Io, “Nenda” e Lou
Non avessi notato l’intervista a Fernanda Pivano, sulla sua amicizia con Lou Reed, mi sarei perso una delle più belle esibizioni a cui io abbia mai assistito. Avevo già deciso di non comprare il biglietto, ma quella mattina cambio idea dopo aver letto che lei, la traduttrice della beat generation e dei grandi autori americani, lei, amata da Hemingway e amica di tre generazioni di artisti e pensatori, lei, Fernanda Pivano, non avrebbe mancato per nulla al mondo il concerto del newyorkese, in quel febbraio 2006.
Avevo letto dell’arrivo di Reed a Milano mesi prima, interessandomi ai biglietti per i Rolling Stones a San Siro. Nello stesso sito si pubblicizzava la tappa del poliedrico americano, ma non fui travolto dall’entusiasmo. Ancora una volta, il rimpianto di essermi perso le migliori performance della sua carriera prevaleva sulla voglia di assistere a un suo spettacolo. E così lasciai trascorrere il tempo come se ormai mi sentissi segnato dal destino: non avrei mai visto Lou Reed dal vivo; allora troppo giovane io, adesso troppo vecchio lui.
Ma come? E i Rolling Stones allora? Vero, anche le pietre rotolanti, come Reed, hanno passato i sessanta; le loro note presero a vibrare più o meno nello stesso periodo. Li vedo però in modo diverso: una loro esibizione non avrà mai la stessa carica emotiva. E poi gli Stones volano sotto l’ala delle grandi etichette dagli esordi. Lou l’ha scovato Andy Wharol negli scantinati del Queens, quando frustava in faccia ai bevitori “Shiny shiny boots of leather…strike him mistress, and cure his heart“. E intonava la raggelante voce del tossico: “I don’t know just where I’m going…”, fino alla malata confessione: “I have made here a big decision, to nullify my life”, perché l’eroina “è mia moglie, è la mia vita”.
Wharol, alla cui morte Reed comporrà un dolce epitaffio musicale: l’artista biondo disegnò la banana in stile pop-art per la copertina del primo, allucinato album dei Velvet Underground. Altro che le conturbanti labbra rosse fumetto degli Stones, ho sempre pensato: Lou è oltre Jagger e Richards. Lou è…
Lou è eroe, Lou è poeta, è fotografo, è attore; è alcolista e musicista, maledizione e disintossicazione. Ora è tai-chi. Canta ma non è un cantante: stona, è rumore-ruggine la sua voce, se isolata; ma è strumento insostituibile nella sua orchestra rock. Lou è New York: è follia, psichedelia, è psicoanalisi. E’ centro vitale e periferia miserabile. E’ storia marginale e parabola esemplare.
L’amore per la sua città lo dichiara con due viscerali accordi, sulla chitarra solista dolce e amara, e i morbidi tocchi della batteria: “I’m a New York City man, se non mi vuoi attorno io non vorrei stare attorno a te; dì vattene, e quello farò. NYC, quanto ti amo, sbatti gli occhi è me ne sarò andato.”
E Lou è conoscitore dell’esistenza a volte drammatica dell’essere umano: “Just a perfect day, I’m glad I’m spending with you”, intona sulla dolente musica del pianoforte. E ci racconta il giorno di serenità di un uomo condannato a vivere nella colpa; di un individuo che ringrazia l’amica, perché “tu mi fai andare avanti, tanto da pensare di essere un altro, qualcuno buono.”
In un altro iconico brano, dall’altro lato del marciapiede, il rocker mezzo-fallito osserva Jacky, un lavoro in banca, e Jane, commessa in un supermarket, che escono di casa e combattono la loro battaglia quotidiana per vivere dignitosamente. Per il rocker sono “tempi duri”, così tristi da fargli confessare che “la vita è solo morire”; ma prontamente aggiunge che vuole dirci una cosa: davanti al fuoco, la sera, arrangiando quattro accordi rocamboleschi, lui pensa a Jacky e alla dolce Jane, alla loro vita difficile ma felice; e s’ispira, e canta “sweet Jaaaaane, sweet Jaaaane”, e non la smette più.
Lou Reed scrive e interpreta un teatro intimo; attraverso un coro ora lirico ora grottesco, ci parla di vite urbane umili, disgraziate, ma al tempo stesso straordinarie: accomunate dalla sopravvivenza in un mondo in bilico. Vite vissute nella quotidiana follia di New York che qualcuno doveva pur raccontare e testimoniare: come Basquiat, come Auster, come Schlesinger. Per questo Lou Reed affascina autori, registi, artisti: perché leggono nella sua opera un pensiero esistenziale e visionario, tessuto in una città-universo.
Le sue canzoni sono paragonabili a “romanzi brevi”, storie condensate in poche righe, accompagnate da eclettiche sonorità. E non è un caso che il newyorkese e Giorgio Manganelli, capofila indiscusso del genere, abbiano in comune la passione per Edgar Allan Poe, saggio del racconto. Reed ha scritto e musicato liriche ispirate a “Il Corvo”, “La casa degli Usher”, “Ligeia”, e successivamente presentate in un tour mondiale. Lo scrittore italiano ha innalzato Poe con una preziosa traduzione antologica dei suoi racconti.
E proprio lei, la traduttrice che ha portato in Italia alcuni tra i più ispirati autori americani, si dichiara grande estimatrice di Reed, sin dagli esordi della sua carriera. Nell’intervista, “Nenda”, come Lou chiama affettuosamente la Pivano, racconta che si erano incontrati la prima volta nel circolo di artisti messo in piedi da Wharol. Si parla degli anni ’60; da allora non hanno più smesso di sentirsi. L’ottantenne, civettuola, svela che una volta Lou inserì una tappa italiana solo per incontrarla, e dedicarle il concerto.
“No, non posso mancare”, proclama, proprio come una fan adolescente.
Quello stesso pomeriggio compro il biglietto: 60 euro, mai speso tanto per un concerto; “ma non posso mancare!”, mi ripeto, stropicciando il costoso tagliando tra le mani. Ha 64 anni, penso realista, chissà se farà un altro tour, se tornerà in Italia.
Quattro giorni dopo, il 27 febbraio, giungo al Teatro Nazionale di Milano con un paio d’ore d’anticipo. C’è folla, ma non ressa. Tra la gente scorgo una figura magra e allampanata, dall’aria svagata.
“Ivan! Ivan!”, urlo contento come un bimbo. E “l’avvocato”, così noi amici lo chiamiamo, si precipita verso di me e mi abbraccia e mi stringe.
“Lo sapevo!”, dice tremante, “lo sapevo che saresti venuto anche tu!”. Sorrisi, pacche sulle spalle. Mi racconta che lui no, non poteva mancare; che da quando glielo avevo fatto conoscere, Lou Reed era diventato una colonna sonora; e quel concerto lo attendeva da anni.
Andiamo a bere qualcosa nel locale adiacente al teatro. La saletta interna è occupata da una ventina di grossi pezzi d’uomo con braccia tatuate, bandane e jeans sdruciti: è la troupe al seguito del cantante. Tra loro, di fronte a una pinta di birra e una bistecca, quattro che avremmo rivisto di lì a poco sul palco: la band di Reed.
Dentro al teatro l’atmosfera è dinamica: la gente, elettrizzata, lo riempie nell’arco di mezz’ora. L’età di molti spettatori, e le poltroncine in velluto rosso, parlano di gala, più che di un concerto rock. Sul palco, sotto i riflettori puntati, brillano i piatti della batteria e la tastiera del piano; scintillano le corde delle chitarre e del violoncello. Le casse armoniche, lucide e smaltate, sono appoggiate ai sostegni, come eleganti soprammobili. Da là sopra sgorgheranno ritmo, arpeggi, assoli; da qual palco calerà una sinfonia arrembante, struggente, coinvolgente. E lì Lou canterà The day John Kennedy died, suo ricordo di quando i newyorkesi, come accecati, si riversarono nelle strade e balbettavano: John Kennedy è morto…”
Solitario, occupo il mio posto; Ivan è seduto qualche fila più avanti, insieme ad alcuni suoi amici. Saluto le persone a fianco a me, e intanto mi guardo attorno un po’ ansioso: osservo volti, pettinature, abbigliamenti. Bevo acqua, mangio caramelle; ma non riesco a stare fermo: da solo, stento a stemperare l’eccitazione. Mi alzo per fare un giro, e decido di sciacquarmi il viso e la nuca alla toilette.
Attraverso la corsia centrale con falcata metallara, ed entro nella galleria laterale. Proprio in quel momento, in faccia a me, si apre una porta secondaria: appare una vecchina robusta ma tentennante, sorretta da braccia giovani. La riconosco al volo: è “Nenda”. Rallento il passo, fissandola amabilmente; spontaneo, le rivolgo il più bel sorriso che ho: “Buonasera”.
Lei reagisce al mio saluto un poco indecisa; si sofferma, mi misura con i suoi occhi ancora brillanti. Si piantano anche gli aiutanti ai fianchi. Mentre tengo dolce lo sguardo e riaccelero il passo, Fernanda Pivano si scioglie in un sorriso: “Buonasera”, mi dice con un leggero cenno del capo.
Mi piace pensare di aver accolto “Nenda” al concerto del suo amico Lou Reed.
di Cristiano Arienti
Pezzo originariamente scritto nel 2006, e pubblicato nella raccolta “Osservare, percepire, raccontare: l’esperienza della narrazione“, antologia della Scuola “I Fiori Blu” di Antonella Fiori.
In copertina: Fernanda Pivano e Lou Reed