Elezioni 2020: il gran rifiuto di Trump
“Ci troviamo nella scomoda posizione non solo di tagliare il Presidente degli Stati Uniti, ma anche di correggerlo: non esistono prove che vi siano voti illegali: la vittoria di cui parla Donald Trump non ha fondamento.”
E’ il 6 novembre: così Brian Williams, giornalista della MSNBC, ha motivato l’interruzione della conferenza stampa dalla casa Bianca, nella quale Donald Trump lamentava frodi elettorali a causa del voto per posta; specialmente in Pennsylvania. Stato che il giorno dopo, secondo le proiezioni della CNN, andava assegnata al candidato democratico, spostando in modo definitivo l’esito delle Presidenziali: Joe Biden è dichiarato il nuovo Presidente eletto degli Stati Uniti. Una notizia ripresa in tutto il mondo, e che ha messo in moto, pur senza ufficializzazione, il riconoscimento del vincitore delle elezioni.
Lungo i segnali televisivi, rimbalzati poi su internet e i social media, si è consumata non solo la sconfitta, ma l’oscuramento del magnate che proprio grazie al tubo catodico, nell’arco di tre decenni, è diventato un’icona pop; e capace di sfruttare questa visibilità per conquistare la Casa Bianca.
La corsa alla Presidenza era cominciata con lo slogan “Make America Great Again – Fai Tornare Grande l’America”, una critica alle forze politiche che avevano causato, a dire di Trump, il decadimento degli Stati Uniti; e “Drain the Swamp – Svuota la palude”, riferito a Washington come centro di potere che frena le potenzialità del Paese. Trump aveva in mente una rinascita spiegata attraverso schemi elementari: reindustrializzare il Paese con deregolamentazione e tariffe commerciali; far rientrare la manodopera delocalizzata, abbassando le tasse; bloccare l’immigrazione clandestina, limitarla per questioni legate al radicalismo islamico e alla criminalità; ridare agli Stati Uniti il ruolo di supremazia in tutte le agende mondiali: dal Medio Oriente all’energia agli accordi internazionali. Dietro ai comizi era difficile scorgere un vero piano elaborato da esperti; ma svettavano le visioni di un businessman pronto a guidare un Paese grande e complesso come se fosse una delle sue aziende.
Per questo Trump, presa la nomination repubblicana nel maggio 2016, veniva paragonato a un altro businessman con ambizioni politiche: Silvio Berlusconi. Tra i due però c’era una differenza cruciale: il quattro volte premier italiano possedeva anche un impero mediatico, funzionale a conquista e mantenimento del potere; l’americano non è proprietario nemmeno di un quotidiano.
Al potere Trump, però, vi era stato catapultato dai mezzi di informazione; un settore spesso ridotto a info-teinment. Proprio Brian Williams, il volto che ha fatto la storia con l’oscuramento del Presidente degli Stati Uniti, è passato alle cronache per essersi inventato spezzoni di reportage, al fine di “intrattenere” il suo pubblico.
Da quel giugno 2015, quando scese in campo, i riflettori su Trump non si sono più spenti: è in quei mesi che la pop-star si trasforma nel leader di un movimento populista e anti-sistema, con venature xenofobe e razziste. Come ebbe a dire Les Moonves, boss della CBS, in un audio filtrato alla stampa, Trump potrebbe non essere un bene per il Paese, ma è un dannato bene per la CBS; riferendosi agli ascolti, e quindi agli introiti della pubblicità, legati ai comizi “show” di Trump.
I dibattiti con al centro la visione di Trump generavano massima attenzione: dal muro col Messico al bando per gli immigrati dai Paesi musulmani; l’indice puntato contro la Cina che sfrutta le debolezze di Washington, alla promessa di distruggere l’Isis. Proposte spesso giudicate provocatorie o irrealizzabili; ma che invece di essere ignorate, diventavano pastura di confronti a distanza con Hillary Clinton, la cui nomination democratica era stata decisa ben prima che iniziassero le Primarie nel gennaio 2016. Dalla sua Campagna giungevano risposte immediate ai commenti di Trump; non dettate da una spontanea repulsione, ma da una strategia studiata, come emerso in un documento del Partito Democratico filtrato da Wikileaks: innalzare il magnate a “pifferaio magico”, indirizzando il partito repubblicano verso un dirupo politico.
La considerazione per Donald Trump era sempre stata così bassa, che una vittoria era inconcepibile a Washington. I sondaggi, del resto, avevano sempre dato la Clinton come favorita, prevedendo una vittoria schiacciante ancora durante il giorno delle elezioni. Se nel voto popolare la candidata democratica accumulò un vantaggio di 3 milioni di preferenze, il suo avversario si assicurò margini decisivi negli Stati in bilico; in particolare nella rust belt – Pennsylvania, Michigan, Wisconsin: territori di manodopera dove la Crisi 2007-2008, eredità del neoliberismo del bi-partito Repubblicani-Democratici, aveva morso di più. Un campo di battaglia che Clinton non aveva mai considerato tale.
Invece il Paese si risvegliò con Trump Presidente eletto, e i due rami del Congresso in mano ai repubblicani. Lo shock fu tale che nemmeno il vincitore nelle prime apparizioni pubbliche riusciva a sorridere, consapevole delle promesse da mantenere. L’improvvisazione della sua Campagna si manifestò con la ricerca dei candidati per colmare l’Amministrazione; Trump riciclò il format del suo programma The Apprentice – l’apprendista. Tuttavia uno dei pochi punti fissi, ormai da più un anno, era l’ex Generale Michael Flynn, già Direttore dell’Intelligence della Difesa fino al 2014, e silurato da Obama proprio per le critiche sulla gestione del Medio Oriente: in primis l’accordo sul nucleare con l’Iran; e l’incapacità di contenere l’Isis (Stato Islamico dell’Iraq e del Levante) e gli estremisti filo-qaedisti. Una visione che sarebbe diventata paradigmatica nella politica estera dell’Amministrazione Trump, nonostante Flynn abbia ricoperto il ruolo di Consigliere alla Sicurezza Nazionale per appena qualche settimana.
L’eredità del Russiagate sulle elezioni 2020
Proprio su quella figura il Dipartimento di Giustizia dell’Amministrazione Obama-Biden, già a partire dal dicembre 2015, aveva cominciato a costruirsi la “polizza assicurativa” nel caso Trump avesse vinto. E’ l’espressione usata in privato da Peter Strzok, (ex) alto ufficiale dell’FBI al contro-spionaggio, e responsabile dell’apertura a fine luglio 2016 di Crossfire Hurricane, l’indagine criminale sulla presunta collusione fra la Campagna Trump e la Russia per l’interferenza nelle elezioni Presidenziali. Lo stesso Strzok che indirizzò l’indagine sul server privato dell’ex Segretario di Stato Hillary Clinton – un canale non ufficiale in cui viaggiava materiale classificato – verso la non-incriminazione. Lo stesso Strzok che tenne aperta un’indagine su Flynn nonostante l’FBI avesse deciso di chiuderla perché il Consigliere alla Sicurezza Nazionale in pectore non aveva commesso nessun crimine; preparando un interrogatorio-trappola dove l’ex Generale sarebbe caduto, per poi essere costretto alle dimissioni.
Il caso Flynn fu la causa della rottura definitiva fra Trump e il Direttore dell’FBI Comey; il quale in realtà già da tempo aveva messo sotto ricatto il Presidente Usa. Nel primo incontro con Trump alla Casa Bianca, Comey lo avvertì dell’esistenza di un dossier dell’intelligence americana che lo dipingeva come il manchurian candidate del Cremlino. A Trump, però, il Direttore dell’FBI nascose che si trattava di informazioni “grezze” raccolte dall’ex spia britannica Christopher Steele, ingaggiato per vie traverse dalla Campagna Clinton. Voci mai corroborate, molte delle quali si dimostrarono manipolate o infondate. Eppure quello stesso dossier nei mesi precedenti era stato utilizzato dall’FBI e dal Dipartimento di Giustizia dell’Amministrazione Obama-Biden per ottenere un FISA – dispositivo legale per spiare in segreto un cittadino americano per sospetto spionaggio. Il soggetto in questione era Carter Page, membro della Campagna Trump dal febbraio 2016, ma che in passato era stato un asset della Cia proprio per smascherare spie del Cremlino. Un’informazione che Kevin Clinesmith, legale operativo per l’FBI, aveva cancellato dai documenti inclusi nella richiesta di FISA. Un’omissione reiterata per quattro volte, visto che l’FBI cessò di spiare Carter – e di conseguenza i suoi eventuali contatti nell’Amministrazione Trump – fino al settembre 2017.
A questo si aggiunga la circonvenzione di George Papadopoulos, membro della Campagna Trump, da parte di pesci grossi dell’Intelligence occidentale; come Stefan Halper – il primo a mettere nel mirino Flynn inventandosi rapporti con Svetlana Lokhova, additata come spia del Cremlino; Alexander Downer, diplomatico australiano amico dei Clinton; e il professore maltese Joseph Mifsud, dipinto come agente russo ma in realtà vicino all’Intelligence britannica e italiana.
La descrizione di Papadopoulos come deposito di informazioni sul tentativo della Russia di interferire nelle elezioni è stato il viatico per aprire Crossfire Hurricane, e permettere all’Amministrazione Obama-Biden di spiare la Campagna della nomination repubblicana; ed è stata funzionale per la nomina nel maggio 2017, di un Procuratore Speciale: l’ex Direttore dell’FBI Robert Mueller avrebbe tenuto sotto scacco Trump per altri due anni. L’indagine si è poi conclusa con zero cittadini americani incriminati per collusione con la Russia; la mancata incriminazione di Wikileaks – ritenuta organizzazione mediatrice fra la Russia e la Campagna Trump; la non incriminazione di Svetlana Lokhova, né di Mifsud; l’assoluta mancanza di accenni allo Steele Dossier, il documento che l’FBI aveva usato per aprire l’indagine.
Lo stesso Dossier che Steele imboccò alla stampa ancora prima delle elezioni, e pubblicato integralmente da BuzzFeed pochi giorni prima dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca. Falsità trasformate in un martello per picchiare il Presidente Usa e scolpirlo nell’immaginario collettivo come un asset di Vladimir Putin.
Nella primavera 2017, quando Mueller venne nominato Investigatore Speciale, il Partito Democratico, a partire dai leader al Congresso Nancy Pelosi e Chuck Schumer, aveva già consolidato una narrativa da golpe: le elezioni del 2016 erano state sequestrate dalla Russia, e Trump era un Presidente illegittimo.
La pietra di paragone del Russiagate era nientemeno che il Watergate, che ne 1974 aveva costretto il Presidente Nixon alle dimissioni; le stesse che l’apparato politico-mediatico anti-Trump ha preteso a intervalli cadenzati per tutti questi anni. Fino a un processo di impeachment relativo alle pressioni di Trump per ottenere dai vertici ucraini informazioni sullo scandalo Biden-Burisma: ovvero la rimozione di un giudice che stava indagando su una società energetica nel cui board si è poi seduto Hunter Biden, figlio dell’allora Vice-Presidente. Se il Partito Repubblicano ha respinto l’ennesimo assalto a Trump, il Partito Democratico non ha nemmeno battuto ciglio sugli affari di Hunter Biden grazie alla sua parentela. La maggior parte dei media si è tenuta lontana dal conflitto di interessi all’origine del processo di impeachment.
Le indagini sul cosiddetto Russiagate sono considerate, nel Rapporto dell’Ispettore Generale del Dipartimento di Giustizia Michael Horowitz, come giustificate – in attesa di un altro Rapporto, quello del Procuratore Speciale John Durham, che sta indagando sugli errori ed eventuali crimini di chi ha usato lo Steele Dossier.
Intanto una parte consistente di americani ha osservato lo spettacolo di questi quattro anni: lo giudica una persecuzione nei confronti di un Presidente democraticamente eletto.
Questo ha accresciuto in molti elettori repubblicani la sensazione che a essere stato qualcosa di illegittimo fosse il Russiagate: un frankestein giudiziario creato durante l’Amministrazione Obama-Biden; tenuto in vita dai media, a partire proprio dalla MSNBC, che annunciava, una breaking news dopo l’altra, la prossima fine di Trump.
L'(in)successo di Trump alle elezioni 2020
Invece Trump in questi quattro anni ha ripagato la fiducia dei suoi elettori, offrendo agli Stati Uniti – in epoca pre-Covid19 – una crescita economica condita da ottimi numeri sull’occupazione, sull’andamento delle borse, e i guadagni. Una tendenza avviata dall’Amministrazione Obama-Biden, ma che sotto Trump era diventata più consistente.
Grazie a questo e ad altri risultati – come ad esempio la temporanea stabilizzazione del Medio Oriente senza guerre campali, o parziali vittorie nello scontro commerciale contro Cina ed Unione Europea – i sostenitori di Trump hanno sorvolato su alcuni lati scomodi del Presidente; gli stessi che i critici del Presidente considerano imperdonabili: ad esempio l’abitudine a esacerbare le tensioni politiche e sociali; la propensione a circondarsi di yes-men, e disfarsi di coloro che lo contraddicono; la mai velata ammirazione per i regimi autocratici; la scarsa attenzione per i diritti umani in politica estera – questioni cinesi a parte – e spesso anche in quella domestica.
Dopo cinque anni, si azzarda la parola “trumpismo”, un fenomeno che per certi versi ha cannibalizzato il Partito Repubblicano, fino al 2016 ancora troppo legato al neoliberismo con predilezione per l’alta finanza; e al dogma neoconservatore, con gli Usa super-poliziotto del pianeta.
Proprio le elezioni 2020 sanciscono il successo di Trump, con un seguito personale non più trascurabile. Nonostante la gestione malsana della pandemia, e il conseguente tracollo economico, ha incrementato i consensi, ricevendo 10 milioni di voti in più rispetto al 2016. Lattuale Presidente Usa ha preso 4 milioni in più rispetto a Obama nel 2008, e 8 milioni in più rispetto a Obama nel 2012. Facendo impallidire i risultati degli ultimi due candidati repubblicani: John McCain e Mitt Romney presero più o meno 13 milioni di voti in meno rispetto a Trump.
Il Presidente ha fatto anche da traino per il parziale successo dei Repubblicani nelle elezioni per il Congresso, se paragonato alla deblacle del 2018, dove il nome Trump non compariva sulla scheda.
Eppure Joe Biden ha vinto le elezioni 2020; sorpassando l’avversario nel voto popolare con uno strabiliante record: 80 milioni di voti, cinque in più. La nomination democratica ha conquistato Stati chiave come Georgia, Arizona, Nevada, Pennsylvania, Michigan e Wisconsin. Un risultato possibile grazie alla perdita di consensi per Trump fra l’elettorato bianco dei sobborghi delle grandi città; e all’aumento di voti per i democratici nella comunità afro-americana della Georgia e nei poli urbani della rust-belt; oltre che nelle comunità ispanica in Arizona. Sconfitte localizzate ma decisive in un voto che ha segnato per i repubblicani il maggior incremento di voti fra le minoranze, con addirittura un elettore afro-americano su otto (il 19% fra i maschi) che ha dato la preferenza a Trump.
Tuttavia, al di là delle analisi sociologiche, non si tratta di una vittoria personale di Biden: dietro di lui c’è una coalizione che va dai repubblicani ostili al Presidente ai socialisti di Bernie Sanders, dagli attivisti climatici agli indipendenti fino ai “social warriors“; il vero collante è il rifiuto nei confronti di Trump, la sua retorica divisiva, le deviazioni autoritarie manifestate in questi quattro anni. E che stanno esplodendo nel passaggio post-elettorale.
L’attacco di Trump al voto
“Vogliamo un’elezione onesta, e un conteggio onesto. Non possiamo permettere che le elezioni vengano rubate in questa maniera. Ci sono troppi imbrogli”. Ecco le parole di Donald Trump pronunciate nelle prime ore del 4 novembre, quando dalla Casa Bianca si è proclamato il vincitore delle elezioni; in vari Stati mancava ancora il conteggio delle schede via posta, che in quella notte venivano accatastate ai seggi. Una vittoria non riconosciuta da nessuno, nemmeno dal Partito Repubblicano.
“Questo del voto per posta è un sistema corrotto”, ha ripetuto poi Trump durante la conferenza del 6 novembre, quando è stato oscurato dai principali network televisivi. Il suo vantaggio ormai era evaporato, con la vittoria matematica di Biden in vista.
Erano mesi che Trump andava denunciando il voto per posta come un “sistema permeabile alla frode elettorale”.
“Negli Stati Uniti, ha spiegato in estate il Segretario alla Giustizia Bill Barr, non abbiamo mai provato un voto per posta su una scala così vasta; non è assurdo pensare che con milioni di schede non sollecitate, basandosi su registri elettorali magari non aggiornati, si possano verificare brogli.”
L’ordine di Trump ai suoi elettori di recarsi ai seggi ed evitare il voto per posta fa parte di una strategia: isolarlo come voto democratico, e dare così una forma numerica della potenziale frode elettorale. L’attacco al processo di controllo e verifica del conteggio delle schede è partito immediatamente; i legali della Campagna Trump hanno presentato istanze per bloccare la certificazione del voto in tutti quegli Stati dove il margine di vantaggio di Biden si è concretizzato nei giorni dopo le elezioni – come nella rust-belt e in Georgia; o non appare insormontabile – come in Nevada e Arizona. Una tattica che finora si è avvalsa di testimonianze giurate su situazioni strane o caotiche; ma che non non hanno ancora svelato le frodi elettorali su vasta scala denunciate da Trump. Quasi tutte le istanze finora sono state rigettate.
Sono però emerse criticità: ad esempio in Georgia, dove sono state trovate schede elettorali non conteggiate; o in Michigan, dove in alcune contee si sono riscontrati errori nell’utilizzo di Dominion, uno dei software per conteggiare i voti. O in quegli Stati dove il riconoscimento della firma è stato impostato elettronicamente, ma con soglie di precisione contestate. C’è in effetti una discrepanza significativa tra il numero di schede rigettate nelle passate elezioni, rispetto a quelle rifiutate nel 2020; in una percentuale decisiva per l’esito finale.
I sodali di Trump puntano il dito proprio contro questi processi di conteggio, verifica e controllo, che ammetterebbero spazi di manovra per favorire Biden; a sfruttarli, evidentemente, individui “corrotti” – secondo la versione di Trump – sfuggiti alla sorveglianza degli scrutatori.
Negli Stati Uniti l’atteggiamento di Donald Trump, il suo rifiuto di accettare la sconfitta e anzi dichiararsi vincitore, sta facendo suonare tutti i campanelli d’allarme a livello istituzionale. La stampa comincia a dipingerlo come un aspirante golpista; e sono pochissimi i programmi televisivi che appoggiano la sua causa. Anche tra le file del Partito Repubblicano salgono voci critiche; alcuni esponenti chiamano Biden il Presidente eletto, riconoscendone implicitamente la vittoria nel voto del 3 novembre.
Ufficialmente, però, i vertici repubblicani supportano il rifiuto di Trump a riconoscere la sconfitta: per il Partito scaricare troppo in fretta il Presidente potrebbe diventare complicato, visto quanti elettori si identificano nelle sue politiche. Dopo qualche giorno di silenzio, Mitch McConnell, leader al Senato, ha affermato che è diritto di Trump di acclarare per vie legali ogni dubbio sulla validità delle elezioni.
In questo non aiuta certo l’impegno preso da Joe Biden durante il dibattito presidenziale del 29 settembre: disse che avrebbe atteso la certificazione delle elezioni prima di proclamarsi vincitore. Una promessa impossibile da mantenere, con Trump che continua a ripetere di aver vinto.
Tuttavia quello che sembra un assalto alla democrazia Usa, per molti elettori repubblicani rappresenta una richiesta sensata: difendere il proprio voto da potenziali frodi, in una elezione diversa da tutte le altre.
Una posizione riassunta dal Rappresentante Jim Jordan: “Per quattro anni i democratici hanno preteso di risolvere qualsiasi dubbio sulla collusione fra la Campagna Trump e i russi; una teoria infondata, viziata dalla malafede, e sfruttata per ribaltare il voto democratico. Oggi invece ai repubblicani non sono concesse nemmeno poche settimane per appurare la validità di un’elezione su cui esistono fondati sospetti.”
Non si comprende per quanto tempo ancora il Partito Repubblicano possa prestarsi alla prova di forza di Trump: in ballo c’è la tenuta stessa di un Paese.
di Cristiano Arienti
Fonti e Link utili
Categoria Russiagate su UMANISTRANIERI
https://www.hollywoodreporter.com/news/leslie-moonves-donald-trump-may-871464
They always wanted Trump: come la Campagna Clinton ha favorito l’ascesa di Trump nelle Primarie Repubblicane
Wikileaks rivela che il DNC elevò Trump per favorire Clinton
Perché il voto in Pennsylvania non torna.
https://nymag.com/intelligencer/article/donald-trump-criminal-case.html
https://www.justice.gov/storage/120919-examination.pdf (Revisione dell’Ispettore generale del Dipartimento di Hiustiza sui Fisa di Carter Page e l’apertura di Crossfore Hurricane)