“Sangue Giusto” e la memoria sbagliata degli italiani

Sapevo che l’esercito italiano in Abissinia, negli anni ’30, aveva commesso atrocità; come l’uso di gas tossici, banditi dopo la I Guerra Mondiale. Tuttavia, leggendo Sangue Giusto, il romanzo di Francesca Melandri, ho dovuto ammettere: la mia conoscenza è poco più che didascalica; mi mancava un immaginario della pioggia di iprite sui guerrieri, e una geografia. La carneficina peggiore avvenne sull’altopiano dell’Amba Aradam, nel 1936, un nome non nuovo, ma non che non collegavo all’Abissinia; e infatti, fra le pagine del romanzo, la rivelazione: da quel massacro si è evoluta la crasi “ambaradan”, con cui si descrive una baraonda, qualcosa di caotico. Quel termine, che utilizzo spesso, fa riferimento a un campo di morte: centinaia di italiani vi persero la vita, e in 20.000 etiopi perirono fra gli spasmi.

Dopo quella rivelazione, nella mia testa è suonato l’allarme; una ventina di anni fa scrissi un racconto lungo: e mi pareva che il nome appioppato a un locale frequentato dai personaggi fosse proprio “Ambaradà” – cacofonia di “Baraonda”, locale frequentato da me.

Lo sconcerto: possibile che mi fosse sfuggita l’etimologia di quel termine? Radicato in uno dei recessi della nostra storia? Chiamando un luogo di divertimento con la toponomastica di una battaglia che ancora oggi in Etiopia suscita orrore?

Invece il locale nel racconto, controllando, si chiamava Andarabà. La scoperta mi ha dato un minimo di sollievo, ma rimane un fatto: sapevo poco dell’occupazione italiana in Africa. Dalla Libia all’Eritrea, dalla Somalia all’Etiopia: noi italiani abbiamo portato sofferenza in quelle terre, per assurgere allo status di Paese colonialista; per poi, sotto la dittatura di Benito Mussolini, ricostituire l’impero millenario di Roma.

Non ci siamo riusciti; quell’idea è crollata con il fascismo, insieme a mezzo pianeta, durante la II Guerra Mondiale. E come tramandarlo meglio dell’incipit di Sangue Giusto?

“Il più alto dei colli fatali di Roma, l’Esquilino, odora di kebab, kimchi, masala dose”

Rievocazione in chiave beffarda del discorso di Mussolini del 9 maggio 1936, quando dal balcone di Palazzo Venezia proclamò la rinascita dell’Impero.

A partire da quelle prime pagine, il lettore viene accompagnato nel passato di quando gli italiani non erano solo “brava gente”, ma sterminatori di innocenti, e ideologici dell’apartheid più razzista. Come i nazisti; dai quali ci siamo estraniati perché durante l’occupazione dal ’43 al ’45 – come ha spiegato la Melandri  – nacquero due figure in cui identificarsi: le vittime di guerra, e gli eroi della Resistenza.

Però il ricordo di quel passato scomodo a volte ritorna; soprattutto se tuo nonno era stato nel Corno d’Africa, là come cuoco. Il nonno più buono del mondo, il quale spesso ti ripeteva, a te bambino: “la guéra i ghi è ‘na bruta ròbia”.

Un monito assoluto. E da adolescente, era troppo tardi per le domande a un anziano malato che di guerre ne aveva vissute due. Nella prima, aveva perso l’amato fratello maggiore. Nella seconda era nella Germania assediata, lì come bracciante, mentre la moglie e la bimba sopravvivevano nel nord-Italia bombardato dagli Alleati; dato per disperso, tornò lungo la rotta ferroviaria descritta ne La Tregua di Primo Levi.

Anche Ilaria Profeti, uno dei personaggi di Sangue Giusto, si troverà in una situazione simile; solo che lei non sapeva nemmeno che suo padre fosse stato in Abissinia; lo scopre quando alla porta di casa si presenta un giovane etiope, Shimeta Ietgmeta Attilaprofeti, il quale afferma: “Attilio Profeti è mio nonno, e tu sei mia zia.”

Ilaria quindi si mette alla ricerca della verità: non solo sull’identità di Shimeta Ietmgeta, ma di un passato familiare e collettivo nascosto, rimosso; di cui il padre, in demenza senile, non può rispondere.

Ecco quindi che iniziano due viaggi di andata e ritorno, su due binari che si incrociano nella persona di Attilio Profeti; come se fosse un “cuore”, il meccanismo più delicato del deviatoio ferroviario. Immagine simbolica nel romanzo, visto che il padre di Attilio era un capo-stazione; e sui binari di Lugo Romagna vide passare i reduci della I Guerra Mondiale, e osservò in azione le prime camice nere; salutò i figli, uno partito per l’Abissinia, l’altro per la II Guerra Mondiale; e cercò di aiutare gli ebrei sulle carrozze piombate destinate ad Auschwitz.

Il primo viaggio è geografico: seguiamo Shimeta Ietmgeta lungo le vie della migrazione, percorse da migliaia di migranti negli ultimi decenni: pur di scappare da guerre e dittature, o da fame e miseria, decidono di attraversare il deserto e l’acqua che li separa dall’Europa. E’ il percorso intrapreso 70 anni prima  da Attilio Profeti, camicia nera al seguito del suo idolo, il Maresciallo Rodolfo Graziani; poi noto come il macellaio della Cirenaica e dell’Abissinia.

Il secondo viaggio è cronologico: Ilaria ripercorre i meandri dell’ultimo secolo, per capire come è stata possibile questa rimozione paterna e collettiva di un passato così atroce, quando piantammo campi di concentramento dove la morte sopraggiungeva per esecuzione o per inedia. O quando gli italiani si macchiavano di rappresaglie paragonabili all’annientamento di Lidice, in Boemia, dopo l’attentato al gerarca nazista Reinhard Heydrich; è quello che avvenne ad Addis Abeba dopo l’attentato al Viceré Graziani: dal letto d’ospedale diede l’ordine di trucidare la popolazione inerme.

Insieme a Ilaria, scopriamo che Graziani non venne mai processato per i crimini di guerra perpetrati in Africa. Leggendo il romanzo, comprendiamo il torto profondo di quell’immunità. Le Nazioni Unite non si scomodarono a processare dei bianchi per rendere giustizia a dei neri; invisibile ossequio a un razzismo che nel dopo-guerra divideva ancora la società dei Paesi vincitori.

Ed è in epoca fascista, in quelle colonie lontane nella geografia e nel tempo, che scatta lo scambio dei binari della storia. Molti migranti vengono da Somalia, Eritrea, ed Etiopia; e cercano di raggiungere l’Italia salpando dalla Libia. E’ la miserabile eredità politica di quelle imprese coloniali; e se l’Italia ha sempre cercato di rimuoverne gli aspetti più criminosi, non può però cancellare la memoria che quelle popolazioni hanno di noi.

E c’è voluto il Colonnello Mohammar Gheddafi a ricordarcelo platealmente, quando nel 2010 atterrò a Roma: sul bavero dell’uniforme aveva cucita la fotografia di Omar Al Mukthar, eroe della resistenza libica, impiccato da Graziani nel 1931. In Sangue Giusto il presente narrativo è incentrato proprio sul viaggio del dittatore africano; con cui, sia con il Governo Prodi che con Berlusconi, l’Italia stipulava accordi, anche per bloccare i flussi migratori via mare. E non era così rilevante se in Libia i giovani come Shimeta venivano – e vengono – trattati peggio degli animali; un altro tentativo di rimozione collettiva, che coinvolge l’Europa intera.

Anche su questo fenomeno Ilaria, insegnante che fino all’arrivo del nipote etiope si pensava informata e progressista, è costretta a un esame di coscienza; e ad ammettere di non aver mai voluto approfondire il passato del suo Paese, prima che quello del padre.

In fondo ad Attilio Profeti era bastato mentire sull’aderenza al fascismo; stracciata la tessera del partito, aveva perseguito la sua personale felicità, attraversando altre pagine contraddittorie del nostro Paese: come la cooperazione italiana in Etiopia – in affari con il sanguinario regime comunista del Derg.

La lezione di Ilaria è parallela a quella appresa dall’autrice stessa: solo attraverso la ricerca documentaria la Melandri ha scoperto gli anni da camicia nera, e assertore del razzismo, di suo padre Franco Melandri.

Nel libro, come nella realtà, la rimozione di quel passato familiare e collettivo, è avvenuta in maniera quasi fisiologica:

“L’Italia era un ex alcolizzato che, come ogni nuovo adepto alla sobrietà, non voleva essere confuso con il comportamento tenuto durante l’ultima, tragica sbronza.”

Perfino i padri nobili della patria, come Primo Levi, inconsapevolmente si prestavano a questa rimozione. In una intervista televisiva degli anni ’60, l’autore di Se questo è un uomo ha affermato, a proposito dell’attenuarsi del ricordo di Auschwitz in Italia:

 “Il nazismo è la metastasi di un tumore nato in Italia. […] Io non posso dimenticare per ragioni personali; ma vorrei gli altri sapessero, che gli altri ricordassero: Auschwitz è la realizzazione del fascismo, era il fascismo completato; la Germania aveva quel che all’Italia mancava, il suo coronamento”

In realtà, i campi di concentramento e di sterminio su base etnica, in Cirenaica o nel Corno d’Africa, l’Italia li aveva saputi organizzare ben prima di Auschwitz – pur con le dovute proporzioni. Ma già 30 anni dopo, quei fatti appartenevano ai recessi della memoria, l’antro in cui si radicò la crasi “ambaradan” per definire una baraonda.

E in Sangue Giusto seguiamo proprio le vicende caotiche di Attilio Profeti, dall’altopiano dell’Amba Aradam, fino al picaresco ritorno ad Addis Abeba, quarant’anni dopo; pagine di abissi, alternate a passi da commedia all’italiana. E’ uno dei pregi di questo romanzo: l’autrice ci illustra quel passato con voce comprensiva e leggera, come un boccaglio per osservarne l’oscurità dalla sicura superficie del presente. Con un obiettivo dichiarato: per andare avanti nella giusta direzione, non ci si può basare su una memoria sbagliata.

Un presente, però, che per troppe persone resta l’abisso da cui riemergere; come descritto in uno dei passaggi più intensi di Sangue Giusto, quando Shimeta Ietmgeta giace abbandonato in un’oasi del deserto:

“Lì certe notti, quando la fame artigliava meno la pancia, perché la donna pietosa gli aveva lanciato un brandello di carne, come si fa con i cani, il ragazzo steso sulla sabbia guardava le stelle. Gli sembrava di vederne il movimento, la corsa folle attraverso l’eternità. L’avanzare, quindi, del tempo. Non quello umano, però, di chi ardendo conta i giorni, le settimane, i mesi che mancano alla sua meta. Semmai, un tempo da stranded, di chi sta rinunciando, pezzo a pezzo, ai desideri che tengono insieme la sua natura umana. Uno scorrere pericoloso – questo il ragazzo lo capiva – perché talmente perfetto da renderlo, in quei momenti, indifferente al proprio morire. Sempre un tempo, però: una cosmica, inarrestabile marcia alla quale tutto, compreso lui stesso sdraiato a occhi sbarrati, partecipava.”

Parole che potrebbe aver scritto Primo Levi. E invece sono di Francesca Melandri, per un’opera che si tramanderà.

di Cristiano Arienti

Interviste a Francesca Melandri

https://www.raiplayradio.it/audio/2017/09/Il-libro-del-giorno-del-28092017-9d7828c1-26ec-4873-8b7e-a326eeaa488c.html

https://www1.wdr.de/radio/cosmo/programm/sendungen/radio-colonia/pagine-scelte/sangue-giusto-francesca-melandri-100.html

http://www.letteratura.rai.it/articoli/francesca-melandri-sangue-giusto/38519/default.aspx

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