Da Grimké a Gorman: tradurre poesia nell’era della politica delle identità
Lasciare la mia biblioteca personale per un paio d’anni in cantina, pur dentro agli scatoloni di un improvviso trasloco, era stata una pessima idea: l’umidità aveva insidiato i libri di una vita, e l’odore d’aria stagna aveva impregnato romanzi e poemi che da secoli respirano nella coscienza dell’umanità. Nell’operazione di recupero, per lo meno, mi sono fatto perdonare dai libri che sono dentro di me, che in qualche modo sono me; squadernandoli e disponendoli in piedi, come sentinelle di storie e sapere: gli ho somministrato luce del sole in abbondanza e aria corrente, in ambienti profumati da candele alla vaniglia; e nei casi più impegnativi, il soffio caldo di un phon, pagina dopo pagina, per asciugare via i rimasugli di oblio. Quest’ultimo metodo si è reso necessario anche per le antologie di letteratura americana della Norton, due volumi da 3000 pagine di carta sottile come la velina; all’epoca dell’università equivalsero a sei mesi di studio folle per l’esame biennalizzato di Letteratura degli Stati Uniti: dal memoriale dell’avventuriero John Smith e i suoi contatti con i nativi americani, fino ai saggi di Ralph Waldo Emerson sull’illuminazione in mezzo alla natura di un continente sconfinato; dai romanzi di Herman Melville, allegorie dell’identità del nuovo cittadino americano, alle analisi sociologiche dell’afroamericano W.E.B Du Bois, che denunciava il sabotaggio dell’integrazione dei cittadini neri da parte delle istituzioni dominate dai bianchi; dalle opere teatrali di Eugene O’Neill e i drammi esistenziali della borghesia Usa, fino ai poemi psichedelici di Allen Ginsberg e la nascita della contro-cultura degli anni ’60.
Sfogliare le pagine della Norton è stato anche un modo per soffermarmi su passi rilevanti di opere che tanto ho amato, e rileggere versi meravigliosi: il phon restava sospeso sopra il libro, e le dita scorrevano su parole che, a distanza di vent’anni, riuscivano ancora a ispirarmi, stupirmi, emozionarmi. Ed è stato così per una poesia che non ricordavo di aver letto – la biografia dell’autrice era intonsa: è una lirica tanto appassionata da rinfocolare all’istante momenti d’amore che segnano la carne, lo spirito, la memoria. Il titolo è tutto un programma:
A Mona Lisa [A Mona Lisa]
1
So che mi piacerebbe strisciare
Attraverso i lunghi fili d’erba marroni
Che sono le tue ciglia;
So che mi piacerebbe stare sospesa
Proprio sulla sponda
Degli stagni a foglia di castagno
Che sono i tuoi occhi in ombra.
So che mi piacerebbe fendere
Silenziosamente
Le loro luccicanti acque,
Le loro piatte acque,
So che mi piacerebbe affondare giù
E giù
E giù…
E nella profondità affogare.
2
Sarei qualcosa di più di un gorgogliare di bolle?
O un’onda concentrica che s’allarga sempre più
Arrestandosi alla riva?
Sarebbero le mia ossa bianche
Le sole ossa bianche
A remare avanti e indietro, avanti e indietro
Nelle loro profondità?
1927
L’autrice di questi versi d’amore è la poetessa afro-americana Angelina Weld Grimké.
Vita e opere di Angelina Weld Grimké
Quei versi, le loro potenti immagini, li sentivo dentro come uno scirocco; mentre con il phon asciugavo centinaia e centinaia di pagine più avanti, sono dovuto tornare alla poesia; e solo dopo una concentrata rilettura ad alta voce, ho veramente realizzato che A Mona Lisa, espressione di un desiderio vorace, era stata scritta da una donna per una donna. Posato definitivamente il phon, mi sono così letto la biografia: Angelina Weld Grimké, nata nel 1880 a Boston, era figlia di Archibald Grimké, diplomatico di origine afro-americana, e di Sarah Stanley, bianca, figlia di una ricchissima famiglia del Massachusetts. Ad appena due anni dal matrimonio, Sarah abbandonò il marito Archibald e Angelina per tornare dai genitori: forse la donna non sopportò la pressione per un matrimonio misto; non ancora accettato nemmeno in un Nord che aveva appena combattuto con il Sud una guerra civile per la liberazione degli schiavi.
D’altronde il nonno paterno di Angelina, Henry Grimké, apparteneva a una famiglia di proprietari terrieri della Carolina del Sud, possidente di moltissimi schiavi afro-americani; di una di loro, rimasto vedovo, se ne innamorò: l’analfabeta Nancy Weston entrò in casa Grimké, e diede a Henry tre figli; i quali vennero riconosciuti come legittimi, ma dichiarati liberi dal padre solo in punto di morte. Una disposizione mai attesa da Montague Grimké, figlio avuto durante il matrimonio; il quale considerava i fratellastri di origine afro-americana come schiavi personali; al punto che Archibald fuggì di casa quando uno dei suoi fratelli venne venduto. Uscì dalla clandestinità solo nel 1865, alla fine della Guerra Civile: si trasferì al nord insieme ai due fratelli, grazie a una borsa di studio destinata a studenti promettenti.
A Philadelphia Archibald incontrò due zie – sorellastre di Henry Grimké, che in precedenza avevano abbandonato la Carolina del Sud, disgustate dalla società schiavista; Angelina Grimké Weld (Archibald chiamò la figlia Angelina in suo onore) e Sarah M. Grimké furono fra le più vocali abolizioniste d’America: viaggiarono instancabilmente in tutto il nord per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla disumana condizione degli afro-americani al sud. Le due zie riconobbero Archibald e i suoi fratelli come famiglia, e ne finanziarono gli studi a Princeton e Harvard; ecco spiegata la brillante carriera di Archibald Grimké, che dal 1894 al 1898 fu Console Usa nella Repubblica Dominicana, salvo poi dedicarsi anima e corpo ai diritti dei neri d’America: sia sul piano culturale e intellettuale, fondando quotidiani e scrivendo saggi, sia a livello politico, partecipando alle Convention dei Repubblicani, e diventando vice-presidente della NAACP, l’Associazione Nazionale per l’Avanzamento delle Persone di Colore, fondata proprio da W.E.B. Du Bois.
Fra tutti questi impegni, Archibald ebbe anche il tempo, da genitore single, di crescere Angelina, iscrivendola nelle migliori scuole di Boston e Washington D.C.; un’educazione garantita anche da un importante contributo dello zio Theodore Weld, marito della zia Angelina, forse il più famoso abolizionista del XIX secolo.
Un rapporto, quello fra padre e figlia, messo però a dura prova dall’omosessualità di Angelina, la quale manifestò la propria natura in età adolescenziale: all’amata Mary, compagna di scuola, si promise sposa a soli 16 anni. Ecco che quando leggo le poesie della Grimké, non posso fare a meno di ammirarle, personalizzandomele, per la loro passione; ma al tempo stesso devo rispettarne la complessità: raccontano l’interiorità di una afro-americana lesbica a cavallo tra l’800 e il ‘900, in una società razzista e ancora chiusa ai diritti degli omosessuali.
In un clima di spregio gratuito verso le persone dalla pelle scura, e per le lesbiche, la Grimké ne esalta il colore e la sensualità, in un moto d’orgoglio non politico ma estetico, e per questo ancora più puro e genuino; come nella seguente poesia, apparentemente semplice, ma in realtà dirompente per i nuovi canoni di bellezza:
Ad Aprile [April – nel mondo anglofono è anche un nome proprio di donna]
Scrollate le vostre gaie teste,
I busti di fanciulla marrone;
scrollate le vostre adorabili gaie teste;
Scrollate i vostri vellutati riccioli ramati
Sciolti sui visi marroni;
Allungate i vostri snelli corpi marroni;
Allungate le dita dei piedi sottili e marroni.
Chi sa meglio di noi,
con scuri, scuri corpi,
cosa significa
Quando viene l’Aprile ridente e stillante
Una volta ancora
Per i nostri cuori?
1991
L’erotismo che trasuda dai versi della Grimké non può lasciare indifferenti: l’amore, esperienza carnale e insieme spirituale, è raffigurato come una sorgente naturale di felicità, da vivere in pienezza:
Dita di erba
Toccatemi, toccatemi;
Piccole fresche dita d’erba.
Elusive, delicate dita d’erba.
Col vostro timido pettinio,
Toccate il mio viso –
Le nude mie braccia –
Le mie cosce –
I miei piedi.
Nulla che sia tenero c’è?
Non avete da temere da me.
Presto sarò troppo distante da voi,
Perché mi sfioriate, perfino,
Con i vostri piccoli e lievi pollici dei piedi.
1927
Tuttavia l’amore omosessuale, nel gioco della seduzione, può anche riservare cocenti delusioni. Ecco in un’altra poesia la tensione sentimentale verso una donna, vissuta quasi come una trappola, e l’impatto di una realtà dolorosa, in cui è difficile distinguere tra amicizia profonda e la scintilla della passione tra due amanti; o forse la constatazione che per alcune è troppo arduo riconoscerla, la propria omosessualità latente, nell’istante in cui affiora.
El Beso [“Il bacio” in spagnolo]
Crepuscolo – e tu
Calma – le stelle;
Tranello nel brillio dei tuoi denti;
Provocatoria la tua risata,
L’oscurità dei tuoi capelli;
La tua lusinga, l’occhio e il labbro;
Il desiderio, il desiderio,
Languore, resa;
La tua bocca
E pazzia, pazzia,
Tremante, strozzata, fiammante,
Lo spazio di un sospiro;
Poi gli occhi riaperti – il ricordo,
Dolore, rimpianto – il tuo singhiozzare;
E ancora, calma – le stelle,
Crepuscolo – e tu.
1927
Ancora adolescente, ad Angelina arrivò dal padre un ultimatum: che scegliesse tra l’affetto paterno, e implicitamente la solidità di una esistenza borghese, e l’amore per Mary, e le conseguenze di vivere pubblicamente la propria omosessualità. La giovane rinunciò così alla compagna di scuola; e non sono note relazioni con altre donne: è certo però che la Grimké non si sposò mai, né ebbe fidanzate ufficiali. Il sogno di una storia d’amore spezzato sembra averla tormentata per molto tempo, irrorato nei versi di un’altra struggente poesia:
Gli Occhi del mio Rimpianto
Sempre al crepuscolo, la stessa illacrimata esperienza,
Lo stesso strascicarsi su per lo straconsumato sentiero
Verso la stessa straconsumata pietra;
Lo stesso rossore o colore d’oro del sole che scivola via,
Le stesse tinte – rosa, zafferano, violetto, lavanda, grigio,
S’incontrano, si mescolano, si mischiano in miraggio;
Davanti a me lo stesso cedro blu e nero che frastagliante si erge fino a un punto;
Sopra di esso, lo stesso lento spalpebrarsi di due stelle gemelle,
Due occhi senza fondo, brucianti l’anima,
Che guardano, guardano – che guardano me;
Gli stessi due occhi che mi trascinano fuori, di tramonto in tramonto contro la mia volontà;
Gli stessi due occhi che mi tengono seduta fino a notte fonda, sulle ginocchia il mento,
Mi tengono lì solitaria, rigida, senza lacrime, tramortita e immiserita,
Gli occhi del mio rimpianto.
1927
La scelta di non avere relazioni alla luce del sole, e nemmeno un matrimonio di comodo, non fu dettata solo dalla decisione di mantenere i rapporti col padre, che accudì amorevolmente negli anni della vecchiaia: all’origine, c’era anche il proposito di dedicarsi all’insegnamento, alla poesia e alla scrittura; un obiettivo di vita preciso, abbracciato poco più che ventenne. Di conseguenza, Angelina Grimké non ebbe figli; una scelta, però, che potrebbe avere radici intrecciate con quelle socio-politiche dell’epoca: cioè alla condizione degli afro-americani, cittadini di seconda e terza classe.
Con parenti stretti riconosciuti come fari nella lotta per i diritti delle persone di colore, si può pensare che alla Grimké venne infuso l’attivismo politico; in realtà fu la sua esperienza da studentessa prima, e di insegnante poi, ad aprirle gli occhi sul razzismo strutturale della società statunitense, anche in quel Nord-Est che aveva liberato i neri dalla schiavitù. Una libertà sulla carta, visto che già pochi decenni dopo la fine della Guerra Civile, gli Stati del sud organizzarono un sistema di segregazione razziale difeso con intimidazioni, incendi e linciaggi: crimini efferati su una comunità abbandonata dalle istituzioni. Alle persone di colore nel nord, era risparmiato questo stato di terrore; tuttavia solo una minoranza di afro-americani riusciva ad elevarsi da uno stadio di sub-proletariato; pur frequentando le scuole fino alle superiori, gli era impedito quasi automaticamente di intraprendere occupazioni tipiche della classe media a contatto con i bianchi: dall’artigianato all’educazione al commercio; per non parlare di posizioni come medici, ingegneri, avvocati: l’accesso alle università più importanti, poi, era un traguardo per poche persone dalla pelle scura.
La stessa Grimké, al prestigioso college di Wellesley, probabilmente era fra le poche giovani di colore, se non l’unica. E da insegnante di inglese, trovò posto in scuole rinomate, ma riservate solo ai neri; in un sistema educativo libero sulla carta, ma di fatto segregato. A cavallo tra l’800 e il ‘900, frequentare scuole primarie miste, nella stragrande maggioranza dei casi, poteva essere umiliante per i bambini di colore: additati dai compagni, sbeffeggiati dagli insegnati, accompagnati verso l’isolamento e l’auto-esclusione dai dirigenti. In un clima di odio dove nigger – negro, era l’insulto corrente nei rapporti inter-razziali: usato per marcare un sentimento di superiorità dei bianchi nei confronti della minoranza afro-americana.
Temi trattati in Rachel, piéce teatrale scritta dalla Grimké nel 1916, e andata in scena qualche anno dopo a New York; un’opera che contribuì ad alimentare la Harlem Reinassence, ovvero il movimento culturale che fiorì negli anni ’20; e che promosse intellettuali e artisti afro-americani: nella saggistica, nel giornalismo, nella poesia, si rivendicava una nerezza di cui si poteva andare fieri.
Nel caso di Rachel, però, si è di fronte a una drammatica denuncia contro la società americana; è il racconto di una tragedia intergenerazionale che vede come protagonista Rachel, una giovane che vive al nord e che si aspetta grandi soddisfazioni dalla vita. Sogni che cominciano a vacillare quando la madre svela un evento del loro passato, ignorato da Rachel e il fratello perché all’epoca erano troppo piccoli per conservarne i ricordi; la donna proveniva da uno Stato del sud: da cui fuggì la notte stessa in cui dei bianchi sfondarono la porta di casa, prelevarono il marito e il figlio quindicenne – il padre e il fratello maggiore di Rachel – e li impiccarono a un albero. La storia di quel linciaggio non impedisce a Rachel, in un primo momento, di continuare a inseguire i suoi sogni: di diventare insegnante, e di mettere su famiglia con il suo spasimante John; tuttavia si sedimenta in modo inarrestabile nell’anima. Si spezza ogni incanto, e Rachel apre gli occhi di fronte alle ingiustizie che fingeva di non vedere. Come l’esclusione di John da lavori adatti alla sua scolarizzazione; che poi sarà il destino suo e del fratello. Il colpo di grazia è la scoperta che il bambino a cui faceva da madrina subisce angherie nella scuola mista perfino dalle insegnanti: viene addirittura inseguito dai compagni, chiamato nigger e preso a sassate. Fino a quel momento Rachel aveva resistito, sebbene per strada, o a teatro, “le si facesse notare il colore della pelle” – subiva, cioè, più o meno velati episodi di razzismo; ma davanti ai visi sconvolti o anestetizzati dei bimbi neri oggetto di crudeli soprusi, la ragazza prende una drastica risoluzione: si rifiuta di procreare in una società dove suo figlio crescerebbe coltivando ambizioni, per poi dover accettare i lavori più umili non per demerito, ma perché considerato di razza inferiore; in un Paese che negli Stati del sud non ferma la giustizia sommaria e il linciaggio come metodi di mantenimento del segregazionismo.
Sui linciaggi, ecco una delle poesie di impegno civile più forti scritte dalla Grimké:
Alberi [Trees]
Dio li ha creati davvero belli, gli alberi:
Parlò, e di tronco nodoso o liscio come velluto
Loro crebbero; maestosamente piegati o molto miti;
Dal fusto enorme o esili; composti e ricchi di inni,
E lui ebbe grande gioia in ognuno di essi.
E a loro, suadenti e piccole lingue per parlare
Di lui a noi, Lui diede, per cui loro tentano,
giorno dopo giorno, in ginocchio di metterci.
Eppure qui fra i malinconici fruscii delle foglie
Un orrido qualche cosa di nero colorato oscilla e oscilla,
Conobbe la risata e nelle piccole cose la gioia,
Finché l’odio dell’uomo tutto terminò. – E così l’uomo vacilla,
E Iddio, quanto lento, quanto è lento Lui a vacillare –
Non fu Cristo stesso inchiodato a un albero?
1991
La disperazione è viscerale anche per un’altra verità: a infliggere questa oppressione, condita dalle peggiori torture, è una società che si definisce cristiana; anche in Rachel i personaggi indagano le misteriose vie del Signore, che riserva ai neri quel destino di ingiustizia e dolore.
La fede cristiana fu un fortissimo appiglio della comunità afro-americana per non cedere all’impulso della ribellione violenta o della vendetta. Sentimenti che la Grimké intercettò in una poesia intitolata Tenebris, termine latino traducibile in Con le Tenebre.
Tenebris
C‘è un albero, di giorno,
Che, alla notte,
Ha un’ombra,
Una mano enorme e nera
Con dita lunghe e nere.
Attraversante tutta l’oscurità,
Sulla casa dell’uomo bianco,
Nel lieve vento,
La mano nera tira e tira a sé,
I mattoni.
I mattoni sono color sangue e molto piccoli.
E’ una mano nera,
O è un’ombra?
1927
Rachel di Angelina Weld Grimké è stata una delle prime opera andate in scena a New York a parlare senza filtri della realtà tragica riservata ai cittadini afro-americani; del razzismo al nord, e del segregazionismo al sud; delle atrocità inflitte dai bianchi in un passato che, purtroppo, passato non era, perpetuatosi fino al Civil Rights Act, la Legge sui Diritti Civili del 1964. Un’opera forse troppo in anticipo sui tempi, perché squarciasse il velo autoassolutorio che annebbiava la società americana. Pochi anni dopo la messa in scena di Rachel, il film Via col Vento, che sciacqua via i crimini della società schiavista, avrebbe fatto bottino di Oscar; l’epica dei gentiluomini sconfitti durante la Guerra Civile, e delle forti donne capaci di sopravvivere alla distruzione, sovrasta la storia dei quotidiani crimini su cui si reggeva quel sistema. Ancora oggi – e non a torto da un punto di vista cinematografico – Via col Vento è celebrato come uno dei più grandi capolavori di sempre; solo recentemente, però, si è deciso di accompagnarlo da un’introduzione che spieghi i lati oscuri di quell’epopea. E solo di recente Rachel è stato ripreso come un classico della letteratura americana anche al di fuori dei circoli accademici.
I motivi esposti in Rachel dalla Grimké, di rinunciare alla maternità, per non procreare “patetici bimbi di colore, specialmente al sud, ma anche nel liberale nord“, possono apparire iperbolici; in realtà verranno ripresi mezzo secolo dopo in Beloved – Amatissima, il romanzo che è valso il Premio Nobel per la Letteratura all’americana Toni Morrison: la protagonista arriverà a sopprimere la vita di una figlia piuttosto che riconsegnarla nelle mani dell’uomo bianco che ne reclama la proprietà; e il fantasma della piccola aleggerà per sempre nella vita di quella comunità, tormentando le coscienze.
Se a livello tematico è possibile tratteggiare un paragone fra Angelina Weld Grimké e Toni Morrison, in realtà le due sono molto diverse tra loro: la seconda è stata una prolifica autrice di romanzi, racconti e saggi, lungo una cinquantennale carriera; la Grimké ha fatto della poesia la sua principale forma di espressione, ma solo alcune liriche furono pubblicate fra le riviste della Harlem Reinassence. Oltre a Rachel, scrisse un’altra opera teatrale, ma non andò in scena; e nelle sue opere inedite si contano anche dei racconti, che però non vennero mai pubblicati. La carriera artistica della Grimké, in effetti, non durò molto; anche perché alla fine degli anni ’20 del secolo scorso, mentre si dedicava alle cure del padre malato, cominciò a calare nell’ombra: non inviò più lavori alle riviste, né propose altri scritti agli editori. Angelina Weld Grimké trascorse le successive tre decadi al di fuori del panorama culturale, lasciando ai posteri un’esigua produzione letteraria.
La poetessa afro-americana morì 78enne nel 1958.
Grimké, Gorman, e la traduzione nell’era della politica delle identità
Il nome di Angelina Weld Grimké è stato scomodato di recente per esaltare un nuovo astro nascente della poesia: la 22enne afro-americana Amanda Gorman, divenuta famosa dopo aver recitato un suo poema durante l’inaugurazione del neo-Presidente Usa Joe Biden.
The Hill We Climb – La Collina che Scaliamo – è un titolo che si rifà alla Città sulla Collina, sermone evangelico riadattato nel XVII secolo dall’inglese John Winthrop prima della partenza di una nave di coloni diretta a Boston: “le nuove comunità dovranno essere un modello di carità cristiana – proclamava il “primo” Governatore del Massachusetts – che tutto il mondo prenderà da esempio”.
Con quel sermone di Winthrop, di fatto, nasce l’eccezionalismo americano, sviluppatosi negli ultimi tre secoli: l’idea che il popolo Usa, per gli scopi prefissati di costruire davvero una comunità di libertà e giustizia fra pari, sia il migliore fra tutti; un’utopia portata avanti attraverso il genocidio dei nativi americani.
Con il titolo The Hill We Climb, la Gorman riprende anche il Discorso della Cima della Montagna di Martin Luther King, pronunciato il giorno prima del suo assassinio, il 4 aprile 1968: con la voce tremante e lo sguardo rassegnato – perché ormai King era un braccato – il leader dei diritti civili predica di essere già stato sulla Cima della Montagna, e da lì Dio gli ha mostrato la Terra Promessa; cioè un domani dove gli Stati Uniti saranno davvero un luogo dove vivere in armonia, pure per gli afro-americani.
Nel poema, Gorman riconosce sia l’eccezzionalismo di Winthrop, sia la scalata da fare, indicata da King, per raggiungere una pace sociale; e soprattutto per riconciliarsi con un passato eccezionalmente doloroso per una minoranza di cittadini americani.
“Perché essere americani è molto più che un orgoglio che ereditiamo / E’ il passato in cui ci addentriamo / E come lo ripariamo.”
E’ su questo doppio binario che per Gorman è possibile intravedere la strada verso quel futuro di libertà e giustizia, in una cornice di piena democrazia, a cui i primi coloni aspiravano:
“Noi non marceremo all’indietro verso ciò che fu / Ma ci muoveremo verso quello che dovrà essere. / Un Paese che è ammaccato ma intero / benevolente ma coraggioso / Fiero e libero.”
Il futuro è incoraggiante, ma un po’ enigmatico; se “la città sulla collina” è, in The Hill We Climb, una vaga libertà da preservare nell’unità, è il presente, con il suo percorso duro ma luminoso sul pendio della collina, a contare davvero: perché già adesso una “giovane magrolina discendente da schiavi e figlia di una madre single può aspirare a diventare Presidentessa, salvo poi finire a recitare poesie per un Presidente vero“.
Tanika Baptiste, regista di una recente rappresentazione teatrale di Rachel, ha definito Amanda Gorman “una voce splendente, ricca di speranza, vitale e di grande ispirazione: l’Angelina Weld Grimké della nostra generazione.”
Ed è davanti ai nostri occhi il ponte ideale fra la protagonista di Rachel, una giovane che rinuncia perfino ai naturali sogni di autorealizzazione, e l’autrice di The Hill We Climb, in cui è la stessa poetessa a vivere senza limiti le proprie ambizioni. A un secolo esatto dalla prima rappresentazione di Rachel, la Gorman recita i versi celebrativi in onore di un Paese che opprimeva i suoi bambini di colore; ma che oggi, ai nuovi bambini di colore, presenta Kamala Harris, Vice-Presidente di origine afro-americana.
E’ la Gorman stessa, più che la sua opera, a rappresentare quel messaggio vitale e di speranza; è la parabola dell’autrice da ammirare, già iconica nel suo cappotto giallo, con la banda per i capelli rossa e un sorriso ammaliante; più di quanto lo sia il suo poema, concepito – onestamente – come letteratura di regime.
In questo senso, non sorprendono le polemiche sorte intorno alle traduzioni editoriali di The Hill We Climb. In Olanda la giovane poetessa queer Marieke Lucas Rijneveld è stata costretta a fare un passo indietro, perché la sua bianchezza stonava con il messaggio del poema: la rivendicazione del doloroso percorso degli afro-americani; ma soprattutto, macchiava la testimonianza di nerezza dell’autrice. Qualcuno ad Amsterdam si è chiesto: in una società ancora alle prese con il razzismo, inclusa la difficoltà per i non-bianchi di farsi strada in campo editoriale, non si riesce a trovare una valida traduttrice di colore? Il caso è deflagrato dall’Olanda in tutto l’Occidente: con i diritti delle persone afro-discendenti ancora fragili, perché deve essere un bianco, o una bianca, a veicolare, anche solo in traduzione, il loro messaggio di speranza?
Un ragionamento che ha portato al rifiuto di una prima traduzione in catalano di The Hill We Climb: il profilo di Victor Obiols, uomo bianco e maturo, è lontanissimo da quello della Gorman; non conta nulla la sua esperienza come traduttore di Shakespeare. Ed è stato addirittura deprecato per una battuta, a commento della bocciatura: “Mi dovrò pitturare la faccia di bitume per poter tradurre”. Non solo ha perso il lavoro, ma si è pure beccato del razzista.
La vicenda ha alzato molteplici domande sul lavoro di traduttore oggi; e se i traduttori debbano rispondere a criteri identitari, e non solo squisitamente letterari, nell’affrontare testi che trattano determinati temi di impegno civile; magari di autori riconoscibili per un’identità specifica: sul piano etnico, politico, sociale, religioso e di genere. Si sono sprecate analisi sulla questione, ognuna delle quali offre riflessioni interessanti: sul valore della traduzione come ponte fra culture lontane; sul progresso socio-economico per battere davvero il razzismo; sull’ovvietà che una comune sensibilità, più che identità, fra autore/autrice e traduttore/traduttrice faciliti la comprensione del vissuto di un’opera, e di conseguenza migliori la recezione del messaggio da parte dei lettori; e poi ancora: sul fatto che il marketing editoriale abbia delle logiche al di là del valore letterario in sé; sulla convinzione che se per battere il razzismo serva escludere una traduttrice, allora ben venga; una esclusione che poi, però, un domani potrebbe diventare essa stessa una forma di pregiudizio inaccettabile.
Sul piano personale, la vicenda mi ha fatto ragionare sulla mia ammirazione per Angelina Weld Grimké: sono davvero in grado di capire le sue poesie? Lei donna, omosessuale, di pelle marrone in una società razzista e omofoba; io uomo, eterosessuale, bianco in una società che sta faticosamente riconoscendo i danni del suprematismo e della discriminazione per l’orientamento sessuale. Mi sono chiesto: avrei diritto, sul piano ideale, a tradurre le sue poesie e pubblicarle sul blog?
La disumanità del razzismo, l’umanità delle poesie di Angelina Weld Grimké
Se è vero che gli occhi sono il riflesso dell’anima, allora la mia anima è marrone, visto che ho gli occhi castani; è il marrone che per prima cosa vedo quando mi specchio, e non il bianco della mia pelle; a cui in fondo non ho mai fatto caso, e nessuno me lo ha mai fatto sentire addosso, se non durante il soggiorno di volontariato a Lubumbashi, nella Repubblica Democratica del Congo. Il pigmento delle iridi potrebbe essere una delle caratteristiche che ho in comune con Angelina Weld Grimké, insieme all’amore per la letteratura, l’insegnamento e la scrittura; e al fatto che nemmeno io mi sia mai sposato. Tuttavia, il colore della sua pelle, pone fra di noi una distanza incolmabile: il mio bianco non ha mai rappresentato un condizionamento nella mia quotidianità; il suo marrone, in ogni momento, costituiva una barriera all’autorealizzazione perfino nelle progressiste Boston e Washington.
Il razzismo è esistito in forma feroce anche dopo la morte della Grimké, nel 1958, e non solo negli Stati Uniti; l’attitudine suprematista dei bianchi, spesso perfino di coloro che non si riconoscono come dei razzisti, non si è mai del tutto spenta nella società occidentale. Oggi le carte costituzionali delle democrazie più avanzate parlano di una uguaglianza dei cittadini di ogni etnia, religione e razza – per quanto “razza” sia un termine negativo e obsoleto; ma quelle carte, fondamentali a livello giuridico, non bastano se a livello culturale la diversità della pelle suggerisce una scala di valori per cui il nero e il marrone vengono guardati dall’alto verso il basso. Il colore della pelle costituisce, nel sub-conscio, un muro visivo che divide e sollecita pregiudizio; e questo può essere vero in un verso ma anche nell’altro, come aveva spiegato nel marzo 2008 Barack Obama, nel suo discorso A More Perfect Union: “Nella comunità afro-americana c’è una rabbia verso i bianchi, spesso mai espressa in pubblico, che diventa contro-producente; perché svia da un pieno percorso di autorealizzazione.”
Pochi mesi dopo Obama fu eletto, con il voto determinante della maggioranza dei bianchi, come primo Presidente nero degli Stati Uniti; tuttavia le condizioni per gli afro-americani negli Usa non sono migliorate con lui alla Casa Bianca: o almeno come i neri speravano. Tanto è vero che Black Lives Matter (BLM) – le vite dei neri contano, il movimento di denuncia per le discriminazioni e le violenze della polizia contro gli afro-americani, è nato durante il suo mandato; con accanto un Segretario alla Giustizia, Eric Holder, di origine afro-americana. A sette anni dallo scoppio di BLM, e dopo una Presidenza divisiva come quella di Donald Trump, la rabbia della comunità afro-americana è deflagrata; e investe qualsiasi aspetto della realtà, vista con la lente dell’identità “razziale”.
Le proteste degli ultimi anni sono un formale atto d’accusa contro il privilegio dei bianchi: partendo dalla possibilità di alzarsi alla mattina, specchiarsi, ed essere consapevoli del colore delle proprie iridi prima che del colore della propria pelle. Un permanente indice puntato contro i bianchi, come se ognuno di loro si dovesse personalmente vergognare del passato per “riparare il futuro”; indipendentemente dalla loro volontà, nel presente, di vivere in armonia con tutti gli altri cittadini, al di là delle loro origini etniche.
Tuttavia, se gli afro-discendenti, e le persone di colore in generale, sottolineano continuamente questo concetto – del privilegio dei bianchi – significa che il razzismo è ancora percepito come strutturale; e non solo negli Usa; per estensione, sebbene radicato nel colonialismo e non nello schiavismo domestico, le persone di colore lo sentono anche in Europa. Se i bianchi non possono cancellare il colore della propria pelle, per lo meno dovrebbero cancellare la paura del razzismo – il loro razzismo inconscio, qualcuno direbbe.
Sul far del giorno usciamo dalla tenebra, recita Gorman, lucenti e senza timore, la nuova alba sboccia se la liberiamo.
Il primo passo per scacciare la tenebra del razzismo è riconoscerla: solo così possiamo far sbocciare un nuovo giorno di vere libertà e pari opportunità per tutti.
Nel nostro passato recente, in Italia, non abbiamo una società bianca difesa con l’apartheid e il terrorismo verso una minoranza; ma questo non cambia i termini del dibattito attuale: da bianco non potrò mai comprendere una vita condizionata dal colore della pelle; e l’umiliazione di chi subisce un episodio di discriminazione razzista; o addirittura essere giudicato inferiore, come venne fatto intendere, con giochi di parole vergognosi, alla Ministra italiana Cécile Kyenge, nera originaria della Repubblica Democratica del Congo. Potrò subire – ed ho subito – altri tipi di condizionamenti e discriminazioni: ma non perché sono bianco; e non sarebbe questa la soluzione al problema del razzismo.
Per considerare l’oppressione esercitata da chi, unicamente per un discorso di “razza”, si sentiva superiore in modo innato, non c’è bisogno di riandare nel Massachusetts di inizio ‘900, o nel Sudafrica dell’apartheid: basta voltarsi verso la storia italiana, quando il Governo in carica, nel 1937, vietò per legge di procreare con “le razze inferiori del Corno d’Africa per non contaminare il sangue italico”. L’anno dopo il Governo emanò il Manifesto della Razza, la farneticante superiorità del popolo italiano su base etnica; proprio mentre rinsaldavamo l’alleanza con uno dei regimi più folli e sanguinari della Storia. L’Italia degli anni ’30 non era la Carolina del Sud del XIX secolo, ma abbracciava gli stessi principi che regolavano la società segregazionista statunitense – del resto la violenza del regime fascista si riversò contro il proletariato e gli avversari politici. E l’esercito italiano si macchiò di atti di terrorismo, autentici crimini contro l’umanità, durante la colonizzazione del Corno d’Africa e della Libia; nel più totale spregio di vite considerate inferiori.
Questo è il passato suprematista della mia nazione, del mio popolo, che forse vero passato non sarà mai, finché non vi è piena consapevolezza che il razzismo è anche una piaga nostra, italiana: di bianchi figli, nipoti, e pronipoti di persone che il Governo aveva benedetto come superiori rispetto ad altri unicamente per il colore della pelle – una storia raccontata da Francesca Melandri nel suo imprescindibile Sangue Giusto. Un’attitudine che si perpetua, nonostante la carta costituzionale: attraverso politiche e atteggiamenti discriminatori, e velatamente razzisti, nei confronti di immigrati di colore; e addirittura nei confronti degli “immigrati di seconda generazione”, italiani a tutti gli effetti, al di là della Legge, perché nati in Italia o perché qui hanno affrontato interi percorsi di studi.
Se accostarmi all’opera di Angelina Weld Grimké può essermi servito a qualcosa, questo è l’impegno affinché nessun bambino o adolescente nelle scuole italiane debba sentire il colore della pelle come un ostacolo alle proprie ambizioni; che l’innocenza dei suoi sogni non venga macchiata dal pregiudizio razzista; che goda del privilegio di specchiarsi al mattino e guardare la propria anima, attraverso il colore delle iridi, come il trampolino per la propria autorealizzazione.
Tuttavia il messaggio di Angelina Weld Grimké, per quanto mi riguarda, non si è mai limitato alla questione razziale, e all’ingiustizia sociale. Osare tradurre le poesie di questa autrice afro-americana – non m’importa se ne sia degno – mi ha aperto la via per osservare, attraverso il suo sguardo, la bellezza della sua di anima; un luogo d’arcobaleni, di amore per la natura, e l’umana natura, immortalato dalle sue stesse parole dedicate a un’amica poetessa scomparsa a 26 anni.
A Clarissa Scott Delaney
1
Non si è per sé trovata un duro cuscino
Né un lungo letto duro,
Un gelido cipresso, un pallido salice
Per la sua gaia testa…..
Quelli sono per i morti.
2
Può morire il crepuscolo velato di violetti?
E l’alba pungente
E il nitido mezzogiorno bianco, e il blu del cielo notturno….
Quando se ne sono andati?
3
Muore la brillante nota
Nella timida, timida gola
Del dondolante usignolo?
4
O, non vive del bambino
La risata
Una volta ascoltata?
5
La cara, cara luce sulle care care cose
Negli occhi, sui capelli,
Sulle acque, sulle ali…
Non vive più da nessuna parte?
6
Il sapore del mare, il respiro dei fragili fiori,
Di felce scostata, di trifoglio,
Di prati quando fa scuro, della terra dopo la piovuta
Non perdurano libranti nell’aria?
7
Il berillo nei laghetti, la morbida orchidea nella bruma,
L’odore di primavera fra le cime degli alberi, nel terso orizzonte la giada
Del cielo del nord, tutti gli accesi e i rossicci e i grigi,
Semplicemente sbiadiscono e svaniscono?
8
E tutta l’amorevolezza, la dolcezza e la grazia,
Tutte le gaie domande, tutta la meraviglia e la speranza,
Esse che reggono la bellezza quel velato vaso d’opalescenza,
Sono solo l’anima di una sembianza?
9
O, che lei abbia trovato solo una piccola, sottile porta
E sia passata attraverso richiudendola frapposta?
O, non sono quelli i suoi piedi leggeri su quel chiaro pavimento,
……. Quella sua risata ….. O, non pende lei in avanti
Come noi per ascoltarla? ……. O, questo non significa
Che lei sia solo non vista, invisibile?
1991
Questa poesia mi parla della mia identità umana in modo molto più vero di uno specchio; in modo molto più profondo di quanto io stesso sia in grado di fare: una riflessione che sento come una seconda pelle, quella dell’anima.
“Perché c’è sempre una luce, recita Amanda Gorman, Se solo siamo abbastanza coraggiosi da vederla, Se solo siamo abbastanza forti da esserla“.
Non so quanto forte fosse rimasta Angelina Weld Grimké nelle ultime decadi della sua vita; e se vedesse la luce in un Paese ancora immerso in una notte di segregazione e discriminazione; dove i diritti civili, quando morì, non erano ancora garantiti agli afro-americani o agli omosessuali. La sua essenza di luce, però, si è espansa fino a noi e respira nei suoi versi: e ispira quel coraggio, ma forse è più giusto parlare di amore, di cui abbiamo bisogno per andare avanti; per guardare la bellezza del mondo che ci circonda, persino nei dettagli insignificanti, e che ci fa sentire vitali.
Verdezza [Greenness]
Dimmi, esiste qualcosa di più incantevole,
qualcosa di più appagante
Del verde dei sottili fili d’erba
E del verde delle minuscole foglie?
Non paiono i fili d’erba carezzevoli dita verdi
Che placano il cuore che batte e batte e batte?
Angelina Weld Grimké
Fine
Di Cristiano Arienti
In copertina: una fase del recupero della mia biblioteca personale, al lume di una candela alla vaniglia
Le poesie di Angelina Weld Grimké tradotte nel testo sono state prese da The Norton Anthology of American Literature, volume 2, 4° edizione.
Fonti e Link utili
https://www.southbaymt.com/wp-content/uploads/2021/01/PGM-Rachel20.pdf Presentazione dello spettacolo Rachel, di Angelina Weld Griemké, con la regia di Tanika Baptiste, per la compagnia South Bay Musical Theatre.
Trascrizione del poema The Hill We Climb, di Amanda Gorman
Sangue Giusto, di Francesca Melandri
Rappresentazione teatrale di Rachel
A me fa pensare due cose questo testo così elaborato su omosessuali e colore della pelle.
Una che la poesia è espressione di emozioni intrinseche nell’uomo ( o donna) e nessuno può comprenderne a fondo il significato se non l’autore. Tutta via il potere della poesia non è comprendere alla perfezione il testo ma sentirne le medesime emozioni quando la si legge.
Secondo è che l’America era una nazione di pelle rossa
Sguardo alto
Occhi neri
Pelle rossa
Naso aquilino
Mentre gli afro sono stati condotti come schiavi da fine 700 a metà 900. Quindi la società che vediamo ora è un connubio di numerevoli razze.
Questo mi affascina perché un giorno ( mi auguro)saremo tutti di un solo colore .
Certo molto generalizzato.
Ma sarebbe la vittoria su molti pregiudizi.
Grazie per il commento.
Sono d’accordo, la poesia è un’ispirazione per chi legge, ed è capace di offrire tante emozioni; e secondo me i versi di Agnelina Weld Grimké hanno questo potere.
Sul secondo punto: il pregiudizio purtroppo è difficile da sradicare, ma secondo me è davvero importante andare al di là del colore della pelle e al di là delle etnie, delle religioni e degli orientamenti sessuali e di genere; bisogna cercare sempre di riconoscere la “seconda” pelle che ognuno di noi ha, quella dell’anima: che poi ci affratella nell’amore, nella bontà e nella solidarietà al di là di tutte le differenze.