La morte di Kobe Bryant e le conseguenze del “MeToo”
“No, Kobe!!!” Ecco la mia reazione domenica 26 gennaio, a una “ultima ora” su twitter: l’ex campione di basket Kobe Bryant, 41 anni, era morto in un incidente di elicottero; proveniva da “Breaking911“, un sito affidabile: non poteva essere uno scherzo. Ho freneticamente digitato “Bryant” nel motore di ricerca, per trovare conferme a qualcosa che mi sembrava irreale – Shaquille O’Neal, compagno di Kobe ai Lakers, si rifiutava di crederci: il figlio e il nipote l’hanno trascinato davanti a uno schermo: una montagna di 150 chili si è poi accasciata a terra mentre un reporter annunciava la scomparsa del “fratello”. Lo stesso deve essere accaduto alla moglie di Kobe; il tabloid TMZ ha dato la notizia prima che lo sceriffo di Los Angeles riuscisse a comunicare a Vanessa Bryant della tragedia.
Nelle ore successive ho cercato notizie sugli account più autorevoli, per raccogliere voci di prima mano; ed ecco il tweet di tale Felicia Sonmez con il marchio blu di autenticazione – quindi una persona con un ruolo sociale riconosciuto: offriva il link di un articolo del Daily Beast del 2016: “L’inquietante caso di stupro di Kobe Bryant: le prove del DNA, la storia dell’accusatrice e la sua mezza confessione”.
Come un lanciafiamme su una casa a fuoco. Nessun accenno all’incidente di elicottero in cui, oltre a Kobe, erano perite altre persone; nove, come è emerso a fine giornata, fra cui la figlia di Bryant, la 13enne Gianna. Quando Felicia Sonmez, cronista politica del Washington Post, ha scritto quel tweet, i loro corpi stavano ancora fumando fra i rottami. In quegli istanti dovevo processare non solo la tragedia, ma anche il vago ricordo che il campione NBA era stato accusato di stupro.
Ho fatto una pausa di fronte al tweet di Sonmez, scioccato, con la contrastante emozione di aver perduto Kobe due volte. Avevo l’impulso di cliccare il link, e comprendere subito i contorni dell’accusa infamante. Ripromettendomi di indagare più tardi, ho proseguito a recuperare informazioni sull’incidente, condividendole con altre persone; sulle chat di gruppo leggevo già i messaggi: “E’ morto Kobe”.
La leggenda di Bryant
Per dare una misura di chi fosse Bryant per me, che il basket l’ho vissuto come spettatore al Palasport di Varese e davanti al televisore, come traduttore di documentari NBA, e infimo giocatore da cortili e giardinetti: Kobe apparteneva allo stesso empireo di Michael Jordan, universalmente definito il più grande di tutti. Come se Roger Federer, il dio del tennis, avesse un replicante non solo in vittorie e competitività, ma soprattutto in gioco, stile e carisma.
Ecco chi se n’è andato domenica 26 gennaio: una leggenda vivente dello sport.
Nelle prime 24 ore mi sono lasciato andare a ricordi sparsi di Kobe, la cui vaga somiglianza a una persona cara me lo ha sempre reso un volto amico.
Le schiacciate: una belva che balzava a canestro a qualunque costo; i tiri funambolici: galleggiante in aria quel secondo in più per evitare le stoppate; la difesa asfissiante: vero incubo per gli avversari; le giocate clou: quando metteva il canestro della vittoria sul fil di sirena; le urla entusiasmanti: quando lui e Shaq dominavano la Lega infilando il three-peat; gli sguardi vendicativi, mentre osservava i Boston Celtics portargli via l’anello Nba nel 2008; e le braccia nel cielo della rivincita, nei due anni successivi, premiato come miglior giocatore delle Finals.
Ma più di tutto, nelle orecchie avevo la sua voce profonda e pastosa, le riflessioni intelligenti; e negli occhi il sorriso luminoso che investiva di una grande energia positiva. E nella mente la sua storia: un ragazzino americano cresciuto in Italia – periferia del basket – con un sogno impossibile: diventare il migliore di tutti. Buttandosi nella NBA a 18 anni, il più giovane a esordire nella Lega dei campioni: fu preso dai Los Angeles Lakers, la sua sua squadra del cuore, diventandone una bandiera. Ha dato spettacolo sera dopo sera per 20 anni, in un periodo in cui l’Nba si è confermata attrazione planetaria. Nel 2016, la stagione del ritiro, in tutti i palazzetti d’America è stato accolto fra ovazioni: il vero riconoscimento del suo valore come atleta.
Appese le scarpe al chiodo, Bryant non si è rilassato, né si è fatto risucchiare come opinionista sportivo. Nel 2018, per dire, ha vinto un Oscar per aver scritto e prodotto un cortometraggio animato sulla storia di se stesso. Negli ultimi anni, per amore della figlia Gianna, era diventato un instancabile promotore del basket giovanile, e testimonial della WNBA, la Lega professionistica femminile. In un’intervista a Gayle King, la campionessa Lisa Leslie ha avuto modo di dire: “Kobe stava cambiando la mentalità degli uomini riguardo al basket femminile: ha portato un’enorme attenzione sul nostro movimento.”
Attraverso lo sport era diventato, lui padre di quattro bambine, un paladino dell’affermazione delle giovani donne nella società.
Non tutti la pensavano così, anzi: durante l’anno del suo ritiro, sulla stampa apparvero critiche verso l’ammirazione riservata a un uomo con alle spalle un’accusa credibile di stupro; lo stesso accadde con la premiazione degli Oscar. Dalla fine del 2017 poi, la società Usa, ma non solo, era attraversata dal #MeToo – il movimento di risveglio della coscienza femminile contro le molestie e la violenza sulle donne, soprattutto in ambito lavorativo. Quel premio a Bryant, in un’edizione che aveva bandito il guru di Hollywood Harvey Weinstein perché un predatore sessuale, destò perplessità: ci fu addirittura una petizione con oltre 17.000 firme per strappare via l’Oscar all’ex campione Nba.
Domenica 26 gennaio se n’è andata un’icona la cui scomparsa ha generato un shock per centinaia di milioni di fan. Ma anche un uomo che nell’ora della sua morte è stato chiamato stupratore. Non sono pochi a vedere “nell’incidente in Colorado” il vero lascito di Bryant: commettere un crimine odioso, e farla franca solo grazie ai soldi e allo status di stella sportiva.
Black Mamba, il colpevole senza processo
Il giorno dopo la tragedia, ho dovuto scandagliare le accuse di stupro a Bryant, un caso scoppiato nel luglio 2003. Nei miei sfumati ricordi è riemersa una conferenza stampa in cui il campione si difendeva: non ho mai violentato nessuno. Parecchi, come me, avevano dato per spacciata la carriera del cestista; il caso Mike Tyson-Desiré Washington, di una decina d’anni prima, insegnava che nessun astro dello sport era intoccabile, anche di fronte a un impianto accusatorio fragile. Salvo poi ritrovare Kobe nelle Finals dell’anno dopo, con i Lakers sconfitti dai Detroit Pistons. In un’epoca pre-social media, le notizie venivano filtrate dalla stampa italiana specializzata; che in sostanza, alla fine di quell’estate 2004, spiegava: il caso di stupro è stato dismesso a livello penale, e si prospetta un accordo in sede civile. Accordo che fu stipulato nel 2005: con un pagamento all’accusatrice – si riporta – di 2,5 milioni di $, e l’impegno fra le parti a non parlarne più in pubblico. Lo scandalo è inesorabilmente scivolato nel dimenticatoio. Soprattutto dopo il 2006, con il premio di Most Valuable Player della stagione; e l’exploit degli 81 punti in una singola partita, lo score più alto di sempre – eccettuati i 100 punti del gigante Wilt Chamberlain in una Lega in bianco e nero.
Se della ragazza nessuno se ne occupava più, Kobe sfondava le porte della storia a suon di canestri. Costruendosi, per reagire a quel periodo della sua vita, una personalità nuova: il “Black Mamba”; l’atleta e l’uomo capace di superare ogni avversità grazie alla mentalità vincente: prepararsi in modo maniacale, credere in se stessi, distruggere gli avversari, non arrendersi mai. Ispirato forse dall’eroina di Kill Bill, film tarantiniano del 2003, con la Black Mamba/Uma Thurman “resuscitata” per riparare i torti subiti e riabbracciare la figlia. La “mamba mentality” è la ricetta per raggiungere gli obiettivi fissati: come rivincere la Nba back-to-back da leader; o fondare un’accademia sportiva per bambini e adolescenti, aperta nel 2018, e chiamarla appunto la “Mamba Academy”; o superare le asperità più dure: come convivere con il sospetto di aver violentato una donna.
Centinaia di giovani, quindi, stanno crescendo a Los Angeles in un ambiente di massima eccellenza, nato letteralmente dalle ceneri di quello scandalo.
La ragazza che lo denunciò alla polizia aveva 19 anni, bianca, e lavorava come concierge in un hotel di Edwards, Contea di Eagle, Colorado. Quel 30 giugno 2003 Kobe, all’epoca 25enne, giunse all’hotel alla vigilia di un intervento chirurgico nella vicina Veil.
Dopo essere stato accolto in albergo dalla concierge, Kobe le chiese di accompagnarlo a visitare la piscina, la spa e la palestra. Alla fine del giro, Kobe la invitò nella sua stanza; la concierge, che di fatto aveva finito il turno, accettò. I due, rimasti soli, iniziarono a scambiarsi prima delle confidenze, e poi delle effusioni; un atto consensuale su cui i ricordi già divergono; precisamente, su chi iniziò a baciare chi. Ma è il resto che è diventato materia processuale, ed eredità culturale della società americana.
Che il rapporto intercorso con la 19enne fu quanto meno ruvido, è messo nero si bianco nella testimonianza dell’afro-americano agli agenti: durante l’amplesso serrava la donna per il collo; un dettaglio che Kobe ha definito “la mia cosa”. Aggiungendo: “Potete chiedere a Michelle” – una amante che frequentava saltuariamente. Un amplesso che si interruppe dopo circa cinque minuti, quando la ragazza rifiutò la richiesta di prendersi in faccia il seme. E’ solo in quel momento che lei, secondo Bryant, pronunciò un “no”.
Nella versione della 19enne, invece, il rapporto fu brutale: un vero assalto manesco, continuativo, a cui cercò di sottrarsi sia fisicamente che verbalmente: “più volte gli dissi di no a quel che mi stava facendo” – come abbassarle le mutandine. Quella mano sul collo – che le lasciò un piccolo livido – veniva percepita come una minaccia per la sua incolumità; la stretta, infatti, aumentava alla richiesta di Bryant: “vero che non lo dirai a nessuno?”
La ragazza, in lacrime mentre veniva stuprata – sempre secondo la sua versione – rispose di no. E invece lo disse subito dopo essere uscita dalla stanza; prima lo svelò a un amico-collega: “Bryant mi ha costretto a fare sesso”. Una volta a casa lo confidò alla madre; e il giorno dopo lo denunciò alla polizia.
Durante la visita all’ospedale, la cavità vaginale della ragazza presentava escoriazioni che la nurse giudicò compatibili con un rapporto sessuale forzato nelle ultime 24 ore; sue macchie di sangue, del resto, furono trovate sulla maglietta di Bryant. Un parere più autorevole lo diede il dottor Michael Baden, l’esperto convocato dall’accusa; il quale non escluse che quelle escoriazioni e il livido potessero risultare da un rapporto consensuale.
A questo si aggiungeva il contraddittorio test del DNA: risultava che ne avesse avuti altri, di rapporti, nelle 72 ore precedenti all’esame; prima e dopo il presunto assalto di Kobe. Le escoriazioni, quindi, non erano per forza associabili esclusivamente al rapporto intercorso con Bryant.
Una descrizione sempre rigettata dall’accusa, che dava la colpa di quell’esito alle mutandine con cui la ragazza si presentò in ospedale: un indumento intimo, a sua detta, preso dal cesto dei panni sporchi. Nonostante questi dettagli, il caso venne comunque istruito: Bryant veniva dipinto come un bestiale stupratore che minacciava di morte la sua vittima.
Se una giuria avesse riconosciuto come vere quelle accuse, Kobe rischiava di passare il resto della vita in un carcere. Avrebbe perso la famiglia, la carriera e la libertà. Il suo nome si sarebbe ridotto a fango, per sempre.
Durante il primo interrogatorio della polizia – il giorno dopo il presunto assalto – un convalescente Bryant ripetè più volte: “Perché mi sta facendo questo? Perchè?”
La conclusione, che condivise anche con gli investigatori, era la richiesta dei soldi. Gli agenti rigettarono quell’ipotesi, visto che “la famiglia della ragazza era benestante”; e lo redarguirono: già all’inizio dell’interrogatorio, Bryant aveva domandato se ci fosse “un modo per sistemare la faccenda prima che diventasse di dominio pubblico.”
Nella versione dei fatti che lui diede agli agenti, il rapporto sessuale fu cercato anche dalla giovane attraverso il linguaggio del corpo: le mani sul pene, e un principio di rapporto orale; e l’ok perché lui le abbassasse le mutandine, per mostrargli un tatuaggio, piegandosi poi in avanti. E’ in quei momenti che lui penetrò la giovane; è lì che, secondo Bryant, lei avrebbe potuto dire no.
In realtà era già troppo tardi: è nell’istante prima che si dovrebbe chiedere il consenso. Per la neuroscienziata Lisa Feldmann Barret, in un saggio apparso sul Time in occasione della monografia sul #MeToo, il linguaggio del corpo non è sufficiente come indicatore del consenso: il cervello può dare un’interpretazione a dei segnali che, nell’interiorità del partner, potrebbero avere un significato diverso. Incomprensioni che possono dilatarsi e deformarsi nella mente e nella memoria. E’ il nocciolo di questa storia, e del perché Bryant sarà sempre visto, agli occhi di alcuni, come un violentatore: non ci fu consenso a una richiesta che non venne mai esplicitata, in una situazione che però sembrava chiara; almeno per il 25enne, il quale agli agenti dichiarò, relativamente alla penetrazione: “it was easy – è stato facile”, alludendo al desiderio della giovane ad avere un rapporto sessuale completo.
Una disponibilità che, qualora ci sia stata, deve essere evaporata poco dopo. In un rapporto che nemmeno si consumò per intero: “As a matter of fact I jercked off after she went away – se volete saperlo, mi sono masturbato dopo che se ne fu andata”.
Questa è la ragione per cui Bryant, inizialmente, negò alla polizia di aver avuto un rapporto sessuale con la concierge; lo ammise solo quando l’investigatore gli spiegò che non era necessaria un’eiaculazione per lasciare tracce seminali.
“Are you kidding me? – Mi stai prendendo in giro?”, la risposta attonita del 25enne.
Qualche giorno dopo, l’afro-americano fu arrestato e rilasciato su cauzione in attesa del processo.
Anche leggendo le due testimonianze, con i dubbi irrisolti del test clinico, ci si trova di fronte a un caso di “lui ha detto” versus “lei ha detto”; oggi, grazie a forti campagne di sensibilizzazione, si tende ad ascoltare con più rispetto le ragioni di una donna che trova il coraggio di denunciare il suo aggressore. Negli Usa, in passato e ancora nei primi anni 2000, non era così. Per non parlare di altre zone del mondo, dove il patriarcato opprime le donne come categoria sociale.
Quel che però rende la testimonianza di Kobe, forse, più credibile, riguarda i momenti successivi all’atto: per un anno intero la concierge andò ripetendo di essere stata costretta da Bryant a lavarsi il viso, a pettinarsi, e sedersi sul letto per calmarsi. Salvo poi ammettere, in una deposizione scritta poco prima dell’inizio del processo, che se l’era inventato. Scusandosi con gli investigatori, la ragazza spiegò: “temevo di non essere creduta”.
Quella parte era funzionale a rappresentare la presunta ferocia di Bryant: quel tipo di aggressione suggerisce che la vittima sarebbe stata non solo in lacrime, ma nella prostrazione più totale. La manager dell’hotel testimoniò di aver visto la 19enne subito dopo il presunto stupro, ma di non aver colto segnali che fosse stata oggetto di una violenza.
La difesa di Bryant avrebbe imbastito il processo anche su quella contraddizione. Intanto aveva scavato nel passato della giovane, per creare la perfetta nemesi del loro assistito: una ragazza che quattro mesi prima era stata ospedalizzata per due tentativi di suicidio per amore; o che aveva provato la carriera di cantante partecipando, senza successo, a un reality show. Fu una strategia di sistematica demolizione dell’accusatrice; ad esempio, quando la difesa ne menzionò l’identità in aula; nonostante la seduta fosse a porte chiuse, quel nome e cognome furono soffiati al vento, diventando di pubblico dominio. Il personale del tribunale si macchiò poi di un errore sospetto: recapitare ai giornalisti il test DNA della 19enne, che implicava rapporti con un altro partner prima e dopo l’incontro con Bryant; creando un giudizio negativo attraverso lo svergognamento. A cui si aggiunsero i racconti sfavorevoli di alcuni amici della ragazza: la quale non aveva mai fatto mistero sull’idea di sedurre le star; e che raccontò dettagli intimi del campione dei Lakers.
Tutto questo straripò in un assedio morboso alla giovane da parte dei media; sobillando i fan di Kobe in una campagna di odio sfociata in minacce di morte. Il trattamento riservato alla 19enne dai legali di Bryant mise in dubbio l’efficacia delle leggi di protezione delle vittime di abusi sessuali in Colorado.
Fu il motivo addotto dalla ragazza, a pochi giorni dall’inizio del processo, di non cooperare più con la pubblica accusa: la volontà di non esporsi ulteriormente a quel fango, qualunque fosse stato il verdetto. Di conseguenza la pubblica accusa perse la principale carta processuale; era chiaro che le probabilità di vittoria si erano molto ridotte.
Ecco quindi la dismissione del caso in sede penale, nell’estate 2004. Gli avvocati della ragazza, tre settimane prima, avevano già depositato una causa civile per danni morali nei confronti di Bryant; facendo intendere che ci fosse spazio per accordi: partendo da una ammenda da parte del campione.
Poco dopo Bryant, in una conferenza stampa, offrì le seguenti dichiarazioni:
Prima di tutto voglio chiedere scusa direttamente alla giovane donna coinvolta in questo incidente. Voglio chiedere scusa a lei per il mio comportamento di quella notte, e per le conseguenze che ha sofferto in questi anni. Sebbene questo anno sia stato incredibilmente difficile per me personalmente, non riesco a immaginare la sofferenza che lei ha dovuto sopportare. Voglio anche scusarmi con i suoi genitori e i membri della sua famiglia; e voglio chiedere scusa alla mia famiglia, agli amici, ai tifosi e ai cittadini di Eagle, Colorado.
Voglio anche mettere in chiaro che non dubito dei motivi di questa giovane donna. Nessuna cifra le è stata pagata. Lei ha accettato che questa dichiarazione non verrà usata contro di me in sede civile.
Sebbene io creda che questo nostro incontro fra di noi sia stato consensuale, riconosco adesso che lei non lo vedeva tale, e non vede questo incidente nello stesso modo in cui lo vedevo io. Dopo mesi di revisione delle evidenze legali, ascoltando i suoi avvocati, e anche la sua testimonianza in prima persona, ora comprendo come lei senta di non aver dato consenso a questo incontro.
Rilascio questa dichiarazione oggi totalmente consapevole che mentre una parte di questo caso finisce oggi, ne rimane un’altra. Capisco che la causa in sede civile andrà avanti. Quella parte di questo caso verrà decisa fra le parti direttamente coinvolte nell’incidente e non sarà più un peso emozionale e finanziario per i cittadini dello Stato del Colorado.”
Per molti, questa è la mezza-confessione che colpevolizza Bryant: ammette le ragioni della concierge per essersi sentita vittima di uno stupro. Per altri, con questa dichiarazione Bryant ribadisce la propria innocenza; e accoglie anche la buonafede della ragazza, allontanando un’eventuale contro-denuncia per diffamazione. Una salvaguardia, se vogliamo, per la reputazione di entrambi, soprattutto della 19enne: in una causa civile, infatti, la sua identità non sarebbe stata protetta dall’anonimato, consegnandola alle fauci dei media; in un procedimento il cui esito era incerto.
Ancora oggi la donna, adesso 36enne, rifiuta interviste alla stampa, per via del vincolo di non pubblicizzare quell’incidente. Non è di dominio pubblico, quindi, il peso che ha dovuto sopportare dal 2003 a oggi, la sofferenza – a cui è stato dato un valore di 2,5 milioni di $ – che l’ha segnata per tutti questi anni. E come si sia evoluta la sua vita da quel 30 giugno 2003, con la stella dei Lakers onnipresente sui media e molto amata dagli americani.
In un’intervista del 2012 a In Depth, Bryant spiegava come il caso lo avesse cambiato in meglio, non solo come individuo, ma anche come membro di una famiglia e come compagno di squadra:
“E’ stato estremamente difficile. Un’esperienza del genere mette in discussione la persona che sei; devi per forza affrontare un percorso alla ricerca di te stesso, della tua anima. In un periodo così nero della vita, non puoi far altro che tentare di andare avanti. E alla fine, quando attraversi un’esperienza simile, non puoi fare a meno di cambiare; non puoi fare a meno di avere una comprensione migliore di chi tu sia veramente.”
Di sicuro, i riflettori sulla sua meschina vita da adultero misero Bryant di fronte alle proprie responsabilità di marito e padre di famiglia. Il rischio di finire i suoi giorni dietro alle sbarre, diedero un ordine nuovo alle priorità:
“La pressione che ho sopportato è quella della vita vera, nulla a che vedere con la pressione di segnare il canestro della vittoria. Il basket, se non altro, mi ha aiutato a rimanere sano in questa esperienza.”
Le conseguenze del #MeToo sul caso Bryant
Durante l’intervista, il giornalista Graham Bensinger dava a intendere che, siccome il caso era stato dismesso prima dell’incriminazione, Bryant fosse innocente. La narrativa si incentrava sull’individuo caduto nella polvere per gli errori commessi; ma soprattutto, per un’accusa infondata: “Mi imponevo di ignorare cosa dicesse quella donna”, confida Bryant, a un centimetro dall’infrangere il vincolo del silenzio.
Insomma, ecco la trama dell’eroe in disgrazia capace di riemergere dall’abisso solo dopo essersi guardato dentro: per rinascere un uomo migliore. Tuttavia Bryant disse anche questo:
“La lezione che ho tratto è di arrenderti e mostrare te stesso per quello che sei; lasciare che le cose vadano per il loro corso, e avere fiducia nella loro evoluzione; perché non puoi essere in controllo di tutto.”
Naturalmente Kobe si riferiva al lavoro del suo team legale per tirarlo fuori da quel “casino”; ma nel 2012, illustrava anche la sua attitudine per superare la diffidenza di chi, sotto sotto, lo reputava uno stupratore: nessun giudice lo aveva dichiarato colpevole, ma nemmeno innocente, sebbene quello sarebbe stato l’esito probabile del processo penale. Perfino Phil Jackson, all’epoca allenatore dei Lakers, ha svelato:
“La mia percezione di Kobe era mutata nella stagione 2003-2004: provavo rabbia nei suoi confronti, per quello di cui era accusato.”
E con sottigliezza lo riteneva, forse, capace di quel tipo di violenza: Jackson, nel libro The Last Season pubblicato nel 2004, racconta: “Bryant aveva sorprendenti eccessi di collera verso di me o verso i compagni.”
Il sentimento era ampliato dalla traumatica esperienza della figlia di Jackson: sopravvissuta a una violenza sessuale quando era studentessa, aveva sporto denuncia, ritirandola in un secondo momento. Di sicuro le vicissitudini extra-sportive di Bryant contribuirono alla decisione di Jackson di lasciare i Lakers alla fine della stagione 2003/2004.
Se la difesa legale di Bryant cercò di manovrare la narrativa nel campo processuale e mediatico, lui ha avuto il controllo solo sulla propria maturazione di uomo; dare il meglio di sé rappresentava il massimo sforzo per convincere della sua innocenza, e mettersi alle spalle l’immagine di adultero. Semmai, la narrativa è sempre stata in mano alla moglie Vanessa, che gli è rimasta leale durante tutto il percorso.
Un ruolo decisivo per ripulire l’immagine di Bryant l’hanno avuto pure l’Nba, l’organizzazione sportiva di cui era una stella, e gli sponsor: che ripresero a coprirlo d’oro quando la causa civile fu appianata nel 2005.
Phil Jackson, proprio a partire dalla stagione 2005/2006, tornò ad allenare Bryant, guidandolo a una nuova era di trionfi; evidentemente, aveva superato ogni diffidenza.
Ma se alcuni hanno deciso di riabilitare il cestista, altri covavano risentimento; nell’universo femminile, in particolare: molte donne vittime di aggressioni sessuali, vedono in uno come Bryant il simbolo degli uomini che la fanno franca. Quel sorriso non era luminoso, le investiva di un’energia negativa; la sua voce profonda e pastosa suonava ipocrita: grattava su cicatrici ancora sporgenti, nell’animo di donne che non hanno mai avuto giustizia né risarcimento.
E’ l’essenza del #MeToo – #QuellaVoltaChe nella versione italiana; un risveglio della coscienza che ha riaperto ogni ferita individuale, in un rito di massa, per cercare una vera guarigione: dall’umiliazione e dal dolore sopportati in silenzio, o condivisi solo con pochi intimi, o in sedute terapeutiche. Una sofferenza moltiplicata quando le confidenze cadevano nel vuoto; o le denunce si ritorcevano contro la vittima, additata come una “vacca” o una “bugiarda”. Il #MeToo ha ribaltato tutto questo: è stato uno scatto civile contro un sistema sociale che per troppo tempo ha tollerato i predatori; e li ha coperti con una omertà a più livelli: in famiglia (non raramente nella stessa famiglia della vittima), fra gli amici e conoscenti, nella cerchia di colleghi e dipendenti. Una rete del silenzio, se non vera e propria complicità, che poteva intrappolare qualunque donna osasse parlare a conoscenti, superiori, o autorità.
In pieno #MeToo sono finiti sotto accusa centinaia di uomini, esponenti di spettacolo, politica, sport, cultura, stampa, impresa; spesso a una denuncia pubblica contro un singolo, ne seguivano altre contro il medesimo: di donne che si riconoscevano nei racconti di abuso, di molestia, o di stupro. Alcuni casi sono stati riesumati dopo molti anni, e addirittura finiti in tribunale. Un movimento globale che ha portato le donne a manifestare nelle piazze, in una campagna di sensibilizzazione combattuta anche nei parlamenti e sui social media.
E anche Kobe è tornato sotto i riflettori per i fatti del 2003; ma la narrativa era del tutto diversa rispetto a quel periodo, e perfino al 2012. Accanto all’hashtag #MeToo si diffuse anche #BelieveWomen – credere alle donne, sempre. Nel caso specifico di Bryant, l’accusa della 19enne del Colorado era testimonianza di quanto dura fosse la lotta al patriarcato: una semplice concierge si era scontrata contro la macchina legale di una star, pur di smascherare un potenziale stupratore seriale.
Per chi ha un giudizio colpevolista su Bryant, l’elemento peggiore è il dubbio che potesse aver commesso quel tipo di crimine in precedenza: l’ha fatta franca nel luglio 2003, e di conseguenza per tutte le altre volte.
Questo è un altro obiettivo del movimento: neutralizzare l’uomo non solo per un unico atto, ma perché può ripetersi. Vale per lo stupro; ma anche quando i contorni fra molestie e comportamenti leciti restano sfumati. Perché a volte è la serialità, più che l’atto in sé, a essere imperdonabile; anche quando il giudizio di condotta impropria è disputabile.
A oggi si contano una dozzina di uomini fra condannati o indagati per reati di natura sessuale emersi durante il #MeToo; più una mezza dozzina che hanno trovato un accordo in sede civile con le presunte vittime. A centinaia sono stati allontanati dal posto di lavoro; o hanno visto compromessa la loro professionalità a fronte di gravi accuse: in un clima di resa dei conti.
Pur con l’avvento del #MeToo, nessun altra donna si è fatta avanti per denunciare Bryant.
Nel 2018 bastava e avanzava, però, il caso del Colorado affinché la Academy dell’Oscar, dopo massicce proteste, lo escludesse dalla giuria di un festival cinematografico.
“Sono deluso”, ebbe a dire Bryant, “ma continuerò a lavorare nel mondo dell’animazione per dare il mio contributo.”
Da un paio d’anni, insomma, era in corso una campagna, nient’affatto sotterranea, per segnalare Kobe Bryant, una volte per tutte, come un sex-offender – un criminale sessuale.
Bryant e il caso Sonmez-Kaiman
Il tweet di Felicia Sonmez, che in morte di Bryant, implicitamente, gli dava dello stupratore mezzo-reo confesso, non sorprende quindi: in un momento di spontanea commozione e celebrazione del campione, la giornalista del Washington Post, e come lei ad esempio l’attrice Evan Rachel Wood, ha ritenuto necessario deviare la narrativa: quel che conta di Bryant, più dei canestri, è l’accusa di stupro in Colorado; che, come detto, per molti non è affatto presunto.
La reazione contro Sonmez, sui social media, è scattata immediata: in migliaia, uomini e donne scioccati per quella mancanza di pietà, hanno protestato. Il tweet era diventato virale anche a causa di un tam-tam di account trumpiani per vituperare il Washington Post. Alcuni attacchi a Sonmez sono esondati in vere e proprie minacce; che lei ha a sua volta reso pubbliche: vedete, si è difesa, cosa mi sta accadendo solo per aver ricordato di un’accusa credibile di stupro?
Sonmez, quella sera, è stata invitata dalla Direzione del Washington Post a cancellare i tweet: alcuni contenevano dettagli sull’identità di chi la stava aggredendo on-line; il Direttore editoriale Marty Baron l’ha contattata via email:
“Smettila Felicia, la tua mancanza di giudizio sta danneggiando l’istituzione che rappresenti, e il lavoro dei colleghi impegnati sulla notizia.”
Il giorno dopo Sonmez è stata sospesa, oggetto di un’indagine interna relativa alla pubblicazione di indirizzi email privati; in molti, però, l’hanno interpretata come la punizione per il primo tweet su Bryant. Il mondo del giornalismo Usa si è sollevato contro quella che consideravano un’ingiustizia. Il comitato di redazione del Washington Post, in un comunicato, ha chiesto l’immediato reintegro della collega; la quale, è stato sottolineato, è ella stessa sopravvissuta a un’aggressione sessuale. Aggiunto a questo, la scoperta che già nel 2018 la redazione del Washington Post, a livello informale, aveva espresso disaccordo con la Direzione per un invito a Bryant nel quartier generale.
Nel giro di 24 ore, al lutto per Kobe si è accompagnata la solidarietà per tutte le vittime di violenza sessuale che erano costrette ad ascoltare il concerto agiografico riservato alla leggenda Nba. Nel circuito extra-sportivo, il #MeToo e il caso Sonmez sono assurti a vera narrazione intorno alla morte di Bryant; la giornalista, in pratica, era diventava una sua seconda vittima, solo per aver ricordato dell’esistenza di una prima vittima.
Alla Sonmez non è bastato il reintegro: dopo aver filtrato l’email interna del suo capo al New York Times, in un tweet ha chiesto direttamente a Marty Baron di spiegare ai lettori e ai dipendenti del Washington Post come era stata gestita la sua sospensione:
“Perché dire la verità costituirebbe una mancanza di giudizio e un danno?”
Fra le righe, l’insinuazione che il Washington Post volesse censurare il tema della violenza sulle donne perpetrata da uomini in vista e di potere – proprio come accadeva, in generale nell’informazione, nell’era precedente al #MeToo. Un’accusa a quel Marty Baron che al Boston Globe, agli inizi del 2000, portò alla luce l’insabbiamento delle istituzioni sugli abusi dei preti sui minori, impresa raccontata nel film da Oscar Spotlight.
Ma qual’è la verità in questo caso? Che Bryant sia stato accusato di stupro, o che Bryant fosse uno stupratore? La proposizione della prima verità, infatti, ha subito innescato un dibattito sulla seconda, che resta controversa; e questo mentre il suo cadavere, quello di sua figlia e di altre 7 vittime, erano ancora fra le lamiere. La presunta censura, tra l’altro, di una notizia che dallo scoppio del #MeToo rincorreva Bryant un po’ ovunque.
In quasi tutte le eulogie dei media, l’ex Lakers è stato ricordato a tutto tondo: anche per quell’accusa di stupro; e con toni da sentenza. Sulla CBS, la giornalista Gayle King ha quasi costretto la testimonial della WNBA Lisa Leslie a definire Bryant uno stupratore; con Leslie, quasi alle lacrime, a difendere la reputazione del suo amico appena scomparso.
Si è poi materializzato un attacco durissimo alla memoria di Bryant: visto che si considerava un testimonial del basket femminile, avrebbe dovuto dare una piena confessione – e non “mezza”; era quello il vero modo per Kobe di aiutare le giovani ad affermarsi nella società.
Non c’è la contro-prova che quel capitolo della vita di Bryant sarebbe stato sviscerato così in dettaglio senza la polemica appiccata da Sonmez. Di sicuro non sono poche le donne, come Lindsey Granger del Daily Blast, che hanno protestato per il tempismo: “non è stato giornalismo” riesumare lo scandalo prima ancora che si asciugassero le lacrime per l’improvvisa perdita di un uomo – volenti o nolenti – amato da milioni di fan; il cui genuino dolore non può essere sminuito per le deliranti minacce che qualche fuori di testa ha inviato a Sonmez, Wood e poi King.
L’istantanea notorietà di Sonmez, finita nelle cronache insieme a Bryant, ha attirato su di lei un serio scrutinio; e sono emerse interpretazioni discordanti sul suo status di sopravvissuta ad aggressione sessuale.
Si tratta di un episodio risalente al settembre 2017, quando una 34enne Sonmez, ex reporter del Wall Street Journal in cerca di ingaggio, soggiornava a Pechino. Leggendo la sua memoria, durante una festa scambiò effusioni con il 31enne Jonathan Kaiman, capo dell’ufficio di corrispondenza del Los Angeles Times a Pechino; alticcia, si offrì di portarlo a casa in scooter. Durante una sosta Kaiman, anch’egli bevuto, l’avrebbe violata nelle parti intime. Tuttavia Sonmez decise di caricare di nuovo il suo molestatore; e una volta giunti davanti al suo palazzo, Kaiman approfittò ancora di lei. Dopo la seconda aggressione, Sonmez seguì il suo molestatore per sei piani di scale, entrando nell’appartamento di Kaiman: dove si sarebbe trovata a subire rapporti orali e un rapporto completo non protetto.
Come Sonmez ha ammesso nella lettera aperta in cui denunciava gli abusi di Kaiman, i ricordi di quella serata sono confusi per via dell’alcol; ma sin dal giorno dopo macinava la sensazione che qualcosa fosse andato storto.
Il giornalista si è sempre difeso dicendo che il loro flirt si era evoluto in maniera naturale, sfociando in un rapporto consensuale e protetto, in cui Sonmez ebbe parte attiva.
Fra i due ci fu anche un faccia-a-faccia: ammisero entrambi che era stato uno sbaglio – Kaiman era sentimentalmente impegnato all’epoca, e Sonmez ne era al corrente.
L’aspetto problematico è che la denuncia di Sonmez è arrivata quattro mesi dopo, e solo per supportarne un’altra. Nel gennaio 2018, con lo scoppio del #MeToo, Laura Tucker, una studentessa PhD in legge, pubblicò su Medium un pezzo in cui raccontava di un rapporto sessuale completo con “l’amico” Kaiman: in retrospezione, lo giudicava forzato. Nel 2013 i due, dopo una serata alcolica, erano finiti a letto nell’appartamento di lei, dove però Tucker ebbe un ripensamento; fra i due ci fu un dialogo di qualche minuto; la donna esclude comportamenti aggressivi o coercitivi: ma avrebbe deciso di “soddisfare l’uomo” perché era la via più semplice per sbarazzarsi di lui.
In un baleno quel pezzo, introdotto dall’hashtag #MeToo, fece il giro della rete, con il giornalista del Los Angeles Times additato come un molestatore.
Il giorno dopo Sonmez contattò Kaiman per dirgli di aver riconsiderato, in retrospezione, la loro avventura: sentiva di essere stata aggredita sessualmente. Quella accusa atterrò prima anonima durante una riunione del Comitato dei Corrispondenti Stranieri a Pechino (FCCC); aggiunta al pezzo di Tucker, costrinse alle dimissioni Kaiman, che di quel comitato era Presidente. E poi, quattro mesi dopo, fu recapitata in forma di lettera aperta ai 200 membri del FCCC, e al Dipartimento delle Risorse Umane del Los Angeles Times. I superiori di Kaiman aprirono un’indagine interna partendo dalle testimonianze di Sonmez e Tucker; a cui si sommò il ricordo di una collega; la quale raccontò che il giornalista, una volta, le aveva dato un preservativo – una circostanza, per come la contestualizza Kaiman, innocente. Ci volle una seconda indagine, richiesta durante il passaggio di proprietà del giornale, perché Kaiman venisse forzato alle dimissioni: per l’azienda, al di là del merito delle accuse, quel dipendente era diventato un peso e una pubblicità negativa.
L’ex corrispondente del Los Angeles Times venne incluso nelle liste dei predatori smascherati durante il #MeToo: la sua carriera di fatto finì con il pezzo di Tucker, e soprattutto con la lettera aperta di Sonmez; la quale ha sempre giustificato il suo intervento per stigmatizzare un modello di condotta predatorio: di cui lei stessa e Tucker erano state vittime.
Nell’ultimo anno e mezzo Kaiman si è risollevato, espatriando in India; ma ha attraversato una grave forma depressiva con tendenze suicide: nelle settimane successive all’accusa di Sonmez, genitori, fidanzata, amici e psichiatra lo tennero sotto costante sorveglianza. Lo ha ammesso durante un’intervista rilasciata a Ambra Battilana-Gutierrez, nel settembre 2018.
Nel movimento #MeToo quell’intervista a Kaiman venne accolta con stupore: nel 2015 l’italo-filippina Battilana-Gutierrez era stata una delle prime donne a denunciare Harvey Weinstein per molestie. Collaborò attivamente con la polizia per fornire prove audio inequivocabili; che vennero puntualmente insabbiate. Si trovava a New York per rifarsi una carriera: era scappata dall’Italia dopo aver denunciato alle autorità i Bunga Bunga party del Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi; nel “bel Paese”, ormai, il suo nome era sinonimo di escort. Nelle sue intenzioni, Battilana-Gutierrez, stava dando a Kaiman la possibilità di spiegarsi e di scusarsi; e di raccontare come quell’esperienza l’avesse cambiato, sperando che la sua storia potesse ispirare al perdono e alla comprensione.
Il caso è stato ripreso anche da Caitlin Flanagan di The Atlantic per puntualizzare come l’ondata #MeToo abbia travolto uomini colpevoli di condotte improprie, o veri e propri reati; ma nel mazzo di denunce, spesso solo mediatiche, sono state trascinate in piazza anche persone senza particolari colpe; né sul posto di lavoro, né nella dinamica fra uomo-donna. Flanagan ha avuto da dire questo su Felicia Sonmez:
“In un incontro sessuale privato, in un mondo in cui un sacco di donne hanno duramente lottato per avere l’opportunità di incontri privati con uomini senza per questo essere svergognate, possono nascere problemi: soprattutto se entrambi hanno bevuto troppo, o lui dopo non è stato gentile con te. O non ti ha richiamato. In un secondo momento percepisci qualcosa che non è andato come ti aspettavi, e ci soffri; ma questo non fa parte della sfera pubblica. Girare intorno ai tuoi sentimenti, per poi dichiararti vittima di un qualche tipo di abuso sessuale, penso sia una truffa, perché stai derubando le donne che hanno lottato duramente per arrivare a dire la verità sulle aggressioni sessuali.”
Flanagan è stata successivamente attaccata sia da Sonmez, che ne chiesto l’allontanamento da The Atlantic, sia da altre persone che consideravano ragionevoli le accuse pubbliche contro Kaiman.
Sonmez ha chiesto il licenziamento anche di Julia Yoffe, giornalista di Reason, che nell’agosto 2019 ha dipinto Kaiman come vittima di una deriva giustizialista del #MeToo.
Sonmez, per giustificare la richiesta di licenziare le colleghe, ha avuto modo di spiegare: “non posso permettere a nessuno di prendere il controllo della mia storia”.
Sorge il dubbio che Bryant stesso, a poche ore della sua morte, fosse già diventato parte della “storia” di Sonmez.
Il MeToo, il silenzio rotto, e il giusto processo
Il controllo della narrativa, nell’era del #MeToo, risulta fondamentale per i casi individuali: soprattutto per quei “processi” che si celebrano prima – o solo – sulla piazza pubblica; e poi, in caso, in un’azienda o in un tribunale. Se una donna era stata costretta a tacere le molestie per paura di non essere creduta, oggi è l’uomo che deve assumersi le sue responsabilità per le passate azioni. E’ il movimento che offre una rete di protezione attraverso il #BelieveWomen; quando fino a pochi anni fa era il presunto aggressore a godere del silenzio e della complicità.
Nel caso di Kaiman, chiunque lo avesse difeso è stato identificato come un apologeta delle molestie sessuali. Chi, ad esempio, non considera Bryant un colpevole, viene definito “parte del problema”.
Quel controllo è stato esercitato anche sul discorso collettivo, colpendo il principio di preservare la presunzione di innocenza prima di condannare un uomo socialmente; ogni voce fuori dal coro ha ricevuto critiche. Perfino la scrittrice canadese Margareth Atwood, dopo la pubblicazione di Sono una cattiva femminista?, saggio pubblicato nel gennaio 2018, è finita nel mirino.
L’autrice de Il Racconto dell’Ancella – romanzo distopico su una società che schiavizza le donne – è intervenuta sulla necessità del “giusto processo” anche nell’era del #MeToo: se è importante difendere i diritti delle donne, lo è ancor di più difendere i diritti umani in generale; bisogna rigettare i processi sommari, o di massa: sia che avvengano intorno a un falò, come nel ‘600, o attraverso una tastiera, nell’era di internet. La scrittrice, infatti, ha sottolineato come il movimento è nato proprio per una fallacia del sistema legale, nelle istituzioni giuridiche pubbliche e private: le donne non venivano credute, e per questo, nella maggioranza dei casi, non osavano nemmeno esporsi. Ora, grazie anche al potere di internet, questo torto è in via di riparazione; ma l’incarnazione della pubblica piazza in giudice – e la diretta condanna senza un’adeguata difesa – non è accettabile: per correggere un torto, si rischia di generarne altri.
Il saggio della Atwood è stato interpretato come una censura sul diritto delle donne di farsi avanti, e denunciare i molestatori, reali o percepiti come tali; con la conseguenza di tornare a quel silenzio, a quella paura di ritorsioni, che il movimento #MeToo ha rotto e disinnescato.
Per alcuni, la silenziosa paura sarebbe stata allungata di una dozzina d’anni proprio dal caso Bryant; il trattamento riservato alla 19enne, umiliata e screditata durante la fase istruttoria, è passato come un monito per tutte le donne: se vi fate avanti, ne pagherete le conseguenze. Il sistema, insomma, non riuscì a garantire i diritti della presunta vittima.
Questo significa che va trascurato l’altro lato della medaglia? Cioè che il sistema potrebbe aver protetto un innocente? Magari ingiustamente accusato?
Oggi Bryant è ritratto come una persona dal passato “complesso”, con “sfumature” che delineano un’eredità controversa. Chi rimarca la sua colpevolezza, a rigor di logica, trae una conclusione: se ci fosse stata vera giustizia, Kobe avrebbe dovuto essere rinchiuso in un carcere.
E’ un convincimento pur in presenza di un percorso processuale con un inizio e un termine, ed esauritosi senza condanne. “Leave it to that”, le parole di Lisa Leslie: si fermi lì l’accusa, di fronte a quell’esito; che rimane uno strumento credibile per modellare la memoria di Bryant. Tuttavia, ciò che avvenne in quella stanza d’hotel, offrirà sempre spunti di riflessione per approfondire il tema della violenza sulle donne: sia per chi lo riteneva capace di un atto simile, sia per chi no! Kobe no!
di Cristiano Arienti
SUPPORTA UMANISTRANIERI
In copertina: Kobe Bryant – opera di Jorit
Fonti e Link utili
https://www.tmz.com/2020/01/26/kobe-bryant-killed-dead-helicopter-crash-in-calabasas/
What will you do when cultural war comes for you? di Charlie Warzel sul New York Times
https://www.cjr.org/the_media_today/felicia_sonmez_kobe_bryant_washington_post.php
https://www.npr.org/2019/09/01/756564705/perspectives-on-the-metoo-movement (Caitlin Flanagan sul caso Kaiman Sonmez)
https://reason.com/2019/08/23/im-radioactive/ La storia della presunta aggressione a sessuale subita da Felicia Sonmez raccontata dalla parte di Jonathan Kaiman
https://www.dropbox.com/s/mz807yy3tl71qwm/FSonmez20190825.pdf (risposta di Felicia Sonmez a Reason)
https://jezebel.com/emily-yoffe-is-back-on-her-bullshit-heres-what-an-alleg-1837679900 La storia della presunta aggressisone sessuale portata da Jonathan Kaiman raccontata dalla parte di Felicia Sonmez.
http://www.thesmokinggun.com/documents/crime/kobe-bryant-police-interview
https://www.latimes.com/sports/story/2020-01-26/what-happened-kobe-bryant-sexual-assault-case
https://www.csmonitor.com/2003/1022/p02s02-usju.html
https://supreme.findlaw.com/legal-commentary/why-did-kobe-bryants-accuser-stop-cooperating-with-prosecutors.html Perché l’accusa ha fatto cadere l’incriminazione contro Kobe Bryant.
https://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/07491409.2019.1652528 La retorica intorno al Movimento MeToo.
https://www.theglobeandmail.com/opinion/am-i-a-bad-feminist/article37591823/ saggio di
Sexual Misconduct: his side of the story. Intervista a Jonathan Kaiman di Ambra Battilana Gutierrez, la prima donna ad aver denunciato alla polizia Harvey Weinstein.
https://time.com/5274505/metoo-verbal-nonverbal-consent-cosby-schneiderman/ Perche il linguaggio del corpo non può sostituire il consenso verbale