a un livello moderno, e questi furono i momenti di svolta. Per il resto, però, fu una brutta copia del 1914-18, una guerra di posizionamento di trincee, artiglieria, incursioni, cecchini, fango, filo spinato, pidocchi e immobilità. All’inizio del 1937 il lembo del fronte aragonese in cui mi trovavo, doveva assomigliare a un quieto settore nella Francia del 1915. La differenza era l’artiglieria, che mancava. Perfino nelle rare occasioni quando tutte le armi da fuoco a Huesca e fuori città sparavano simultaneamente, ce n’erano così poche che producevano un rumore irregolare per niente impressionante, come la fine di un temporale. Le granate di Franco sparate dai mortai a sei pollici esplodevano con un gran rumore, ma non ce n’erano mai più di una dozzina alla volta. So quello che provai, nel sentire la prima volta l’artiglieria far fuoco “con rabbia”, come dicono laggiù: fu, come minimo. un parziale disappunto. Era così diverso dal tremendo, ininterrotto ruggito che i miei sensi stavano aspettando da vent’anni.
Non so dire in quale anno ebbi per la prima volta la certezza che questa guerra sarebbe arrivata. Dopo il 1936, sicuramente, la cosa era ovvia a chiunque tranne che agli idioti. Per molti anni vedevo lo scatenarsi di questa guerra come un incubo, e in qualche occasione ho fatto perfino discorsi e scritto pamphlet per scongiurarla. Tuttavia, la notte prima dell’annuncio del patto fra Russia e Germania [Patto di non Aggressione del 23-8-1939 – N.d.R], sognai che la guerra era cominciata. Era uno di quei sogni che, qualunque sia l’intimo significato freudiano che possono avere, qualche volta ti svelano il vero stato dei tuoi sentimenti. Il sogno mi ha insegnato due cose: primo, mi sarei dovuto sentire semplicemente sollevato allo scoppio della guerra, così a lungo temuta; secondo, ero patriottico fino al midollo, non avrei sabotato o agito contro la mia parte; e avrei supportato la guerra, e l’avrei combattuta se possibile. Scesi dalle scale per trovare il giornale con l’annuncio del volo di Ribbentrop a Mosca [Ministro degli Esteri nazista che firmò con l’omologo Molotov il Patto di non Aggressione Germania-URSS – N.d.R]. Quindi la guerra stava arrivando, e il Governo, perfino il Governo Chamberlain, poteva stare sicuro della mia lealtà [Neville Chamberlain, Primo Ministro Conservatore – N.d.R]. Inutile dire che la mia lealtà era e rimane meramente un gesto simbolico. Come per quasi tutti quelli che conosco, il Governo ha decisamente rifiutato di arruolarmi in qualsiasi tipo di compito, perfino come impiegato o soldato semplice. Ma quello non altera i sentimenti di una persona. Inoltre, saranno costretti a trovare una qualche utilità in noi, prima o poi.
Se dovessi difendere le ragioni del mio supporto alla guerra, credo che direi così. Non c’è una vera alternativa tra l’opporre resistenza a Hitler e concedergli la resa, e da un punto di vista Socialista dovrei dire che è meglio resistere; in ogni caso non vedo argomenti per la resa che non rendano assurda la resistenza Repubblicana in Spagna, la resistenza cinese contro il Giappone, eccetera. Ma non fingo che quella sia la base emozionale delle mie azioni. Quello che sapevo nel mio sogno di quella notte era che la lunga esercitazione affrontata dalle classi medie aveva funzionato: una volta che l’Inghilterra si trova in un serio guaio, è impossibile per me sabotarla. Che nessuno però si sbagli sul significato di tutto questo. Il patriottismo non ha nulla a che vedere con il conservatorismo. E’ devozione a un qualcosa che è in divenire, ma che è percepito essere misticamente la stessa cosa, come la devozione del bolscevico ex-Bianco alla Russia [I Bianchi furono una forza contro-rivoluzionaria anti-bolscevica – N.d.R]. Essere leale sia all’Inghilterra di Chamberlain che all’Inghilterra di domani potrebbe sembrare impossibile, se uno non sapesse che si tratta di un fenomeno comune. Solo la rivoluzione può salvare l’Inghilterra, questo è ovvio da molti anni; ma ora la rivoluzione è cominciata, e potrebbe procedere in modo abbastanza rapido se solo riuscissimo a tenere fuori Hitler. Entro due anni, forse un anno, se reggeremo, vedremo cambiamenti che stupiranno gli idioti che non hanno una visione. Oso dire che negli scoli di Londra dovrà scorrere il sangue. Bene, che ciò accada, se è necessario. Ma quando le milizie rosse saranno alloggiate al Ritz, sentirò ancora che l’Inghilterra, quell’Inghilterra che mi hanno insegnato ad amare molto tempo fa per così tante ragioni, in qualche modo persiste ancora.
Sono cresciuto in un’atmosfera tinta di militarismo, e dopo ho trascorso cinque noiosi anni al suono della tromba militare [Come ufficiale della Polizia britannica imperiale – N.d.R]. Ancora oggi mi dà un leggero senso di sacrilegio non stare sull’attenti durante l’inno “Dio salvi il Re”. Questo è infantile, certo, ma preferisco aver avuto quel tipo di educazione piuttosto che quella degli intellettuali di sinistra, che sono così “illuminati” da non riuscire a capire le emozioni più normali. E’ esattamente la gente il cui cuore non ha mai avuto una scossa alla vista della Union Jack che si tireranno indietro dalla rivoluzione quando arriverà il momento. Che ognuno possa mettere a confronto il poema che John Cornford scrisse non molto prima del suo assassinio (Before the Storming of Huesca) con quello di Sir Henry Newbolt There is a Breathless Hush in the Close Tonight. Mettete da parte le differenze tecniche, che sono una questione di epoca, e si vedrà che il carico emozionale dei due poemi è quasi esattamente lo stesso. Il giovane comunista che morì eroicamente nella brigata Internazionale era uno studente di scuola privata fino al midollo. Aveva cambiato la sua fedeltà alla causa ma non le sue emozioni. Che cosa prova questo? Semplicemente la possibilità di costruire un socialista sulle ossa di un componente di una famiglia della classe abbiente; prova la forza di un tipo di lealtà di trasmutarsi in un’altra; il bisogno spirituale per il patriottismo e le virtù militari, per cui, per quanto poco possa piacere ai conigli bolliti della sinistra, non è stato trovato ancora un sostitutivo.
Folios of New Writing, Autunno 1940 – Traduzione di Cristiano Arienti
Il Pacifismo e la Guerra
George Orwell – Titolo originale Pacifism and the War – Partisan Review, Agosto-Settembre 1942
Un anno fa circa io e altre persone siamo stati ingaggiati per trasmettere via radio programmi letterari rivolti a un pubblico indiano, e fra le altre cose abbiamo trasmesso una bella quantità di versi scritti da autori inglesi contemporanei o semi-contemporanei – ad esempio: Eliot, Herbert Read, Auden, Spender, Dylan Thomas, Henry Treece, Alex Comfort, Robert Bridges, Edmund Blunden. D.H. Lawrence. Quando è stato possibile, trasmettevamo i poemi letti direttamente da chi li aveva scritti. La ragione per cui furono istituiti questi specifici programmi (una piccola e remota unità di fiancheggiamento nella guerra per radio), non c’è bisogno di spiegarla qui; ma dovrei aggiungere che il fatto di trasmettere a un pubblico indiano ha parzialmente guidato il nostro approccio. Ecco il punto essenziale: il target delle nostre trasmissioni letterarie erano gli studenti universitari indiani, un pubblico ridotto e ostile, inavvicinabile da qualsiasi cosa potesse essere definibile come propaganda britannica. Si sapeva fin da subito che non potevamo sperare in più di qualche migliaio di ascoltatori al massimo, e questo ci ha dato il pretesto per essere ancor più “intellettuali” di quanto sia generalmente possibile per radio.
Siccome non penso tu voglia riempire un intero numero di P.R. (Partisan Review) con squallide controversie importate attraverso l’Atlantico, risponderò mettendo insieme le varie lettere che mi hai mandato (quelle di Savage, Woodcock e Comfort), visto che il tema centrale è lo stesso. Dopodiché, però, dovrò confrontarmi con distinti punti sollevati dalle varie lettere.
Pacifismo. Il pacifismo è oggettivamente pro-fascista. Questo è elementare buon senso. Se intralci lo sforzo bellico di una parte, automaticamente aiuti quello dell’altra. E non esiste un modo concreto di rimanere al di fuori di una guerra come quella attuale. Detto in modo semplice: “chi non è con me, è contro di me”. L’idea che si possa rimanere distaccati e alteri rispetto a questa lotta, nel mentre sostentandosi con il cibo che i marinai inglesi ci fanno arrivare a rischio della loro vita, è un’illusione borghese alimentata dai soldi e dal senso di sicurezza. Il Signor Savage sottolinea che “secondo questo tipo di ragionamento, un pacifista tedesco o giapponese sarebbe oggettivamente pro-Britannico”. Ma certo che lo sarebbe! Ecco perché le attività pacifiste non sono permesse in quei Paesi (in entrambe le nazioni la pena è, o può essere, la decapitazione), mentre sia i tedeschi che i giapponesi fanno tutto il possibile per incoraggiare la diffusione del pacifismo nei territori britannici e americani. I tedeschi gestiscono persino una stazione “della libertà” che distribuisce propaganda indistinguibile rispetto a quella del P.P.U. (Peace Pledge Union / Unione dell’Impegno per la Pace)*. Proverebbero ad alimentare il pacifismo anche in Russia se potessero, ma in quel caso hanno davanti un osso più duro con cui confrontarsi. Nella misura in cui abbia davvero efficacia, la propaganda pacifista può essere efficace solo in quei Paesi dove una certa soglia di libertà di parola è permessa; in altre parole, è utile al totalitarismo.
*[“Peace Pledge Union” era un’organizzazione fondata nel 1934: chiedeva di firmare un impegno scritto a rifiutare la guerra, qualsiasi fossero le cause; durante la II Guerra Mondiale la PPU fu attiva nel chiedere un compromesso di pace con la Germania – N.d.R].
Non sono interessato al pacifismo come “fenomeno morale”. Se il Signor Savage e altri immaginano che uno possa in qualche modo sconfiggere l’esercito tedesco restandosene sdraiati, che continuino a fantasticare; ma si faccia in modo che a volte si chiedano se questa non sia solo un’illusione dovuta al senso di sicurezza, ai troppi soldi, e alla semplice ignoranza di come le cose funzionano nella realtà.
Da ex civil-servant impiegato in India, mi faccio sempre una risata quando sento il nome di Gandhi, per esempio, elevato a modello della non-violenza. Già 20 anni fa nei circoli anglo-indiani si ammetteva cinicamente che Gandhi fosse davvero utile per il Governo britannico. E così lo sarà per i Giapponesi, se giungeranno in India. I Governi dispotici possono sopportare “la forza morale” fino alla fine del tempo. Quello che temono è l’uso della forza fisica. Sebbene non sia molto interessato nella “teoria del pacifismo”, lo sono nei processi psicologici per cui i pacifisti che hanno esordito con un presunto orrore per la violenza, finiscono con una marcata tendenza a subire il fascino del successo e della potenza del nazismo. Persino i pacifisti che non si riconoscerebbero in nessuna di queste fascinazioni cominciano ad affermare che una vittoria dei nazisti è desiderabile di per se stessa. Nella lettera che mi hai inviato, il Signor Comfort ragiona che un artista di un territorio sotto occupazione dovrebbe “protestare contro quei mali che vede”, ma considera che questo è meglio fattibile “accettando temporaneamente lo status quo” (come Déat o Bergery, per esempio?). Qualche settimana addietro sperava in una vittoria nazista per l’effetto stimolante che avrebbe sull’arte:
Per come la vedo, nessuna terapia eccetto una completa sconfitta militare ha una qualche possibilità di ristabilire una base solida per la letteratura e per l’uomo comune. Uno si immagina che più grande è l’avversità, più grande è il prepotente emergere di un flusso di lavoro creativo, e più grande è la fulminea catarsi della poesia, dall’interpretazione individuale della guerra come calamità alla realizzazione di una tragedia figurativa e reale per l’Uomo.
Quando avremo di nuovo accesso alla letteratura di guerra fra anni, in Francia, Polonia e Cecoslovacchia, sono certo che questo è quello che troveremo. (Da una lettera all’Horizon)– [Rivista letteraria – N.d.R].
Soprassiederò sull’ignoranza di chi vive nella bambagia e crede che la vita letteraria stia ancora andando avanti, per esempio, in Polonia, e mi limito a rimarcare che affermazioni del genere mi giustificano nel sostenere che i nostri pacifisti inglesi tendano verso un pro-fascismo attivo. Ma non ho particolati obiezioni contro ciò. Quello che critico è la codardia intellettuale di persone che sono oggettivamente e più o meno emotivamente pro-fascisti, ma a cui non importa di ammetterlo e si riparano dietro alla formula “sono antifascista come tutti, ma…”. Il risultato di questa cosiddetta propaganda di pace è disonesta e disgustosa tanto quanto la propaganda di guerra. Come la propaganda di guerra, si concentra nel proporre una “istanza”, oscurando il punto di vista avversario ed evitando scomode domande. La linea generalmente seguita è: “quelli che combattono contro il Fascismo finiscono per diventare fascisti essi stessi”. Al fine di sfuggire alle obiezioni abbastanza ovvie che possono sorgere, ecco i trucchi propagandistici che vengono usati:
- I processi di fascistizzazione che occorrono in Gran Bretagna come risultato della guerra sono sistematicamente esagerati
- Gli attuali risultati del fascismo, specialmente la sua storia pre-bellica, vengono ignorati o schifati come “propaganda”. Il dibattito su come sarebbe il mondo se dominato dai Paesi dell’Asse è evitato.
- Coloro che vogliono combattere contro il fascismo vengono accusati di essere appassionati difensori della “democrazia capitalista”. Il fatto che ovunque i ricchi siano inclini a essere pro-fascisti e la classe operaia sia quasi sempre anti-fascista passa quasi sempre sotto silenzio.
- Si assume tacitamente che la guerra sia soltanto fra la Gran Bretagna e la Germania. Si evita di citare la Russia e la Cina, e il loro fato qualora al fascismo fosse permesso di vincere. (Non troverai una parola sulla Russia o la Cina nelle tre lettere che mi hai mandato.)
Ora passerò a uno o due punti che devo affrontare se le lettere dei tuoi corrispondenti dovessero essere mandate in stampa per intero.
Il mio passato e il mio presente. Il Signor Woodcock prova a screditarmi affermando che: (1) un tempo ho servito nella Polizia Imperiale Britannica; (2) ho scritto articoli per Adelphi [Rivista letteraria diretta da John Middleton Murry, sponsor del PPU e sostenitore di un compromesso di pace con la Germania che lasciasse ai nazisti l’Europa continentale – N.d.R.] e sono stato coinvolto con i Trozkisti in Spagna; (3) sono stato ingaggiato dalla BBC “per trasmettere propaganda britannica al fine di confondere le masse indiane”. In riferimento al punto (1), è chiaramente vero che ho servito cinque anni nella Polizia Indiana. E’ altrettanto vero che ho rinunciato al lavoro, in parte perché non mi si addiceva, ma soprattutto perché non avevo più intenzione di servire ancora per l’imperialismo. Sono contro l’imperialismo perché lo conosco dall’interno. L’intera storia di questa parte della mia vita è ritracciabile nei miei scritti, incluso un romanzo (Giorni in Birmania), i quali posso affermare fossero una specie di profezia di quello che è successo quest’anno in Birmania. [La Birmania era l’attuale Myanmar – N.d.R]. (2) Certo che ho scritto per l’Adelphi. Perché non avrei dovuto? Una volta scrissi un articolo per una rivista vegetariana; questo fa di me un vegetariano? Sono stato associato con i Trotzkisti in Spagna. E’ stato un caso che fui arruolato nella milizia del POUM (Partito Operaio Unitario Marxista), e non in un’altra, e in larga misura dissentivo dalla linea del POUM e lo spiegavo ai capi in modo davvero franco; ma quando poi furono accusati di attività pro-fascista li ho difesi come meglio potevo. Come può tutto questo contraddire la mia attuale postura anti-hitleriana? Mi suona nuovo che i Trozkisti siano o pacifisti o pro-fascisti. (3) Il Signor Woodcock sa che tipo di roba trasmetto in India? Non lo sa – e sarei davvero felice di spiegarglielo. Sta ben attento a non citare cosa fanno le altre persone associate a questi programmi indiani; una delle quali, ad esempio, è Sir Herbert Read, menzionato con approvazione. Altre sono T.S. Eliot, E.M. Foster, Reginald Reynolds, Stephen Spender, J.B.S. Haldane, Tom Withringham. La maggior parte dei nostri conduttori sono intellettuali indiani di sinistra, dai Liberal ai Trozkisti, alcuni di questi aspramente anti-britannici. Non conducono il programma per “confondere le masse indiane”, ma perché ben sanno cosa significherebbe una vittoria fascista per le speranze di indipendenza dell’India. Perché non provare a capire cosa sto facendo prima di mettere in dubbio la mia buona fede?
“Il Signor Orwell è di nuovo a caccia di intellettuali” (Signor Comfort). Non ho mai attaccato “gli intellettuali” o “l’intellighenzia” in blocco. Ho sprecato un sacco di inchiostro e mi sono danneggiato da solo attaccando ripetutamente le conventicole letterarie che infestavano il Paese, non perché fossero intellettuali ma precisamente perché non erano quello che io intendo per vero intellettuale. La durata di una conventicola è di circa cinque anni, e scrivo da abbastanza tempo per averne viste nascere tre e sparire due – la banda cattolica, la banda stalinista e la presente, quella pacifista o, come qualche volta vengono soprannominati, la banda “fasci-fista”. Il mio problema contro tutti loro è che scrivono propaganda intellettualmente disonesta e degradano la critica letteraria a un reciproco lecchinaggio. Ma anche all’interno di questi vari circoli farei differenza tra individui. Non penserei mai di associare Christopher Dawson con Arnold Lunn, o Malroux con Palme Dutt, o Max Plowman con il Duca di Bedford. E perfino il lavoro di un individuo può esistere in livelli molto differenti. Ad esempio, Comfort stesso ha scritto poemi che apprezzo moltissimo (The Atoll in the Mind), e vorrei che ne scrivesse ancora altri al posto di smorti trattati propagandistici spacciati per romanzi. Ma questa lettera che ha deciso di mandarti è una questione diversa. Invece di ribattere a quello che ho detto, prova a condizionare un pubblico a cui sono noto travisando la mia generale linea di pensiero, e si fa beffe del mio “status” in Inghilterra. (Uno scrittore non viene giudicato dal suo “status”, viene giudicato dal suo lavoro.) Questo fa il paio con la propaganda di pace che evita di menzionare l’invasione di Hitler della Russia, e questo non è quello che io intendo per onestà intellettuale. E’ proprio perché prendo molto seriamente la funzione dell’intellighenzia che non mi piacciono gli sbeffeggi, le calunnie, le frasi ripetute a pappagallo, e le sviolinate economicamente profittevoli che prosperano nel nostro mondo letterario inglese, e forse anche nel vostro.
Partisan Review – Agosto-Settembre 1942 – Traduzione di Cristiano Arienti
Una riflessione di Orwell dalla sua colonna As I Say, colonna editoriale dello scrittore sul periodico Tribune, a proposito della parola “oggettivamente” nelle dispute politiche – testo pubblicato l’8-12-1944
Da anni sono un instancabile collezionatore di pamphlet, e un lettore abbastanza continuo di scritti politici di ogni genere. La cosa che più mi colpisce – e colpisce anche molte altre persone – è l’incredibile cattiveria e disonestà nelle dispute politiche della nostra epoca. Non intendo dire solo che le controversie siano aspre. Devono essere tali quando vertono su argomenti seri. Voglio dire che quasi nessuno sembra interessato al fatto che l’avversario meriti di essere ascoltato in modo corretto; o che la verità oggettiva conti davvero fintanto che uno può ottenere un punto a proprio favore nella disputa. Quando riguardo la mia collezione di pamphlet – siano essi di stampo conservatore, comunista, cattolico, trotskista pacifista, anarchico o di qualunque altro tipo – mi pare che quasi tutti abbiano la stessa aura mentale, per quanto diversi siano i punti a cui danno importanza. Nessuno è alla ricerca della verità, ognuno sta avanzando il proprio “caso” in totale spregio della correttezza e dell’accuratezza: il fatto più chiaramente ovvio può essere ignorato da coloro che non vogliono vederlo. Gli stessi trucchi propagandistici si ritrovano un po’ ovunque. Solo per questo saggio ci vorrebbero molte pagine unicamente per classificarli, ma qui evidenzierò un’abitudine molto diffusa e controversa: il disprezzo per le ragioni di un avversario. La parola chiave qui è “oggettivamente”.
Ci viene detto che a contare sono solo le azioni oggettive delle persone, mentre non hanno alcuna importanza i sentimenti soggettivi. Così i pacifisti, ostacolando lo sforzo bellico, stanno “oggettivamente” aiutando i nazisti; perciò il fatto che possano essere personalmente ostili al fascismo sarebbe irrilevante. Sono colpevole di averlo affermato io stesso più volte. Il medesimo argomento viene applicato ai trotzkisti. I trotzkisti vengono spesso accusati, per lo meno dai comunisti, di essere agenti di Hitler coscienti e attivi; ma quando si indicano le molte e ovvie ragioni per cui questo è improbabile, l’argomentazione basata sull’ “oggettivamente” salta fuori ancora. Criticare l’Unione Sovietica aiuta Hitler: perciò “il trotzkismo è il fascismo”. E quando si consolida tale concetto, di solito lo si accompagna con la ripetuta accusa di cosciente tradimento.
Questo non solo è disonesto: provoca una grave conseguenza. Se disprezzi le ragioni delle persone, diventa molto più difficile prevedere le loro azioni. Perché ci sono occasioni in cui la persona più fuorviata può rendersi conto dei risultati di quello che sta facendo. Ecco un caso limite ma che può benissimo verificarsi. Un pacifista lavora in un qualche ruolo che gli dà accesso a informazioni militari importanti, e viene accostato da un agente segreto tedesco. In quella circostanza i suoi sentimenti soggettivi fanno la differenza. Se è un pro-nazista, venderà il suo Paese; se non lo è, non lo farà. Situazioni essenzialmente simili, sebbene meno drammatiche, insorgono continuamente.
Secondo me qualche pacifista è interiormente pro-nazista, e partiti di estrema sinistra inevitabilmente conteranno fra le proprie fila spie fasciste. La cosa importante è scoprire chi è onesto e chi no, ma questo è reso ben più difficile se l’accusa viene generalizzata.
Il clima di odio in cui la disputa viene condotta rende ciechi di fronte a considerazioni di questo tipo. Ammettere che un avversario possa essere sia onesto che intelligente viene percepito come intollerabile; è molto più gratificante, nell’immediato, additarlo come uno sciocco o una canaglia, o entrambe le cose, piuttosto che scoprire chi è veramente. E’ un’abitudine mentale, fra le altre cose, che ha reso le previsioni politiche, nella nostra epoca, fallaci in modo rimarchevole.
Tribune – 8 Dicembre 1944 – saggio pubblicato sulla periodica colonna As I say
Traduzioni di Cristiano Arienti
Il saggio originale My Country Right or Left è stato ripreso da Orwellfoundation.com
Il saggio originale Pacifism and the War è stato ripreso da www.orwell.ru