L’unità di misura della ribellione
“E’ stata Fuente Ovejuna”, così urlavano i cittadini di un villaggio contadino nella Spagna del ‘400, Fuente Ovejuna appunto, mentre venivano sottoposti a tortura; i carcerieri del re volevano sapere chi fosse l’esecutore dell’assassinio di Fernan Gomez, il Signore di Cordoba. Nessuno cedette: era stato il villaggio intero a ribellarsi a Gomez; il quale, in precedenza, aveva fatto rapire due sposini sottrattisi alla legge delle “primae noctis”. I giudici, alla fine, decisero di liberare tutti senza avere un nome preciso: “non si può uccidere un intero villaggio”, dissero al Re. Il monarca, nel perdonare i cittadini di Fuente Ovejuna, andò oltre: riconobbe la forza della giustizia popolare, espressione della solidarietà di fronte ai torti e all’oppressione.
Questa piéce teatrale, basata su un fatto realmente accaduto, è stata pubblicata da Lope de Vega nel 1619: da allora rimane una pietra miliare nel rapporto fra l’ingiustizia e il moto rivoluzionario; e le conseguenze, etiche e giuridiche, della ribellione collettiva di fronte a un’autorità degenerata. Un parallelo con Fuente Ovejuna è l’assassinio del dittatore libico Muhammar Gheddafi – fra tanti crimini a lui ascritti, c’era il sequestro di decine di ragazze per il suo harem: sopravvissuto a un bombardamento Nato, catturato e freddato sul posto; per i responsabili del linciaggio non ci furono concreti strascichi penali, sfumati nella narrazione dei “ribelli che hanno ucciso il tiranno”.
Si contano innumerevoli sollevazioni popolari armate; la più famosa è la Rivoluzione Francese, che si prefiggeva di abbattere il sistema monarchico feudale, e puntava a principi altissimi: libertà, fraternità, uguaglianza. La lotta, nelle fasi più cruente, si trascinò con esecuzioni di massa e bagni di sangue perfino all’interno del fronte rivoluzionario.
La Francia contemporanea, pur in un cammino di progresso, si pone in continuità con l’esperienza di quella I Repubblica: si tramanda la portata di quegli ideali; nel nome dei quali furono liquidati uomini e donne colpevoli solo di appartenere all’aristocrazia, o a una corrente politica rivale.
Storicamente, popoli o gruppi sociali, fanno ricorso anche alla forza per abbattere un sistema ingiusto: la scelgono come mezzo necessario per rompere le catene dell’oppressione; e purtroppo, anche gli innocenti vengono investiti dalla furia che, in casi simili, si propaga come un incendio.
Generalizzando: se si isola un atto violento, gli autori vanno messi a giudizio, per capire se abbiano compiuto un crimine; se lo si contestualizza all’interno di una ribellione, contro un “nemico”, il medesimo atto, di solito, viene visto sotto un’ottica diversa.
Qualsiasi tribunale condannerebbe degli uomini che bloccano un veicolo in mezzo alla strada, e cominciano a sparare contro i passeggeri. Tuttavia è difficile delegittimare un’azione simile, quando l’obiettivo si chiama Heinrich Heydrich: l’attentato al gerarca nazista venne condotto nel 1942, nella Cecoslovacchia occupata. Il Vice-Comandante delle SS fu uno dei principali pianificatori della Soluzione Finale, ovvero l’eliminazione di tutti gli ebrei e, per estensione, di qualsiasi opposizione al Terzo Reich. Le conseguenze dell’attentato furono atroci: Praga fu messa a ferro e fuoco. Diversamente dalla monarchia spagnola del XV secolo, i nazisti decisero di incenerire il villaggio di Lidice; sospettavano, a torto, che gli attentatori, lì, avessero trovato assistenza; se gli abitanti di Fuente Ovejuna furono risparmiati, a Lidice uomini e ragazzi furono trucidati, e donne e bambini deportati. Solo per questo, non ci sono dubbi su quanto fosse degenerata l’autorità in Cecoslovacchia, e ovunque i nazisti governassero; quindi, anche nell’Italia repubblichina occupata dalle truppe di Hitler.
Viene spontaneo, perciò, giustificare la sollevazione popolare al nazi-fascismo, e contestualizzare, ad esempio, l’attentato di via Rasella, Roma, nel 1944. Condotto dai GAP (Gruppi di Azione Patriottica) – una formazione comunista – lasciò a terra 33 soldati in uniforme nazista, e due civili innocenti; e provocò, come rappresaglia, i 335 martiri delle Fosse Ardeatine. La lotta armata partigiana è indicata come Resistenza, e ogni 25 Aprile si celebra la Liberazione da un invasore; ma anche da una ventennale dittatura.
Come in Fuente Ovejuna il linciaggio di un tiranno diventa simbolo della ribellione contro l’Ingiustizia, nel Partigiano Johnny di Beppe Fenoglio, opera miliare sulla Resistenza, la lotta al nazi-fascismo assume toni epici. Anche l’esecuzione sommaria di una spia – una decisione da “vita o morte” – rientra quindi nella logica della ribellione contro il Male. Nel romanzo autobiografico, il “partigiano”:
“si sente investito in nome dell’autentico popolo d’Italia ad opporsi in ogni modo al fascismo, a giudicare, e a decidere militarmente e civilmente. Era inebriante tanta somma di potere, ma infinitamente più inebriante la coscienza dell’uso legittimo che ne avrebbe fatto”
Questo passo fa da cornice ideale a Morte di un uomo felice, di Giorgio Fontana. Ambientato sia negli Anni di Piombo che durante la Resistenza, il romanzo è incentrato sulla figura di Giacomo Colnaghi, un giudice impegnato nella lotta al terrorismo rosso; il cui il padre era morto partigiano durante la Guerra di Liberazione. Con gli strumenti della legge, e il faro della Costituzione, Colnaghi si misura contro chi, nel nome della giustizia sociale, si è armato per sovvertire lo Stato; uomini e donne che, come il personaggio di Fenoglio, si sentivano investiti da un mandato popolare per colpire i vertici del sistema capitalista e “imperialista”.
Una lotta armata che per i “terroristi” – storicamente i GAP (Gruppo d’Azione Partigiana) di Giangiacomo Feltrinelli – trovava ispirazione anche nei valori traditi della Resistenza; quelli, nello specifico, delle formazioni comuniste. Proprio Fenoglio era salito sulle colline unendosi a una brigata rossa (“I’m in the wrong sector of the right side“); e nel Partigiano Johnny tratteggiò i commissari politici: il loro obiettivo, nel pieno della guerra di Liberazione, era la rivoluzione del proletariato.
In Morte di un uomo felice, a un certo punto Colnaghi sveste i panni del giudice, si confronta apertamente con uno dei “terroristi”, un ventenne accusato di omicidio:
voi non siete partigiani, e oggi l’Italia non è oppressa dai nazi-fascisti!
E’ il 1981, il Paese sta reggendo a fatica alla violenza degli Anni di Piombo: è passato indenne dal fallito golpe del fascista Junio Valerio Borghese; è sopravvissuto allo stragismo nero e alla strategia della tensione; e sta uscendo dalla traumatica morte di Aldo Moro, Presidente della Democrazia Cristiana. Il sistema democratico ha evitato il collasso in una dittatura di stampo sudamericano; ma gli assassinii a sangue freddo, proprio all’inizio degli anni ’80, andavano intensificandosi.
Giacomo Colnaghi, con alle spalle un padre immolatosi durante la Resistenza, smaschera gli ideali con cui il giovane si riempie la bocca:
dietro di te, dietro di voi, non c’è nessun popolo.
La condanna morale è durissima: quei ragazzi, con la scelta della lotta armata, rappresentavano solo se stessi: la loro esperienza si esauriva nel sangue delle vittime ammazzate per strada. Non si salva nessuna delle rivendicazioni politiche che, successivamente, sono state proposte per spiegare l’eversione rossa. Ad esempio, la lotta armata come reazione alla strage di Piazza Fontana, 17 morti e quasi 100 feriti. Quel 12 dicembre 1969, lungo la penisola, gli attentati eversivi, ma in odore di servizi segreti deviati, furono cinque. Un giorno che, come spiega l’ex brigatista Susanna Ronconi, si stagliò come uno spartiacque: lei e altri, per avanzare le istanze del proletariato, erano disposti ad abbandonare la via democratica.
Nel romanzo di Giorgio Fontana quell’episodio viene messo sulla bilancia della Storia; ma non sposta di un millimetro il giudizio su chi combatteva una guerra clandestina a senso unico: falcidiando politici e forze dell’ordine che lavoravano secondo una logica di pace; e perfino uomini indifesi: come magistrati, industriali, giornalisti, docenti, sindacalisti.
Nell’impianto speculare di Morte di un uomo felice, chi si ribellava all’autorità, fra il 1943-45, era nel giusto; negli anni ’70-’80, lo era chi difendeva l’autorità precostituita, e i “ribelli” erano dalla parte del torto. I “banditi”, così i nazi-fascisti chiamavano i partigiani, sono diventati padri fondatori; chi si armava ispirandosi alle rivoluzioni di Lenin, Mao e Castro, a loro volta padri fondatori, è additato come un “terrorista”.
Un termine contestato, ad esempio, dallo scrittore Erri De Luca; per lui quella stagione va intesa come una guerra civile. Il personaggio di Giacomo Colnaghi, in questa ottica, si confronterebbe non con un giovane diventato assassino perché abbagliato dall’ideologia, ma con un rivoluzionario; simile a tanti, sparsi nel mondo, che dal dopo-guerra combattevano in nome del marxismo e del comunismo.
Giorgio Fontana non era ancora nato quando Erri De Luca militava in Lotta Continua, formazione in cui transitarono persone che poi scelsero la lotta armata. Sarebbe ingeneroso dare troppo peso all’età dello scrittore varesino, visto il meticoloso lavoro di ricerca e documentazione per Morte di un uomo felice. Sarebbe troppo semplicistico, però, valutare l’analisi di De Luca come l’auto-assoluzione di una generazione; l’autore partenopeo pone una questione: le ragioni di chi si ribellò negli anni ’70-’80 vanno contestualizzate; e non solo relativamente a quell’epoca, ma in tutto l’arco del ‘900. Il riferimento è alla Rivoluzione in Russia, del 1917, e all’instaurazione del socialismo sovietico; allargatosi nel post-II Guerra Mondiale. Un sistema liberticida crollato nel 1989; due anni dopo la fine dell’eversione comunista in Italia, come proclamarono i capi storici delle Brigate Rosse.
Il riferimento, però, è anche alle dittature fasciste in varie parti del mondo, appoggiate dagli Stati Uniti; e ai piani “Stay-Behind”, strutture segrete all’interno dei regimi democratici occidentali, nate per contrastare l’ascesa dei partiti comunisti. Quei servizi segreti deviati, insomma, che in Italia hanno praticato la strategia della tensione. Decadi di depistaggi confermano il sospetto che ci sia il loro zampino – oltre la mano di “terroristi” neri – nella strage di Piazza Fontana; o quelle dell’Italicus e Piazza della Loggia, del 1974, in cui morirono 20 innocenti; o la strage di Bologna, del 1980, in cui le vittime furono 85.
La posizione di De Luca può turbare: ma non può essere scansata facendo leva solo sugli aspetti umani di quella stagione; o lo svelamento, a posteriori, del naufragio ideologico del Comunismo. La questione va al di là perfino della giustizia: i colpevoli dei delitti di matrice “terroristica” sono stati quasi tutti arrestati e condannati; hanno pagato il conto con l’Italia, un Paese, quindi, democratico; che però, in segreto, non rinunciò alla tortura pur di smantellare l’eversione rossa; un capitolo ulteriore che, accennato nel romanzo di Giorgio Fontana, si accorda con la tesi di una “guerra civile”.
Un conflitto sul quale ogni cittadino è stato costretto a riflettere, e schierarsi. Anche e soprattutto così i “terroristi” sono stati neutralizzati: con il progressivo isolamento nelle fabbriche; proprio il “popolo” che, secondo il Colnaghi, mancava alle spalle del giovane “terrorista”.
Dopo l’omicidio del sindacalista Guido Rossa, nel 1979, quasi tutti avevano definitivamente respinto le ragioni dei “ribelli”.
Quella “guerra”, come concordano protagonisti dell’epoca e storici, era segnata già dall’anno prima, con la strage di via Fani: un commando bloccò in mezzo alla strada due veicoli, e cominciò a sparare contro i passeggeri; dopo aver ucciso 5 agenti di scorta, sequestrò Aldo Moro, l’obiettivo dell’agguato. All’ex Presidente del Consiglio venne riservato lo stesso destino di Heydrich; il Vice-Comandante delle SS, al giorno dell’attentato, stava macellando mezza Europa, e pianificando l’Olocausto; Moro, invece, stava portando avanti la politica del Compromesso Storico con il Partito Comunista di Enrico Berlinguer: pacificare il panorama politico italiano.
Se i resistenti cecoslovacchi, nel compiere la loro missione, si identificavano con le vittime dell’oppressione nazi-fascista, con chi si identificavano i “terroristi” che tennero murato Moro per 55 giorni, per poi assassinarlo a sangue freddo?
Qualcuno ha provato a leggere dentro quelle coscienze; come Marco Bellocchio, nel film Buongiorno Notte, tratto liberamente da Il Prigioniero, dell’ex brigatista Anna Laura Braghetti. Davanti agli occhi del personaggio di Chiara, con l’approssimarsi dell’esecuzione di Moro, scorrono le fucilazioni dei partigiani: la carceriera del popolo associa se stessa e i suoi compagni a degli oppressori.
Anche spostando il terreno sulla parabola politica del ‘900, la coscienza individuale rimane un canale necessario per motivare un atto di ribellione. Soprattutto se rivolto, nella sua più estrema violenza, contro un uomo indifeso.
In Morte di un uomo felice si racconta l’iniziazione civile e politica di Ernesto, padre del giudice Colnaghi; in fabbrica condivide le rivendicazioni del proletariato perché sogna un futuro migliore per sé e i suoi figli. Ha sempre e solo vissuto sotto il fascismo, come il Johnny di Fenoglio; entrambi, per cultura uno, per istinto l’altro, ne comprendono la natura oppressiva: a maggior ragione da quando l’Italia repubblichina si trova sotto l’occupazione tedesca. L’autorità richiama Johnny a combattere a fianco dei nazisti, pena la deportazione in Germania: sale in collina perché non scorge alternative. Ernesto si ritrova i soldati in fabbrica, che sciolgono i rinati capannelli sindacali: quando gli chiedono di partecipare alla resistenza, aderisce perché non vede altre vie per realizzare quel futuro sognato.
Per loro la scelta di ribellarsi, prima che ideologica, è personale: perché subiscono la minaccia fisica da un’autorità degenerata; che aveva preso il potere con la violenza, e instaurato una dittatura. E’ il loro spazio vitale a essere invaso nella libertà di movimento, e fin nell’intimità del pensiero.
E’ una molla differente rispetto alla ribellione contro l’ingiustizia sociale che affliggeva la penisola negli anni ’60 e ’70; ingigantita, se paragonata ai “paradisi” egalitari, come erano visti allora, dell’Unione Sovietica e dei Paesi dell’est, o della Cina e Cuba; ma l’Italia era pur sempre munita di una Costituzione varata dai vincitori sul nazi-fascismo: ai futuri “rivoluzionari”, prima di entrare in clandestinità, i diritti fondamentali erano garantiti. E sono proprio loro che, gambizzando e assassinando, limitavano la libertà di movimento, e seminavano dubbi sulla convivenza democratica.
La negazione dei diritti umani e civili non è mai stata, e forse mai lo sarà, l’unica discriminante per la ribellione: lo spettro di ideali per cui vale la pena lottare è ampio. Però questo metro di giudizio aiuta a discernere le ragioni di chi ricorre alla forza per abbattere un’autorità percepita come ingiusta: se la percezione è sulla propria pelle, la necessità di abbattere il sistema è più accettabile. Se la visione di un’autorità degenerata è principalmente frutto di proiezioni ideologiche, lo stesso tentativo è molto meno condivisibile; e con il tempo, universalmente condannato.
Gli abitanti di Fuente Ovejuna si ribellarono al “drago”, e trovarono comprensione in chi doveva giudicarli; i partigiani, pur con la minaccia nazi-fascista, incontrarono solidarietà in collina e in città; i “rivoluzionari” degli anni ’70-’80, con la loro strategia del “terrore”, si fecero il vuoto intorno.
di Cristiano Arienti
Un ringraziamento al Gruppo di Lettura di Porta Venezia
In copertina: Rappresentazione di Fuente Ovejuna, della Compagnia Antonio Gades.
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