I torturatori di Stato del nuovo millennio
“Sono crudeli, sono cattivi, temo che sia morto”. E’ l’urlo di Grace Meng, lanciato attraverso la BBC, per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla sorte del marito Hongwei Meng. Presidente dell’Interpol (Organizzazione Internazionale della Polizia Criminale), già Vice-Ministro per la Sicurezza in Cina, Meng è scomparso nel suo Paese lo scorso 25 settembre; a rapirlo, però, non è stata una banda criminale, ma il Governo di Pechino, come ammesso in un comunicato del 7 ottobre, e solo dopo forti pressioni. Meng, è stato fatto sapere, ha rassegnato le dimissioni dall’Interpol; ed è in custodia della National Supervisory Committee, un organo poliziesco incaricato di indagare i sospettati di corruzione.
Nonostante avesse un ruolo internazionale di prestigio, Hongwey Meng non ha evitato il buco nero del Liuzhi, sistema disciplinare in vigore dal 2017. Come il precedente metodo, lo Shanggui, anche il Liuzhi è parallelo al sistema giudiziario: i membri del Partito Comunista, o uomini delle istituzioni, se sospettati di qualche reato, possono essere soggetti a una sparizione di 3 mesi, più altri tre dopo una revisione del caso da parte della National Supervisory Committee. Per capirci, il patron dell’Inter Zhang Jindong, lealista del Partito Comunista Cinese e fino al 2018 con ruoli nella Conferenza della Consulta Politica, potrebbe essere perseguitato, qualora cadesse in disgrazia agli occhi del Presidente cinese Xi Jinping. Una eventualità remota, visto che Zhang guida un impero economico, ma non impossibile.
Nel 2014 l’ex Capo della Sicurezza interna Zhou Yongkang, insieme a 300 persone tra familiari e associati, è stato sottoposto a Shanggui: dopo l’arresto e la condanna all’ergastolo, gli sono stati requisiti beni e finanze per 14 miliardi di dollari. Fra il 2007 e il 2012, come plenipotenziario della Sicurezza Interna, era proprio Zhou Yongkang a gestire il sistema disciplinare. Nello Shanggui il sospetto veniva prelevato a forza e allontanato dalla famiglia, e restava senza accesso legale per un tempo indefinito. Di solito riemergeva in superficie da reo confesso; ammissioni che, come documentano vari rapporti di Human Right Watch, spesso erano estorte attraverso trattamenti crudeli, degradanti e inumani. E’ tortura, secondo la definizione della Convenzione Internazionale stabilita nel 1984, ed entrata in vigore tre anni dopo; e la Cina è firmataria del trattato, l’ha ratificato.
Il Governo cinese ha deciso di riformare il sistema per levarsi la fama di torturare sospetti criminali, sbattuti fuori da qualsiasi tutela giudiziaria. Tuttavia, nonostante l’impegno a un miglior monitoraggio, si teme che pure con il Liuzhi Pechino pratichi trattamenti violenti. Lo constata l’organizzazione RDSL Monitor, che aggiorna sulle “sparizioni” governative in Cina; pubblicato lo scorso agosto, il Rapporto rinnova l’accusa di abusi sistemici.
Lo scorso maggio l’autista di un leader comunista locale è stato rapito dalla polizia, per poi essere riconsegnato cadavere alla famiglia quattro settimane dopo; sul corpo, i segni delle percosse. Similitudini con il caso italiano di Stefano Cucchi, il giovane che nel 2009 venne processato per direttissima per detenzione e spaccio di droga, e offerto alla famiglia, pochi giorni dopo, in una camera mortuaria. A quasi 10 anni da quella morte, stanno saltando fuori le prime ammissioni: il decesso di Cucchi, molto probabilmente, fu causato da una violenta aggressione di due carabinieri. C’era voluta un’opera di depistaggio da parte di ufficiali di alto grado per coprire i colpevoli; ora tutte le persone coinvolte rischiano pene severe.
In Cina questo tipo di abuso, che segna psicologicamente e fisicamente i detenuti, rasenta la politica di Stato.
I metodi polizieschi, in un Paese impegnato a sorvegliare 1 miliardo e 300 milioni di persone, sono sempre stati utilizzati anche su chi manifesta dissenso verso il regime: in forma civica, politica, giornalistica, e perfino artistica. Il dissidente più noto degli ultimi anni era forse il letterato e attivista Liu Xiabo; nel 2008, anno delle Olimpiadi di Pechino, Xiaobo lanciò Charta ’08, manifesto inneggiante a maggiori libertà civili e politiche. L’iniziativa venne punita con lo Shanggui; l’attivista sparì, tenuto segregato anche dopo l’assegnazione del Premio Nobel per la Pace, nel 2010. Quando la moglie e poetessa Liu Xia annunciò che avrebbe comunicato la notizia al marito, venne posta agli arresti domiciliari. Liu Xia è stata liberata solo nel 2017; dopo la morte per cancro di Liu Xiaobo, spirato su un letto d’ospedale da prigioniero politico.
In Cina vengono colpite anche intere etnie. Come gli Uiguri, turcofoni e islamici nella provincia dello Xinjian, sui quali pende, indiscriminatamente, il sospetto di radicalizzazione; in 120.000 sarebbero in “campi di rieducazione“: cavie di un lavaggio di identità per essere assimilati al sistema comunista cinese. Operazioni del genere sono condotte da decenni anche in Tibet, attraversato da moti di indipendenza – il più recente quello del 2008. In un rapporto di Human Right Watch del 2010, si ricostruiva il sanguinoso intervento dell’esercito di Pechino, a cui seguì l’internamento in campi di rieducazione per migliaia di buddisti; su cui calarono abusi e torture documentati da almeno 200 testimonianze. La repressione, come riporta Human Right Watch, è tutt’ora in corso e mira a smantellare gruppi simpatizzanti con il Dalai Lama e altri leader in esilio.
Il caso cinese è emblematico di come la tortura sia funzionale ai regimi dittatoriali, o autoritari, per reprimere il dissenso; specialmente in territori dove fermentano movimenti separatisti, pacifici o ribelli che siano.
La Russia, ad esempio, implementò i “filtration camps” sia nella Prima Guerra Cecena (1994-1996) che nella seconda (1999-2009). Si tratta di un metodo di incarcerazione arbitraria, privo di motivazioni se non l’appartenenza etnica: degli innocenti vengono rinchiusi e tormentati; l’obiettivo è consolidare una rete di informatori per contrastare i separatisti: il cittadino, una volta liberato, è disposto a praticare la delazione pur di non rivivere l’esperienza traumatica della prigione.
Anche la Russia è firmataria della Convenzione contro la Tortura; tuttavia è noto il duro trattamento riservato a chi contesta il regime autocratico del Presidente Putin. Tralasciando gli omicidi di oppositori politici, come Boris Nemtsov, e di giornalisti, come Anna Politkovskaja, basta poco per finire in carcere per chi manifesta in una piazza, o conduce inchieste scomode.
Uno dei casi più recenti riguarda Evgeny Makarov, un detenuto della prigione di Yaroslavl. Nel giugno 2017 una ventina di guardie aggredirono Makarov, bastonandolo sulle piante dei piedi. L’episodio era stato denunciato da Public Verdict, organizzazione russa che si occupa di diritti civili; ma non era partita nessuna indagine. Solo la pubblicazione del video del pestaggio, lo scorso luglio, ha smosso le acque: le guardie coinvolte sono state sospese, a loro volta incarcerate, in attesa di processo. Fino a quel momento l’immobilità sul caso Makarov, come per molti altri, esaltava l’impunità delle autorità poliziesche, forti di un consenso ai più alti livelli: altrimenti non si spiega la diffusione del fenomeno, come documentato nei rapporti di Human Right Watch e Amnesty.
Un assenso che molto spesso si trasforma in direttive implicite o sotterranee: difficile che un’autorità verbalizzi l’uso della tortura su detenuti, prigionieri politici o di guerra. Questo avviene in particolare dove la violenza è connaturata al mantenimento del regime di governo; e per estensione, nei territori di occupazione militare, oppure nei periodi di repressione contro gruppi “sovversivi”. Nella seconda parte del ‘900 – quindi post-Convenzione di Ginevra – anche Paesi “liberi e democratici” sfruttarono la tortura: la Francia in Algeria; gli Stati Uniti in Vietnam. Altri Paesi la praticarono internamente su gruppi rivoluzionari: l’Italia, negli anni ’80, torturava i sospetti appartenenti alle Brigate Rosse.
Nelle nazioni dove si rispetta una rigida separazione dei poteri, diventa complicato mantenere segrete le direttive che autorizzano la violenza su persone in custodia dello Stato. A meno che non si ridefiniscano i concetti stessi di “tortura”. Come accadde in Gran Bretagna negli anni ’70, con le “cinque tecniche di interrogatorio” su sospetti membri dell’Irish Republican Army. E come negli Stati Uniti post-11 Settembre, quando l’Ufficio Legale del Presidente George W. Bush produsse documenti con teorie controverse: i prigionieri di guerra in Afganistan e in Iraq – o sospetti di terrorismo ovunque fossero – venivano considerati “nemici combattenti”; su di essi la Casa Bianca autorizzava l’uso di “tecniche di interrogatorio aumentate”. Nei memo si spiegava perché, ad esempio, il waterboarding non si configurasse come crimine di guerra nel quadro della Convenzione di Ginevra; o perché ai “nemici combattenti” fosse negato un regolare processo. Tesi inquietanti, soprattutto alla luce del Rapporto della Senate Intelligence Committee, pubblicato nel 2014: dentro a quel fallimentare ingranaggio sono stati stritolati decine di innocenti.
Eppure l’uso della tortura veniva promosso perché, come pensava l’attuale Direttrice della Cia Gina Haspel, dava risultati; nei cabli del 2002, la Haspel, all’epoca supervisore del black site dove era custodito Abu Zubaydha, spiegava: il “nemico combattente” ha informazioni su imminenti attacchi agli Stati Uniti, e sta per cedere”. Il qaedista quelle informazioni non le aveva; e si era mostrato già collaborativo prima delle “tecniche di interrogatorio aumentate”; le quali ebbero il vero risultato di infliggergli danni fisici e psicologici permanenti.
La ridefinizione della tortura, spinta da Bush&Cheney, è avvenuta in un contesto emergenziale e secretativo; tanto è vero che l’Amministrazione Obama, nel 2009, l’ha pubblicamente rigettata, riconducendo gli Usa nell’alveo della legalità internazionale. In altri Paesi, però, la legge che punisce questo reato è deficitaria pur uscendo dal Parlamento. E’ il caso dell’Italia, che ne ha varata una nel 2017, quasi trent’anni dopo la ratifica della Convenzione Internazionale contro la Tortura; e solo dopo due sentenze di condanna da parte della Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo: per l’assenza di punizioni sullo specifico reato. Sentenze emesse in risposta a cause intentate dalle vittime della “macelleria messicana” alla scuola Diaz. Nella notte del 21 luglio 2001, durante il summit del G8, la polizia entrò nell’edificio e aggredì selvaggiamente chi vi si trovava dentro, ferendo 82 persone. In 63 finirono all’ospedale in stato d’arresto; altre decine vennero trasferite nelle carceri di Bolzaneto e Asti, dove agenti e personale medico umiliarono, degradarono e percossero persone in loro custodia.
La Corte di Strasburgo ha stabilito che i fatti della Scuola Diaz si configurano come reati previsti nella Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, relativi alla tortura e alle condizioni inumane e degradanti. Secondo la sentenza, con una legge apposita, i poliziotti coinvolti nell’irruzione sarebbero stati processati per tortura. Pene severe sarebbero state inflitte ai dirigenti che acconsentirono allo sfondamento di elementari diritti civili e umani; e tentarono poi di coprire i crimini perpetrati. Invece le condanne sono state comminate per lesioni aggravate, e falso in atti pubblici.
Tuttavia anche con la legge varata nel 2017 sarebbe difficile configurare quei reati come tortura; lo ha rilevato un gruppo di magistrati che si occupò delle violenze del G8 di Genova, in una lettera indirizzata alla Presidenza del Senato. Uno degli aspetti contestati della legge è la riduzione della tortura a reato comune: il cuore della questione non è più, come specificato nella Convenzione del 1984, l’esercizio di trattamenti inumani, degradanti e crudeli da parte dell’autorità. La necessità che vi sia, nel rapporto tra carnefice e vittima, una limitazione della libertà e una minorità di difesa, esclude i fatti della Diaz: perché si trattò “solo” di aggressioni durante un’operazione di polizia. Il concetto di crudeltà, poi, è legato all’agire dei colpevoli, e non alle sofferenze fisiche e psicologiche patite dalle vittime; e l’aspetto più critico è l’inserimento della prescrizione per un reato che incide in maniera così indelebile; l’opposto dei dettami della Convenzione contro la Tortura.
A causa di queste disfunzioni, si ridimensiona il diritto delle vittime a ottenere giustizia; e soprattutto, i colpevoli non pagherebbero adeguatamente per la gravità delle loro azioni. Come, del resto, è accaduto per i fatti di Genova: la maggior parte dei dirigenti coinvolti nell’irruzione alla Diaz ha fatto carriera, mentre le vittime affrontavano un faticoso percorso di recupero, e una dura battaglia legale contro lo Stato Italiano.
Nel 2001 il Capo della Polizia era Gianni De Gennaro: fu processato per istigazione a falsa testimonianza, esercitata sul questore di Genova Francesco Colucci, per depistare le indagini sulla “macelleria messicana”; De Gennaro, nel 2011, venne assolto in Cassazione. L’anno dopo era Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio quando la magistratura acclarò che l’ex questore di Genova mentì in suo favore per i fatti della Diaz.
Oggi De Gennaro è Presidente di Leonardo, azienda italiana fiore all’occhiello dell’industria aereo-spaziale, con partecipazione statale. Poche voci si sono levate, inutilmente, per chiederne le dimissioni dopo il pronunciamento della Corte di Strasburgo.
Lo scorso 20 marzo il procuratore della Corte d’Appello di Genova Enrico Zucca ha usato parole durissime: “In tutti questi anni non siamo riusciti a identificare nessuno dei torturatori della scuola Diaz. Le nostre Forze di Polizia non ce li hanno consegnati. E coloro che hanno coperto quegli ignoti torturatori sono, o erano, ai vertici della Polizia. E’ con questa storia, è con questa voce minata, che noi chiediamo all’Egitto di consegnarci dei torturatori.”
Il riferimento è al caso di Giulio Regeni, il ricercatore italiano scomparso al Cairo a fine gennaio 2016, e raccolto cadavere con addosso i segni di torture bestiali. Dopo anni di omertà e tentativi di depistaggio da parte delle autorità egiziane, i colpevoli non sono ancora stati identificati; sembra ormai evidente che la polizia segreta rapì Regeni, e lo torturò a morte, per i suoi contatti con i sindacati indipendenti del Cairo.
Da due anni e mezzo la famiglia Regeni, sostenuta da vari gruppi di pressione, ed entro certi limiti anche dallo Stato italiano, cerca di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla sorte toccata a Giulio. Morto per mano di una crudeltà e di una cattiveria che, in un mondo dove la tortura viene praticata, tollerata, e ridefinita, potrebbero toccare anche noi.
di Cristiano Arienti
In copertina: Human Right Watch Burma Pen Project
Fonti e link utili
https://www.unhcr.it/wp-content/uploads/2016/01/Convenzione_contro_la_Tortura.pdf
Reato di tortura in Italia: “Un testo provocatorio e inaccettabile. Una legge truffa”
https://www.hrw.org/report/2016/12/06/special-measures/detention-and-torture-chinese-communist-partys-shuanggui-system
https://www.hrw.org/world-report/2018/country-chapters/china-and-tibet
https://monitor.civicus.org/newsfeed/2018/09/14/un-and-rights-group-findings-show-systematic-repression-muslims-xinjiang-uighur-region/
http://en.publicverdict.org/articles_images/Russia_torture_brief_150418_en.pdf
https://medu za.io/en/feature/2018/07/20/video-leaks-showing-russian-prison-guards-torturing-an-inmate-in-yaroslavl
http://espresso.repubblica.it/attualita/cronaca/2012/04/05/news/cosi-torturavamo-i-brigatisti-1.42054
https://www.reuters.com/article/us-italy-torture-idUSKBN19Q2SQ
https://en.wikipedia.org/wiki/United_Nations_Convention_against_Torture
https://www.hrw.org/news/2017/10/18/china-abolish-secret-detention-ensure-rights-protections
https://meduza.io/en/feature/2018/07/20/video-leaks-showing-russian-prison-guards-torturing-an-inmate-in-yaroslavl
https://www.hrw.org/world-report/2018/country-chapters/russia
https://notizie.tiscali.it/cronaca/articoli/diaz-poliziotti-carriera-la-stampa/