COP26 vista da dentro: una corda tesa oltre i Cambiamenti Climatici
E’ come trovarsi di fronte a un immenso groviglio: solo con la disponibilità di tutti i Paesi coinvolti, per un lavoro di migliaia di persone lungo mesi, si riesce a tendere la corda da gettare oltre gli ostacoli; per quanto fragile e sottile, serve per arrampicarsi verso un futuro decarbonizzato, su un pianeta che nelle prossime decadi vedrà ridurre significativamente le emissioni di gas climalteranti. E’ questo il grande lascito della COP26 di Glasgow.
Immagine e metafora suggerite durante la conversazione con Marina Vitullo, responsabile della stima dei gas serra del settore “uso del suolo e foreste” presso ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale), e veterana della delegazione italiana alle COP; le Conferenze delle Parti che, da quasi 30 anni, riuniscono le nazioni del mondo con l’obiettivo di contenere il Riscaldamento Globale antropico, e limitare il conseguente Cambiamento Climatico.
Alla COP26 di Glasgow Vitullo ha partecipato ai lavori sulla Trasparenza e le tabelle da utilizzare per reporting e contabilizzazione delle emissioni di gas serra; lo spunto della nostra conversazione è stato proprio definire i meccanismi dell’evento: una spedizione verso un lontano Everest in cui, fa intendere, basta un singolo strattone per far crollare l’intera cordata. Come era accaduto alla COP15 di Copenaghen nel 2009, quando si consumò la rottura fra gli Stati Uniti, Paese da decenni con le maggiori emissioni climalteranti pro-capite, e la Cina, Paese emergente ma con le maggiori emissioni in assoluto: gli obiettivi che si voleva fissare in ambito UNFCCC (Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici) non passarono. Da quella esperienza è sorto un nuovo approccio, multilaterale e su base volontaria, per raggiungere i risultati di oggi: che sono in ordine cronologico l’ultima tappa di un percorso inaugurato nel 2015, con la COP21.
“Con l’Accordo di Parigi tutti i Paesi del mondo hanno accettato di darsi un obiettivo: dobbiamo limitare l’aumento delle temperature globali a 1,5°C rispetto all’epoca pre-industriale entro il 2050; un risultato inimmaginabile dopo Copenaghen, e giudicato fin troppo ambizioso. Ma già l’anno dopo, a Katowice, il focus era un altro: come facciamo a mantenere gli impegni di Parigi? Alla COP21 si è costruito una sorta di campo base con mappe e istruzioni: partendo da lì, prendono forma tutte le decisioni globali in campo energetico e climatico. E’ vero che c’è stato un periodo di incertezza, dovuto alla mancata leadership degli Stati Uniti con l’Amministrazione Trump; e l’opposizione della Cina su alcuni aspetti tecnici. Però alla COP di Madrid, nel 2019, incredibilmente si discuteva di neutralità carbonica, con alcuni Paesi che ponevano il target negli NDC, i Contributi Nazionali Determinati su riduzione di gas serra e transizione energetica; gli stessi NDC dovevano essere quinquennali: in realtà sono stati aggiornati più volte negli ultimi anni.
Detta così, le COP sembrano una scampagnata; in realtà Vitullo le paragona a interminabili riunioni di condominio: oltre 200 Paesi devono trovarsi d’accordo non solo sui principii, ma soprattutto sui testi finali, che sono vincolanti. Anche per la COP26 è stato così: il Glasgow Climate Pact conta quasi 100 punti che vertono sui più disparati item-articoli, raggruppati in VIII sezioni: come se fosse una Costituzione planetaria su clima ed energia, ma con impatti in ogni settore. La delegazione italiana ha un coordinamento interministeriale, supervisionato dalla Presidenza del Consiglio.
Una “Costituzione” in costante aggiornamento; tanto è vero che esistono due gruppi di lavoro fissi in seno all’UNFCCC: il SBSTA, Corpo sussidiario per l’avanzamento tecnologico e scientifico; e lo SBI, Corpo sussidiario sull’implementazione. I due gruppi, composti da esperti di tutto il mondo, si riuniscono ogni maggio-giugno a Bonn: lì si confrontano per elaborare l’agenda da discutere alla Conferenza delle Parti – che si tiene a fine anno. Si riparte dallo sperone a cui la corda della COP precedente si era aggrappata; e si ragiona su quanto in alto può essere gettata. Il calcolo non può essere approssimativo: il rischio è mancare l’appiglio per troppe pretese, o per troppe esitazioni. L’agenda deve atterrare alla COP con ampi margini di successo: riflette la fattibilità dei progressi da implementare; ma calibra anche l’atmosfera politica intorno alle questioni climatiche ed energetiche. I Corpi sussidiari a Bonn rielaborano un lavoro che in realtà dura tutto l’anno, traducendo intenzioni espresse nei più importanti eventi diplomatici; dal G20 al G7, dai bilaterali alle Conferenze regionali: ogni occasione ormai è buona per confrontarsi sui Cambiamenti Climatici. Questo avviene fra Capi di Stato e ministri; ma anche fra i gruppi di lavoro delle varie delegazioni, che organizzano workshop per assimilare gli strumenti tecnici da inserire alla COP.
La stessa agenda non è una scatola chiusa: ma un campo aperto su cui le delegazioni si scontrano per due settimane; un terreno suddiviso per aree tematiche: ad esempio finanza, trasporti, adattamento, transizione; a loro volta suddivise in gruppi e sottogruppi, ognuno con una sala negoziale dove partecipano i tecnici di tutte le delegazioni. Ogni sala negoziale è supervisionata da due facilitatori, che portano avanti i lavori formali; che però sfociano per prassi al confronto informale, dove si stabiliscono alleanze o spaccature a livello politico. Il lavoro di ogni singolo gruppo va però chiuso con un testo formale, approvato da tutti riga per riga; pronto per la rifinitura in sessione plenaria.
La formula della COP, un pachiderma da 40.000 invitati, si è attirata critiche: avanzerebbe in modo lento su un problema, il Riscaldamento Globale antropico, da affrontare con la massima rapidità. D’altronde la ricerca scientifica sintetizzata dall’IPCC (Pannello Intergovernativo sul Cambiamento Climatico) parla chiaro: l’aumento di temperatura globale arreca già danni incalcolabili, destinati solo a peggiorare. Perché allora non si decide semplicemente un bando mondiale sul motore a scoppio, ad esempio? Perché quella mossa, spiega Vitullo, sarebbe un’ingerenza nell’economia dei singoli Paesi; e non c’è nessun modo di implementarla. Tuttavia, con la formula della COP, alcuni Paesi mettono nero su bianco, negli NDC, che il motore a scoppio verrà soppiantato, in un futuro vicino o lontano.
La COP è l’esempio spettacolare di cosa si può ottenere con il multilateralismo: se è vero che Stati Uniti, Cina, Unione Europea, Russia, sono i pesi massimi della Conferenza, il loro voto ha lo stesso peso rispetto alle isolette-Stato in mezzo all’oceano. Le esigenze di un produttore di petrolio come l’Arabia Saudita, che sul carbon-fossile proietta la propria prosperità, devono bilanciarsi con quelle di Tuvalu, che a causa delle emissioni di CO2, con l’innalzamento degli oceani, sta perdendo la terra che è base della sua stessa esistenza.
Il testo che esce dalla COP viene quindi ratificato dai Governi di Tuvalu e dell’Arabia Saudita, dell’Ue e della Russia, della Cina e degli Stati Uniti – di per sé un successo perché in questa sede si superano le più roventi tensioni geopolitiche.
Nel caso di Glasgow, vanno quindi evidenziati i principali risultati di questa difficile mediazione:
- l’attuazione del Paris Rules Book, ovvero far sì che tutti i Paesi stimino e riportino le emissioni di gas serra con tabelle comuni di reporting, al fine di monitorare e contabilizzare le emissioni nei rispettivi NDC; si ottiene così una riduzione di gas climalteranti trasparente e affidabile, e un meccanismo di mercato del carbonio finalmente equo.
- il mantenimento dell’obiettivo del 1,5°C, attraverso un rinnovato e concreto sforzo verso la transizione energetica.
- l’impegno a ridurre drasticamente l’uso del carbone, combustibile altamente climalterante.
Per la prima volta nel testo finale di una COP, appunto, viene nominato un carbon-fossile; così come è una novità la menzione dell’ultimo Rapporto di Valutazione dell’IPCC. A Glasgow c’è stata la presa d’atto formale, da parte di tutti i Paesi del mondo, che la scienza incolpa l’azione umana come causa del Riscaldamento Globale; e che la progressiva eliminazione dei combustibili fossili è necessaria per la lotta ai Cambiamenti Climatici: la soluzione è conquistare una neutralità carbonica intorno alla metà di questo secolo.
“Se me lo avessero detto prima della Conferenza di Parigi del 2015, spiega Vitullo, avrei faticato a crederci; eppure siamo arrivati fin qui, con la consapevolezza di poter rilanciare nei prossimi anni.”
Risultati però considerati dagli attivisti climatici insufficienti, eco di belle parole; critica riassunta nel “bla-bla-bla” di Greta Thunberg, la ragazza che ha dato vita al Fridays For Future, movimento di sensibilizzazione nella lotta ai Cambiamenti Climatici.
Greta ha il diritto di fare critiche al lavoro negoziale, dice Vitullo; sono coerenti con le sirene d’allarme della scienza, sul ritardo accumulato nel limitare le emissioni: la CO2 già in circolo e quella che verrà, contribuiranno all’effetto serra per secoli. Inoltre va sottolineato che il “movimento Greta”, in questi anni, è stato fondamentale per mantenere vivo l’obiettivo dell’1,5°C, con Trump che si sfilava dall’Accordo di Parigi. Alla Youth For Climate, tenutasi a Milano lo scorso settembre, i giovani hanno consegnato un loro manifesto al Presidente del Consiglio Mario Draghi; e hanno accusato la politica di accontentarsi di piani climatici insostenibili per le generazioni future. Essendo l’Italia co-organizzatrice della COP26, il nostro Presidente del Consiglio ha così sollecitato tutti i Paesi ad innalzare l’asticella dei Contributi Determinati subito dopo Glasgow.
Una promessa ottenuta da Paesi come l’India, dove parte della popolazione non ha elettricità, e per cucinare e scaldarsi utilizza il carbone. O Stati che sottoscrivono impegni che arrecheranno disoccupazione e impoverimento dei cittadini, senza adeguati piani di diversificazione economica. Uno degli item di Glasgow si occupava proprio dell’impatto che l’azione climatica avrà nei Paesi esportatori di combustibili fossili. Target rivisti da Paesi dove si producono enormi quantità di CO2, avendo l’Occidente delocalizzato la manifattura a basso costo; ad esempio il sud-est asiatico. La Cina emette gas climalteranti più di ogni altro Paese; ma da lì arrivano la maggior parte dei prodotti acquistati a buon mercato anche da noi.
Proprio la Cina è stata molto collaborativa, aderendo a punti che fino a pochi anni fa rifiutava categoricamente: come l’adozione di tabelle comuni per il reporting delle emissioni, e meccanismi di trasparenza e controllo. Pechino del resto ha superato il suo ostacolo più ostico, quello mentale: il senso di ingiustizia nel dover limitare le emissioni di gas serra al pari di Nazioni che sono grandi emettitori da oltre un secolo. Da qualche anno però ha compreso che la transizione energetica è fondamentale per la stabilità e la prosperità del Paese, in un mondo che altrimenti sarebbe piagato dagli impatti più devastanti del Cambiamento Climatico.
Un obiettivo da realizzare indipendentemente dalle posizioni ambigue degli Stati Uniti: un Paese che si alterna tra la leadership delle Amministrazioni democratiche, e il boicottaggio dei repubblicani, arrivando al negazionismo climatico di Trump. E il ruolo degli Usa in questa sfida è determinante: l’Accordo di Parigi arrivò con la regia di John Kerry, all’epoca Segretario di Stato; a Glasgow Kerry era presente in qualità di inviato speciale Usa sul clima: grazie alla sua attività diplomatica, si sono appianate posizioni distanti.
Se si considera tutto questo, spiega la ricercatrice dell’ISPRA, si comprende che alla COP26 si sono segnati molti successi. Eppure sono fioccate analisi pessimistiche; alcune, frutto di una corrispondenza superficiale dell’evento; altre, invece, derivate da una conoscenza approfondita delle tematiche.
Vitullo stessa, su Climalteranti – sito di riferimento sui Cambiamenti Climatici – ha evidenziato le criticità del Glasgow Climate Pact: ad esempio le difficoltà sulla finanza climatica, in particolare i fondi da 100 miliardi di dollari all’anno da destinare ai più vulnerabili. Il Loss & Damage, cioè le perdite e i danni provocati dal Riscaldamento Globale, è un tema serio in varie regioni del mondo; colpiti da fenomeni climatici sempre più intensi e frequenti, e minacciati dall’innalzamento delle acque, alcuni Paesi necessitano di risorse al di fuori della loro portata.
Quello che non è stato realizzato oggi, verrà concesso domani: l’implementazione del totale dei fondi per il Loss & Damage è prevista nei prossimi anni. Purtroppo si potrà fare poco, nel breve e medio periodo, per arrestare gli impatti nei Paesi più afflitti: il lamento delle isole del Pacifico, sulla lentezza dell’azione climatica, non può restare inascoltato.
E’ per questo, sostiene Vitullo, in linea con le parole del Presidente Draghi, che andranno mobilitati nuovi meccanismi finanziari per sostenere un cambio paradigmatico globale che durerà decenni, e che coinvolge tutta la popolazione della Terra. Se oggi sembra un obiettivo lontano, è altrettanto vero che non manca la volontà per raggiungerlo, e non solo:
“Se la strada è questa, sono ragionevolmente fiduciosa che si possa realizzare una transizione attraverso le rinnovabili: i progressi tecnologici indicano che è possibile; fermo restando che un enorme contributo può arrivare dal risparmio energetico e dall’efficientamento, e da una rivoluzione nei trasporti.”
La via per il futuro, insomma, è stata aperta; il passaggio per la vetta, la decarbonizzazione, per quanto difficoltoso, è tracciato; si incontreranno nuovi ostacoli e imprevisti: ma ci siamo dotati degli attrezzi giusti per affrontare la scalata. Quella corda tesa uscita dalla COP26, al momento, è il modo migliore per andare sempre più su; per arrampicarsi laddove fino a pochi anni fa tremolava un’allucinazione, mentre oggi si intravede un mondo possibile.
di Cristiano Arienti
In copertina: un’immagine dalla COP26
Fonti e link utili
Federico Brocchieri: i negoziati sul Clima – Storia, dinamiche e futuro degli accordi sul cambiamento climatico
Glasgow Climated Pact – con annotazioni