I social media, le bare di Bergamo e la mala-verità
Una coltre di nuvole gravava su Bergamo quel giorno di luglio 2020: davanti alla Chiesa di Sant’Antonio, nel quartiere Valtesse, il feretro dello zio Valentino, spentosi a 71 anni per una malattia terminale, era pronto per l’ultimo viaggio; amici e parenti si stavano ancora scambiando condoglianze e ricordi quando mi avvicinai all’addetto delle pompe funebri, un signore brizzolato in livrea scura: “Deve essere stata dura fra marzo e aprile, per voi”.
Bergamo, insieme a Qom in Iran, era stato il primo grande focolaio fuori dalla Cina; l’ondata di Covid in Lombardia forzò il Governo italiano, primo in Occidente, a implementare severe restrizioni: il resto del mondo fluttuava tra uno stato di negazione e il timore che, passate un paio di settimane, quella fosse la strada maestra: distanziamento, mascherine, chiusure e confinamenti.
L’addetto, senza girarsi, e affilando lo sguardo, si limitò a dire: “Abbiamo organizzato oltre 400 funerali in quelle settimane.”
Funerali per modo di dire: la cerimonia consisteva in una sosta davanti alla bara; o nel passaggio del carro funebre davanti a casa, diretto al crematorio. Ai parenti veniva poi consegnata un’urna da stringersi al petto, come una lapide da conficcare in un cuore spaccato: che dolore è non aver potuto stringere la mano al proprio caro nel peggiorare della malattia? Abbracciarlo nell’ora della morte, quando l’anima s’invola nel mistero? Piangerlo con un degno rito?
Nel rispondermi, lo sguardo dell’addetto stava fissando una coltre di dolore: era lui a relazionarsi con persone che avevano perso in quel modo lunare i propri cari; lui a posare nelle chiese filari di bare, un ordine geometrico nel caos di quei mesi. Storie e immagini che graveranno per sempre nella nostra coscienza collettiva. Come il video della colonna di mezzi militari in via Borgo Palazzo, in centro a Bergamo: prelevavano decine di feretri dall’obitorio del cimitero monumentale, trasportandoli verso crematori di altre province. Era il 18 marzo: quell’istantanea girò il mondo, facendo scattare la modalità emergenziale anche in quei Paesi dove non si era ancora verificato il collasso del sistema sanitario.
In quella primavera del 2020 la realtà sembrava ripiegarsi in se stessa, costringendoci tutti in una prigione fisica, le mura di casa, e psicologica, la paura per un virus sconosciuto.
Eppure da tempo alcuni si chiedono se fosse davvero così critica quella prima fase della la pandemia, mettendo in dubbio la necessità di misure alienanti. Oggi ampie aree dell’opinione pubblica, a cui strizzano l’occhio forze politiche, rigettano le fondamenta di quella crisi: ovvero la contagiosità del virus, la mancanza di terapie efficaci, e la sua letalità. E’ già dimenticato l’esempio dell’Inghilterra: il Premier Boris Johnson inizialmente aveva adottato la strategia di “lasciarlo correre attraverso la popolazione, per raggiungere un’immunità di gregge“; l’ondata travolse il Paese, mandando in tilt il sistema sanitario, e costringendo il Governo alle misure adottate in Italia. Johnson medesimo si contagiò, ad aprile 2020, trascorrendo giorni tra la vita e la morte in terapia intensiva.
Mentre la pandemia devastava uno dopo l’altro i Paesi del mondo, sui social già rimbalzavano le teorie più disparate, anche campate per aria, arrivando a negare la strage di Covid19 a Bergamo: dentro a quei camion militari non c’era niente, si leggeva in commenti condivisi da migliaia di utenti. Iniziò poi a circolare su Facebook anche una fotografia con centinaia di bare disposte in un hangar; che fosse Lampedusa era palese al primo colpo d’occhio: ritraeva i feretri dei migranti naufragati nell’ottobre 2013 – altro evento di catarsi collettiva; veniva spacciata per Bergamo, per bacchettare chi protestava contro il lockdown, quando la gente non poteva concedersi una semplice passeggiata. Purtroppo alcuni quotidiani la riutilizzarono negli articoli che parlavano della città lombarda; la “prova” che fosse in atto un’operazione di propaganda allarmistica, affinché i cittadini accettassero le misure anti-pandemiche.
La negazione delle “bare di Bergamo” spinse alcuni giornali a sfatare la bufala che la fotografia di Lampedusa ritraesse morti per Covid: ma ormai il danno era fatto. Nell’epoca di internet si è affermata la post-verità: un argomento da un fatto decontestualizzato, travisato, o perfino inventato, può entrare nel dibattito pubblico e toccare l’emotività dei cittadini; si formano un’opinione su notizie non verificate; si radicalizzano in una dimensione che non ha ancore nella realtà; socializzano e si coalizzano intorno a fandonie: occupando uno spazio virtuale, online, uno fisico, nelle piazze, e uno politico, nelle urne.
Notizie false magari vengono lanciate da utenti privi degli strumenti per capire i danni di dati sbagliati o dettagli inaccurati; oppure sono originate da account anonimi dietro cui si celano attori con un’agenda; per non parlare di politici, giornalisti ed esperti che galleggiano nell’ambiguità per consenso e audience, o per incompetenza. Il risultato è un tetris di informazioni che si accatastano una sopra l’altra: ed è necessaria una verifica perpetua per eliminare i pezzi che ostacolano una comprensione della realtà aderente ai fatti. Un esercizio parallelo a una sana diffidenza verso la stampa, spesso megafono della propaganda governativa. Come per l’assicurazione che il vaccino riducesse trasmissione e contagio: se è stato vero per la variante originale del virus, per quelle successive il grande impatto lo ha avuto nella diminuzione di sintomatologia, ospedalizzazioni e decessi.
Tuttavia questo sforzo di fact-checking, individuale o giornalistico o istituzionale, rischia di essere un secchiello che svuota il mare: nella cascata di informazioni si ripresentano tesi ormai smontate, e pezzi già debunkati; ricrescono notizie false che si pensavano eliminate dal dibattito pubblico: questo, perché ormai fluttuano nella mente di chi continua a proporle, anche solo come condivisione. Ecco che alcuni argomenti non-fattuali hanno ormai un ciclo di vita quasi autonomo, come una alga infestante, o un malware che ha corrotto un sistema operativo.
Il tentativo di porre una diga a questo meccanismo, per altro, rischia di sfociare nella censura; come è avvenuto con la tesi che il Sars-Cov-2 sia scappato dall’Istituto di Virologia di Wuhan: definita come complottismo da una fetta di scienziati e giornalisti, e bandita da Facebook, oggi non è scartata dall’ultimo rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sull’origine del Covid19.
E’ quindi un segno dei tempi, soprattutto per chi usa i social media – ormai imprescindibili nell’arena politica – trovarsi davanti a una notizia palesemente falsa trattata come vera. Come è accaduto qualche giorno fa, quando nello schermo di Twitter è riapparsa l’immagine dei feretri di Lampedusa spacciata per Bergamo, con tanto di grafica del nome della città lombarda; un photoshop da confrontare con la vera fotografia, per inculcare l’idea, a quasi tre anni distanza, che a Bergamo non ci sia stata nessuna catastrofe sanitaria.
“Ricordate la foto delle bare di Bergamo, in Italia, nel marzo 2020, che terrorizzò il mondò e contribuì alla frenesia del lockdown? Anche questa era falsa.”
L’israelo-americano Eli David, che opera nei settori della finanza e dei software, è un personaggio con un certo seguito su Twitter – circa 220.000 follower; ed è uno dei megafoni più seguiti fra chi attacca le misure anti-pandemiche: dalle mascherine ai distanziamenti, dalle chiusure alla profilassi. Nelle sue invettive, negando la pericolosità del virus, insinua che i Governi abbiano oppresso i cittadini fino a violentarli nelle libertà elementari; anzi, mettendoli inutilmente in pericolo con una campagna vaccinale che arrecherebbe danni e non benefici. Ogni giorno posta articoli, studi, commenti che validerebbero il suo punto di vista; spesso manipolandone i contenuti, o interpretandoli a modo suo.
Il tweet di Eli David è stato condiviso 34.000 volte, e “cuorato” da oltre 70.000 persone, raggiungendo milioni di utenti in tutto il mondo.
Un sito di debunker italiano, butac.it, fra gli altri, ha denunciato l’uso strumentale dell’immagine: ripercorrendo la storia di quel falso, ha accusato di mistificazione Eli David; il quale ha deriso il fact-checking, rimarcando di essere nel giusto, incurante di quello che davvero accadde in Lombardia nel marzo-aprile 2020. Il tweet originale circola ancora in rete, usato in conversazioni per “dimostrare” che dall’Italia è stata “inventata” un’emergenza; nei commenti, a migliaia, la fotografia diventa così il simbolo della corruzione dei governi oppressori, delle bugie degli organi di stampa, e dell’inaffidabilità della scienza ufficiale.
Una notizia falsa che contribuisce a impiantare una cattiva verità: una mala-verità che annebbia la visione della realtà; in un rapporto così malato con l’informazione, che forse nemmeno la parola di quell’addetto delle pompe funebri potrebbe convincere chi nega le “bare di Bergamo”.
Una coltre grava nella società di oggi, ci brancoliamo dentro attraverso i social media, fino a cascare dal ciglio dell’umano: come farsi beffe del dolore dei familiari di chi era stato deposto in quelle bare; ma è a quel ciglio, ancora solido di fatti, e nel rispetto delle persone, a cui dobbiamo rimanere aggrappati quando riportiamo, condividiamo o apprendiamo notizie.
di Cristiano Arienti
In copertina: Foto di Claudio Furlan / La Presse, presa il 16 marzo 2020 al Cimitero Monumentale di Bergamo
Link e fonti utili
18 marzo: due anni fa quelle bare a Bergamo che non dimenticheremo | Vanity Fair Italia
Tweet choc del figlio di Enrico Montesano sulle bare di Bergamo – Politica – ANSA
Covid, i camion con le bare di Bergamo per Freccero “sono tutte fesserie” – BergamoNews