Covid19: le scommesse di Cina e Italia (2° parte)
“Forza Cina, vincerai questa sfida; hashtag #Wuhan #Coronavirus.” E’ il 4 febbraio quando sui social media inizio a postare in mandarino incitamenti per i cinesi colpiti dalla nuova malattia; in solidarietà verso persone impaurite, visibili solo dietro ai vetri delle finestre. Fino a quel momento avevo osservato sbalordito la blindatura dell’Hubei; ma con la coppia di turisti di Wuhan trovati infetti in Italia, l’epidemia non mi sembrava più così lontana: la Cina era l’argine contro una minaccia terribile.
Un argine ormai rotto: in Lombardia il virus era già in esponenziale diffusione, come ha evidenziato la ricerca La fase iniziale del focolaio di Covid19 in Lombardia, pubblicata il 20 marzo.
Italia, la scommessa al buio
Era il 30 gennaio quando marito e moglie, arrivati dall’Hubei qualche giorno prima, vennero ricoverati allo Spallanzani di Roma con sintomi della malattia. Accertata la positività, il Consiglio dei Ministri presieduto dal Premier Conte dichiarò lo Stato d’emergenza, della durata di sei mesi, consegnando al Governo ampli poteri. Fu istituita un’unità di crisi interministeriale, coordinata da Angelo Borrelli, Direttore della Protezione Civile; con un fondo di 5 milioni di € per approntare controlli sanitari alle frontiere.
In più, si decretò lo stop ai voli diretti fra Italia-Cina. Inoltre, già il 22 gennaio, il Ministero della Salute aveva impartito a tutti i presìdi medici di controllare i dispositivi di protezione individuali; e nel caso, fare scorte.
Conte, sulle misure, affermò: Italia all’avanguardia contro il virus. Anche il virologo Roberto Burioni, eppur uno dei più lucidi, certificò a Che Tempo Che Fa, il 2 febbraio: l’azione del Governo rende il rischio diffusione coronavirus qui pari a zero.
Lo stop ai voli da e verso la Cina, opzione scelta anche da Stati Uniti e vari Paesi asiatici, è contestata da Pechino: teme un contraccolpo economico internazionale, oltre che interno, dopo la “chiusura” di ben 4 province. Lo sforzo per mantenere funzionante il sistema Paese è già enorme.
Accanto alla Cina si schiera anche l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), che sconsiglia misure isolate. Nell’Unione Europea di Schengen, nessun altro Paese segue l’Italia.
In realtà un italiano che vuole viaggiare da e verso la Cina può farlo con scalo a Francoforte o Mosca; e viceversa per un cinese.
L’OMS, però, insiste su un punto: il livello di attenzione va elevato non solo alle frontiere, ma anche all’interno; perché casi di coronavirus si presenteranno di certo.
Al 31 gennaio Giuseppe Conte non lo sa, ma il piano del suo Governo è nato superato: l’allarme è su chi deve entrare in Italia; non su chi sta già diffondendo il virus sul territorio. Per altro ancora più difficile da scoprire: le direttive del Ministero della Salute del 23 gennaio impongono il test per chi ha la sintomatologia, ma solo se è arrivato di recente dalla Cina, o ha avuto incontri con viaggiatori cinesi.
Già dalla fine di gennaio, negli ospedali della bergamasca, del lodigiano, del padovano e del piacentino, si presentano un numero di persone con polmonite o febbre alta resistenti a terapie. Tuttavia, non rientrando nelle categorie del Ministero, vengono trattati come normali pazienti.
Anche il Governatore della Lombardia Attilio Fontana e l’assessore al Welfare Giulio Gallera sono del tutto ignari: il 28 gennaio deliberano le misure di contrasto al coronavirus, con l’attivazione di una rete emergenziale di prevenzione e accoglienza che va dal medico di famiglia ai reparti di infettivologia. Il tono però è rassicurante: non ci sono casi in Italia; no a paure infondate.
Ribadito dalla Direttrice delle bio-emergenze del Sacco di Milano, Maria Rita Gismondo: “I casi in Cina non sono elevati, è giusto garantire un adeguato livello d’attenzione, ma assolutamente senza creare allarmismo e panico. La Lombardia è preparata ad affrontare qualsiasi evenienza.”
In Cina 60 milioni di persone erano già state blindate in casa, perché gli ospedali, da un giorno all’altro, si erano trovati ingolfati di malati.
Con la guardia alta a parole, ma in realtà abbassata, è in quel periodo che prende forma il grande contagio di medici e personale sanitario in Lombardia e nel piacentino. Solo il 23 febbraio l’Agenzia di Tutela della Salute della Lombardia riceve da Gallera l’elenco dei dispositivi di protezione individuale da fornire ai medici di medicina generale; due giorni dopo viene attivato un canale di acquisto centralizzato per l’approvvigionamento. Il primo ordine della regione, con milioni di mascherine, non arriverà mai.
Il 26 febbraio, durante una conferenza stampa, il Ministro della Salute Roberto Speranza, sollecitato da un giornalista, spiega: “L’approvvigionamento dei dispositivi di protezione individuale è a carico delle regioni; non è competenza del Governo”.
Con zone rosse a Vo Euganeo e nel Lodigiano, e la Lombardia mezza blindata, il Governo italiano non aveva la più pallida idea se i medici fossero equipaggiati per una potenziale pandemia.
Solo il giorno dopo la Protezione Civile inizierà a distribuire mascherine con filtri ffp2 e 3 ai medici del territorio. Consegnerà anche mascherine semplici e non chirurgiche, dando inizio a un rimpallo di accuse fra Governo e regioni sulla mancanza di dispositivi di protezione adeguati negli ospedali e negli uffici pubblici.
L’azione della Lombardia, come delle altre regioni, fin lì era sempre stata in coordinamento con il Ministero della Salute: applicava le linee guida diramate dall’Istituto Superiore della Sanità, basate su quelle dell’OMS; che sono un passo indietro rispetto alle linee guida del Ministero della Salute istruite il 18 gennaio: test su tutti i pazienti con anomala sintomatologia da polmoniti o Sars (sindrome respiratoria acuta grave).
Il cambio, per uniformarsi con l’OMS, ha creato un muro burocratico nelle sale dei medici di base e all’ingresso dei pronto-soccorsi; e una corsia privilegiata per il virus.
Il “paziente 1” di Codogno si presenta al pronto-soccorso due volte; un’anestesista di turno decide di sottoporlo al test sfidando i protocolli ministeriali, aggrappandosi a un pasto con un amico tornato dalla Cina; che poi, infatti, è risultato negativo. Quello di Codogno, come ha spiegato il virologo Fabrizio Pregliasco, “è in realtà il paziente 200. Si è creato un iceberg che nessuno vedeva.”
L’OMS e quel passo sempre in ritardo
Il 31 gennaio è la data in cui l’Italia decreta lo stato d’emergenza. Il giorno prima Tedros, Direttore Generale dell’OMS, aveva lanciato il PHEIC, l’Emergenza Sanitaria Globale di Rilevanza Internazionale. Il rischio che l’epidemia in Cina sfociasse altrove era ormai concreto; anche perché erano stati trovati 8 casi di trasmissione “da uomo a uomo” in Germania, Stati Uniti, Vietnam e Giappone. In tutto questo, la Lombardia non è nemmeno nei radar.
L’emergenza sanitaria globale raccomanda di elevare le misure di reazione: ogni Stato dovrà adeguarsi rispetto alle proprie esigenze; ma si invita a prendere Pechino come esempio negativo: la gestione nosocomiale dei contagiati, per il rischio di infettare il personale medico; ma anche come modello: per le misure di restrizione sulla quarantena e la circolazione dei cittadini.
All’opposto, però, vengono sconsigliate restrizioni su movimento di persone e commercio fra Pechino e il resto del mondo; la quarantena di massa per chi giunge dalla Cina non è nemmeno contemplata. Al 30 gennaio erano oltre 700 i casi di Covid19, al netto dei sommersi, al di fuori dell’Hubei; come espresso dal grafico dell’OMS, le curve dei contagi Hubei-Cina-Mondo crescevano con una tendenza simile.
Solo a partire da quella data il Ministero degli Esteri italiano sconsiglia viaggi nella provincia focolaio del nuovo coronavirus.
Il messaggio centrale, nella dichiarazione del PHEIC, è la preoccupazione per le aree meno ricche del pianeta, poggiando su sistemi sanitari fragili. Tedros non pone il collasso del sistema sanitario dell’Hubei come punto critico del nuovo coronavirus; che poi è il motivo per cui distanza sociale, mascherine e divieti di circolazione sono stati imposti anche ad altre province meno colpite.
Questo punto non era stato messo in evidenza nemmeno una settimana prima, con la pubblicazione del primo rapporto OMS a seguito di una missione a Wuhan. Gli emissari regionali erano giunti in Cina il 20 gennaio, ricevendo i primi dati dal Ministero della Salute cinese. Al 22 gennaio i casi ufficiali di nuovo coronavirus erano poco più di 500 con 17 decessi; un calcolo da cui, si è scoperto solo recentemente, mancavano tutti gli asintomatici o i sintomatici lievi; e i casi che, nel caos di quelle settimane, non erano rientrati in nessun conteggio. Pechino, poi, insisteva che non vi fosse certezza sulla diffusione del virus “da uomo a uomo”; affermava che quasi tutti i contagiati, anche quelli fuori dall’Hubei, fossero legati al mercato del pesce e di animali vivi di Wuhan.
In quel momento il virus aveva già superato i confini cinesi: il 13 gennaio in Thailandia una donna era risultata positiva; aveva visitato sì un mercato di Wuhan, ma non quello dove era scoppiato il focolaio.
Il 21 gennaio erano spuntati casi negli Usa, in Corea del Sud e Giappone. In Germania, si scoprirà, era già partito un mini-focolaio poi esportato a Seattle, Usa, e nel lodigiano. Il giorno dopo Tedros loda lo sforzo della Cina per contenere il virus.
In Occidente passerà un messaggio distonico: le misure draconiane che proprio dal 23 gennaio calarono sull’Hubei, sono la risposta di uno Stato dittatoriale a un’emergenza sanitaria. Eppure nel rapporto del 23 gennaio, l’OMS sottolinea l’urgenza della situazione; e per la prima volta descrive una trasmissione “da uomo a uomo” con un tasso di infettività 1,4>2,5; quindi esponenziale.
Questo non bastava al Consiglio internazionale dell’OMS per dichiarare l’Emergenza Globale. Mentre i cittadini dell’Hubei per – ufficialmente – 400 malati, vengono blindati in casa, Tedros fissa un incontro con Xi Jinping. Il 28 gennaio il Direttore Generale dell’OMS e il Presidente cinese si accordano per un’altra missione di studio a Wuhan; da svolgersi a metà febbraio.
Il gioco al ribasso della Cina
Il primo caso innegabile di trasmissione “da uomo a uomo”, in Cina, si è registrato all’inizio di gennaio 2020: un lavoratore nel mercato del pesce e di animali vivi di Wuhan, ha passato il virus alla moglie, che al mercato non ci andava. Il marito è poi morto l’11 gennaio.
Erano trascorsi 40 giorni dalla prima diagnosi di un nuovo tipo di Sars (sindrome respiratoria acuta grave), come descritto in uno studio di Lancet. Il primissimo caso, accertato a posteriori, risale a metà novembre 2019. Già a fine dicembre negli ospedali di Wuhan si “rumoreggiava” di questa nuova malattia, a causa della quale i dottori soffrivano degli stessi sintomi dei pazienti ospedalizzati.
E’ il 30 dicembre quando l’oculista Li Wenliang condivide su una chat di colleghi la cartella di un paziente la cui diagnosi è, dai test e andando per esclusione, Sars da coronavirus. La cartella era firmata dalla dottoressa Ai Fen; che da giorni, cercando di evitare le maglie del Partito-Stato, stava allertando la rete sanitaria di Wuhan. Erano almeno 7 i pazienti visitati dalla dottoressa con identiche diagnosi.
La polizia convocò Li Wenliang e un collega il 3 gennaio, ammonendoli di non spargere falsità; una ammenda era stata inflitta anche ad altri 8 dottori, colpevoli di creare immotivato panico nella popolazione. Le punizioni furono riprese anche dalla TV di Stato CCTV. Ormai, però, la comparsa di un nuovo virus Sars era venuta alla galla.
E’ il 4 gennaio quando l’OMS comunica al mondo di un focolaio di polmonite le cui origini virali sono indagate dalle autorità cinesi.
Quattro giorno dopo Li Wenliang, che non frequenta il mercato-focolaio, mostra i sintomi della malattia, contratta da un paziente affetto da congiuntivite. Salutato come un whistleblower per aver segnalato una minaccia zittita dalle autorità, Wenliang viene ospedalizzato il 12 gennaio; due giorni prima la Cina ha reso pubblica la sequenza genomica del Covid19, e passerà all’OMS il kit per i test. L’oculista, 34enne, risulterà positivo solo il 30 gennaio, pochi giorni prima del suo decesso.
Ancora il 14 gennaio, pur di fronte a vari casi di trasmissione “da uomo a uomo”, la Cina insiste che gli ammalati siano tutti legati a un luogo.
L’OMS dà ancora credito alle autorità cinesi, sebbene avverta di innalzare il monitoraggio. Una posizione che mantiene fino alla prima missione a Wuhan. Negli ospedali dell’Hubei, intanto, è il caos, con lunghe code ai pronto-soccorsi.
E’ il 25 gennaio quando escono le prime linee guida OMS contro i rischi del contagio: si illustra come tosse e starnuti siano la principale causa di trasmissione fra civili; consiglia le mascherine solo a chi ha sintomi influenzali: tutta la categoria degli asintomatici, o di persone con il virus in incubazione, vengono così escluse – per inciso: l’utilizzo di mascherine frenerà l’epidemia nei Paesi asiatici, che non danno retta all’OMS. Il mini-focolaio in Baviera si è già diffuso da una manager cinese che mostrerà sintomi durante il viaggio di ritorno.
Il 9 febbraio, due settimane dopo la prima missione OMS, Tedros ammette: “probabilmente i casi di coronavirus all’estero sono la punta di un iceberg”. In Cina, intanto, i casi sono oltre 40.000.
Due giorni dopo, alla vigilia della seconda missione OMS, Tedros lancia un nuovo allarme: “il mondo si deve preparare al contenimento del virus”. Intanto, dà un nome alla malattia: Covid19 (Coronavirus desease 2019).
Le autorità cinesi, proprio dopo queste dichiarazioni, procedono a un ricalcolo: solo nell’Hubei ci sono 52.000 casi con 1318 decessi; nel Paese si contano oltre 63.000 malati di Covid19.
Non per forza va attribuita questa discrepanza alla malafede: il conteggio, come proverà l’Italia, è difficile a causa dell’ondata di casi in pochi giorni; i dubbi sulla reale stima di contagi e decessi, però, stanno emergendo. E resta un fatto: dal 13 febbraio, le curve dell’Hubei e del mondo proseguiranno sulla stessa curva per un paio di settimane; mentre la quella della Cina aveva intrapreso la discesa già a inizio mese.
Tempo qualche giorno, e il Covid19 esplode in Corea del Sud, Iran e Italia. Tedros afferma che l’OMS sta monitorando con preoccupazione quei Paesi, ma conclude: è troppo presto per dichiarare la pandemia.
La scommessa vinta da Xi
E’ il 25 febbraio quando l’OMS pubblica i risultati della missione a Wuhan: l’alta propagazione è dovuta alla centralità di Wuhan nel commercio. Ammette la presenza degli asintomatici, ma non specifica se siano anch’essi contagiosi. Nel sottolineare il grande sforzo della Cina per contrastare il virus, sottolinea come la costruzione di nuovi ospedali avesse l’obiettivo di garantire cure a tutti; ancora non si insiste abbastanza sul fatto che il sistema sanitario era collassato. Eppure da tempo era una verità.
In Italia ci si culla sulla “preparazione” del sistema sanitario nazionale; eppure nel nord il numero di medici per mille abitanti è di appena uno 0,4 superiore a quello di Wuhan.
Non a caso nel rapporto del 25 febbraio, l’OMS scrive: il mondo non è mentalmente pronto ad affrontare questo tipo di epidemia; in poche settimane la Cina è stata messa in crisi; e solo la più aggressiva reazione della storia ha permesso ai cinesi di non soccombere. Grazie alla guida tempestiva del leader Xi Jinping, uno sforzo nazionale, e la partecipazione attiva di tutti i cittadini, Pechino sta uscendo vittoriosa sul Covid19.
Il 26 febbraio, il giorno dopo la pubblicazione del rapporto, in Italia era già partita l’operazione “riaprire tutto”; perché in fondo si trattava di “poco più di un’influenza che colpisce gli anziani”. Nel Rapporto OMS si evidenzia, invece, come l’età media degli ospedalizzati era di 49 anni; e che il Covid19 non era la Sars1 per infettività e letalità, ma non si poteva nemmeno ridurre all’influenza.
Quel giorno a Roma arrivò in missione Hans Kluge, Direttore regionale dell’OMS; tenne una conferenza stampa insieme a Stella Kyriakides, Commissaria Ue all’Agenzia della Salute, e Andrea Ammon, Direttrice del Centro Europeo per le Malattie. A fare da padrone di casa, il Ministro della Salute Roberto Speranza.
Nessuno di loro indossa la mascherina, e tanto meno rispetta un’accettabile distanza fisica onde prevenire possibili contagi. Il tono di Kluge è rassicurante: il 97% dei malati da Covid19 è in Cina; siate pronti, ma non lasciatevi andare al panico. Quel 26 febbraio in Italia si registrano 385 casi e 12 decessi; il numero per cui Wuhan è stata blindata. Durante l’arco della conferenza stampa, il virus esce come una minaccia lontana.
Il 6 marzo l’inviato dell’OMS lascerà l’Italia. Lodando il Ministro Speranza, Kluge si dirà fiducioso che le misure intraprese dal Governo, con le due zone rosse e le restrizioni in Lombardia, siano la strada giusta.
Appena quattro giorni dopo, con 8.514 casi e 631 decessi, Conte blinderà l’intero Paese chiedendo alla popolazione di chiudersi in casa.
Quel 10 marzo Xi Jinping, per la prima volta dallo scoppio del Covid19, visita Wuhan; in Cina si sono registrati appena 19 casi nuovi, e tutti lì. Il leader consegna ai cinesi e al mondo l’immagine di un Paese che ha frenato l’epidemia fin nel suo virulento epicentro; arrivando quasi a estinguerla nelle altre province. La realtà dei numeri, e i rischi di nuovi focolai, sono secondari.
L’11 marzo l’OMS dichiara il Covid19 una pandemia.
Pechino decide di bloccare i voli da e per l’Italia. Misure ricalcate successivamente per tutti gli altri Paesi. La produzione industriale, e l’economia in generale, stanno ripartendo in grande stile in quasi tutte le province del Paese.
Nei giorni successivi al lock-down, il Governo Conte ha chiesto aiuto all’Europa, per poter sperare di sopravvivere al disastro economico. Una Unione Europea rimasta a guardare per venti giorni, si è dapprima mostrata severa; poi, mentre uno dopo l’altro quasi tutti i Paesi membri seguivano l’Italia nel blindarsi, ha afferrato il quadro: una crisi di ordine mondiale capace di distruggere sistemi sanitari ed economie, e dissolvere l’Unione stessa.
Solo un mese prima, ancora libero di circolare, osservavo il cielo terso e azzurro dal parcheggio di un supermercato; quello stesso cielo che oggi miro da dietro al vetro di una finestra.
Di Cristiano Arienti
Covid19: le scommesse di Cina e Italia – 1° parte
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Fonti e link utili (oltre a quelli indicati nella 1° parte)
Doc sull’epidemia scoppiata a Wuhan realizzato dalla TV cinese CGTN
https://www.thelancet.com/journals/lancet/article/PIIS0140-6736(20)30183-5/fulltext (studio di Lancet del 24-1, in cui si evidenzia come
https://www.nationalreview.com/the-morning-jolt/chinas-devastating-lies/
https://news.rthk.hk/rthk/en/component/k2/1500994-20200104.htm? (agli inizi di gennaio 2020 a Hong Kong si teme una nuova epidemia Sars)
Articolo del NYT del 10-1-2020: no certezza sulla trasmissibility human2human, ma sospetta che la Cina non stia dando tutte le informazioni sul nuovo virus
https://en.wikipedia.org/wiki/Li_Wenliang#Whistleblower_in_2019%E2%80%9320_coronavirus_pandemic
https://www.ilsole24ore.com/art/coronavirus-sale-910-numero-morti-superate-vittime-sars-ACqCEMIB
https://www.who.int/docs/default-source/coronaviruse/who-china-joint-mission-on-covid-19—final-report-1100hr-28feb2020-11mar-update.pdf?sfvrsn=1a13fda0_2 (Report della missione OMS a Wuhan, pubblicato il 26 febbraio 2020)
https://ethz.ch/en/news-and-events/eth-news/news/2020/02/the-beginnings-of-the-coronavirus-epidemic.html (inizio dell’epidemia a Wuhan)
https://www.nature.com/articles/s41591-020-0843-2 (Studio di Nature sulle mascherine per contrastare il coronavirus)
https://directory.libsyn.com/episode/index/id/13349168 (focus di Caixin sullo scoppio di Civid19 a Wuhan)
https://www.bmj.com/content/369/bmj.m1375 (Studio sull’alta percentuale di asintomatici)