George H. W. Bush: il gigante trasparente del XX secolo

E’ un’assenza il gesto politico che la storia ricorderà di George Herbert Walker Bush, il 41° Presidente degli Stati Uniti. Nel 1989 la caduta del Muro di Berlino simboleggiava il crollo di un sistema politico-sociale, il comunismo, in antitesi con le democrazie liberali e capitaliste: dopo 40 anni di Guerra Fredda, l’Unione Sovietica stava cedendo. George Bush, contro il parere dei consiglieri, rimase a Washington, resistendo alla teatralità dell’evento; una mossa dettata dal pragmatismo e dall’esperienza, le sue più grandi doti: in quella fase era cruciale sostenere Mikhail Gorbachev, il leader che stava traghettando la dittatura sovietica verso un regime meno brutale. A Mosca la fazione nazionalista aveva ancora un peso nel Partito Comunista; osservare il leader nemico unirsi a chi, con piccozza e martello, stava abbattendo un sistema messo in piedi 70 anni prima, poteva risultare intollerabile. Bush temeva reazioni violente da parte dei gerarchi sovietici, a Berlino come nel resto dei Paesi del Patto di Varsavia; una lungimiranza confermata due anni dopo, con il golpe dei generali contro Gorbachev.

A quell’assenza, sotto lo sgretolantesi Muro di Berlino, corrispose la centralità di Poppy Bush (come è soprannominato) nella trasformazione dell’Europa. “Il processo di unificazione della Germania è inevitabile”, annunciò il Presidente Usa durante una conferenza stampa, mentre i leader europei nicchiavano, timorosi di una rinascita dell’imperialismo teutonico. Per Bush, invece, la Germania unita era fondamentale per lanciare l’espansione della Nato verso est. Un risultato per nulla scontato, vista l’opposizione di Gorbachev. Il Presidente Usa, sfruttando gli Accordi di Helsinki del 1975, propose: “Sull’entrata della Germania unita nella Nato, scelgano i tedeschi con chi allearsi“. Con il suo pragmatismo, Bush condusse il mondo attraverso un impervio passaggio storico: troppa fretta, o ideologia, potevano rendere tragico il collasso del sistema retto dal Partito Comunista sovietico; perchè quello, in definitiva, era l’obiettivo di Washington.

Il dialogo con Gorbachev, alle prese con le riforme, ma anche con una grave crisi economica, si trasformò in ricatto nel luglio del 1991: gli aiuti finanziari richiesti sarebbero stati elargiti solo con liberalizzazioni. Il vicolo cieco in cui si trovò il leader russo scatenò il colpo di Stato. Nel giro di poche, convulse settimane, il potere passò al Presidente della Duma, Boris Eltsin; il quale era stato ospitato negli Stati Uniti due anni prima. Secondo le cronache, fu proprio una visita in un supermercato di Houston, il feudo di George Bush, a illuminare il Presidente della Duma sul fallimento del comunismo sovietico, se paragonato alla quantità di beni disponibili nel mondo capitalista. Durante quel viaggio del 1989, Eltsin venne ricevuto, sebbene in via informale e per pochi minuti, da George Bush: iniziò un rapporto di fiducia che sarebbe tornato utile proprio durante il colpo di Stato nell’agosto 1991. Fu George Bush a garantire a Eltsin il flusso di Intelligence in tempo reale, per comprendere le mosse dei generali, mentre Gorbachev era agli arresti.

Una volta diventato Presidente, Eltsin chiuse la Guerra Fredda con un incontro, stavolta sì ufficiale, con George Bush: era il febbraio 1992. Dopo di che accolse la shock therapy neo-liberista dei consiglieri dell’Amministrazione Bush e, successivamente, dell’Amministrazione Clinton. Agli Stati Uniti si spalancarono le porte di un Paese ricchissimo di materie prime: una fantasia covata solo dai più audaci think tank americani. Il successivo disastro economico sarà letale per la nascente democrazia in Russia, come nel resto della Comunità di Stati Indipendenti; ma nel 1991 si pensava che il capitalismo fosse la panacea dopo 70 anni di comunismo.

Il gigante all’ombra della gigantografia di Reagan

George H. W. Bush si misurò con la fine dell’Unione Sovietica, e ne fu all’altezza. Tuttavia è il suo predecessore a venire associato a quell’evento: Ronald Reagan, nell’immaginario collettivo, è il vincitore della Guerra Fredda; il suo ruolo amplificato proprio grazie alla teatralità di una visita a Berlino, nel giugno 1987: “Signor Presidente, disse Reagan rivolto a Gorbachev, abbatta questo muro”.

L’ex attore hollywoodiano, spietato ideologo dell’anti-comunismo, appariva come il condottiero di quella lotta. Non importa che Bush, all’epoca Vice-Presidente con delega alla Sicurezza Nazionale, avesse diretto le contro-rivoluzioni in giro per il mondo: dall’Afghanistan al Nicaragua. Un condottiero, il soldato Reagan, che durante la II Guerra Mondiale non mise mai il piede fuori dagli Stati Uniti. Bush, invece, in quella guerra fu il più giovane pilota di caccia-bombardieri Usa, con oltre 40 missioni nel Pacifico.

Di Reagan gli americani amavano soprattutto l’oratoria: l’esaltazione del “Bene, gli Stati Uniti, contro l’Impero del Male, l’Unione Sovietica”. I suoi discorsi sembravano uscire da un film di John Wayne, pronunciati con voce suadente, e il volto da attore consumato. Chi ascoltava Reagan, mirava orizzonti di libertà, giustizia, prosperità: la sua presenza scenica è stato il fattore principale per cui alle Primarie Repubblicane del 1980 vinse proprio su George Bush. La personalità di quest’ultimo, invece, portava gli elettori a domandarsi: perché si è candidato alla Casa Bianca? Che cosa ha da dire? Ignorando che dietro a Bush ci fosse un vasto arco di interessi.

Eppure fu Bush a dare una definizione eastwoodiana del “Capo degli Stati Uniti”, e del suo mandato. Il 3 luglio 1988 un missile sparato dall’Incrociatore USS Vincennes – non si è mai capito quanto per errore – abbatté il Volo Iran Air 655 nei cieli del Golfo Persico: nessuno dei 290 passeggeri sopravvisse, vittime della tensione fra Washington e Tehran.

“Non chiederò mai scusa a nome degli Stati Uniti d’America, mai! Non m’importa quali siano i fatti.”

Per Bush, essere il Presidente degli Stati Uniti, significava essere al di sopra del bene e del male. Pronunciò la frase citata a un mese di distanza dal massacro del Volo 655. Era in piena campagna elettorale contro il democratico Michael Dukakis. In quel discorso aggiunse:

“Guiderò il Paese, farò sempre il mio meglio per difendere la democrazia e la libertà nel mondo, mantenendo gli Stati Uniti d’America forti, e tenendo i nostri occhi ben aperti. Diamo il benvenuto ai cambiamenti del mondo, ma tenendo i nostri occhi ben aperti.”

Bush non divide il mondo in buoni e cattivi, ma in civilizzati e incivili, come ha espresso più volte nei suoi discorsi sul “nuovo ordine mondiale” dopo la caduta dell’Unione Sovietica.

“Un mondo in cui il sistema di leggi soppianta la legge della giungla. […] Un mondo in cui il forte rispetta i diritti del debole”.

Bush è perentorio: la forza fa parte del linguaggio usato dagli Stati Uniti. Possono e devono utilizzarla anche unilateralmente, se necessario. Come nel caso dell’Operazione “Giusta Causa”: nel dicembre del 1989, le truppe americane presero il controllo di Panama, rovesciando il regime di Manuel Noriega. Si trattava di un ex operativo della Cia, e alleato di Poppy Bush contro l’espansione comunista in America Latina.

L’invasione di Panama fu la prima vera guerra Usa dai tempi del Vietnam; un test sull’opinione pubblica interna, per il ritorno di truppe americane in teatri bellici, dopo la disastrosa – ma lucrativa – campagna in Indocina. L’anti-militarismo figlio degli anni ’70 era alle spalle: e infatti l’appoggio all’intervento militare in Iraq fu robusto. Nel 1991 l’attacco contro il regime di Saddam Hussein – ex uomo della Cia, e alleato Usa per contenere l’Iran di Khomeini – riposizionò gli Stati Uniti come unica super-potenza globale.

Un successo politico per Bush, laddove Reagan, se si eccettua l’operazione lampo di Grenada del 1983, aveva fallito: negli anni ’80 il Congresso aveva votato contro un intervento militare in Nicaragua, per fermare l’ascesa dei Sandinisti. Era toccato proprio a Bush, all’epoca Vice-Presidente, trovare il modo per contenere un movimento che assomigliava tanto al castrismo: in segreto, avviò piani di supporto ai contro-rivoluzionari (Contra) in Salvador, Honduras, Guatemala e Costarica. Anche con strategie di autofinanziamento illegale: dalla vendita di armi all’Iran via Israele, allo smercio di cocaina del Cartello di Medellin negli Usa, utilizzando compagnie aeree di copertura (come la SAT di Miami).

L’anti-comunismo di Bush, però, non sfociò mai in fanatismo: ne è esempio l’atteggiamento degli Stati Uniti durante i moti di Pechino, nel giugno del 1989. Quando i carri armati dell’esercito irruppero a Piazza Tienanmen e piallarono la protesta degli studenti, la Casa Bianca rimase muta. In quei mesi erano iniziate le trattative per l’entrata della Cina nel WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio): un’apertura al capitalismo che, davanti a ingerenze americane sui moti, poteva anche chiudersi. Nei giorni seguenti Bush si limitò a una nota di condanna, accompagnata da deboli sanzioni.

Reagan, come è stato avanzato, non avrebbe perso occasione di schierarsi implicitamente dalla parte degli studenti, inneggiando a libertà e democrazia; da viscerale anti-comunista, e grande alleato di Taiwan, considerava la Cina un nemico. La sua ideologia, del resto, posizionò il mondo sull’orlo di un conflitto atomico, con il ritorno alla politica del “first-strike”. Nel 1980, in campagna presidenziale, si era opposto a tutti gli accordi Usa-Urss per limitare la corsa agli armamenti nucleari; e una volta alla Casa Bianca, aveva indirizzato una parte del budget federale per rinnovare l’arsenale atomico, e predisporre le testate in Europa occidentale.

Decisioni che George Bush non contrastò: all’epoca pochi repubblicani si opponevano al first-strike; ma l’allora Vice-Presidente ebbe poca voce sulla gestione di un simile investimento nel settore militare.

Ecco che le divergenze fra Reagan e Bush sono evidenti anche, e soprattutto, in campo economico.

Non è un caso che Bush, durante le primarie repubblicane, definì la ricetta dello sfidante la “voodoo economics”. Reagan proponeva di tagliare la spesa pubblica, ridurre le tasse delle grandi Corporations, e aumentare il budget per la Difesa. Una politica di bilancio illogica. Per quel disprezzo dei numeri, sotto Reagan, la spesa pubblica americana balzò del 2,5%. Il risultato fu un aumento esponenziale del deficit: da 700 milioni di $ passò a 3 trilioni; un’impennata da cui gli Stati Uniti non si sono mai più ripresi.

A questo si aggiunga un tracollo nell’occupazione durante il primo mandato di Reagan; tamponato con un deciso intervento della Federal Reserve sulla paurosa inflazione di quegli anni.

Toccò proprio a Bush sistemare i conti. Nel 1990 trovò un accordo con i Democratici al Congresso: taglio della spesa pubblica (meglio organizzato, stavolta) in cambio di un aumento delle tasse. In spregio, però, alla sua promessa in campagna elettorale, fatta due anni prima:

“Leggete le mie labbra: non aumenterò le tasse”

La giravolta sul fisco gli costò il secondo mandato: nel 1992 perse contro il democratico Bill Clinton; ma nelle casse pubbliche entrarono i fondi per lanciare gli Stati Uniti in una nuova era di prosperità. Un merito attribuito solo al suo successore. In realtà Clinton, con l’abrogazione della Glass-Steagall, la legge sulla separazione fra Banche di investimento e Banche di deposito, creò le basi per la Crisi del 2007-2008. Sotto la spinta di Bush Junior, i sub-prime americani trovarono così le porte spalancate in tutte le banche del Paese: i mutui vennero assicurati dalle agenzie federali, cartolarizzati e venduti, infettando le borse di tutto il mondo.

Quello schema, con conseguente bolla immobiliare, aveva un precedente: il crollo dei Saves and Loans (S&L), un’associazione di fondi di risparmio pensionistico destinati all’acquisto di abitazioni. Nel 1982 l’Amministrazione Reagan-Bush deregolamentò il settore: i fondi cominciarono a vendere i mutui, concessi con alti tassi di interesse, e si aprirono a investimenti nell’edilizia di lusso: alberghi, campi da golf, yatch-club. La speculazione di quegli anni determinò una bolla, e il fallimento di centinaia di imprese e banche.

A Bush, che aveva supervisionato l’architettura della deregolamentazione, toccò intervenire: nel 1991, il Governo federale utilizzò circa 130 miliardi di $ dei contribuenti per tappare le falle del sistema. (Un salvataggio non disinteressato, visto che il figlio Neil Bush, membro del Board del Silverado S&L, aveva votato per erogare 100 milioni di $ a partner occulti che non furono in grado di ripagare il debito. Un buco, quello del Silverado S&L, costato ai contribuenti circa 1,3 miliardi di $.) Per avere una misura di confronto del denaro pubblico messo sul piatto da George H. W. Bush per sanare quella crisi finanziaria: il Tarp elaborato dal Presidente Usa Barack Obama, nel 2009, per salvare l’economia di capitale globale, ammontò a 700 miliardi $.

George Bush non si riconosceva nell’approccio ideologico di Reagan su fisco e lavoro; ma ne condivideva l’impostazione neo-liberista: fu lui, infatti, a presiedere la task-force per la deregolamentazione, con l’obiettivo di ridurre la presenza del governo federale nell’economia, ed espandere il libero mercato. Il celebre ticket Reagan-Thatcher andrebbe allargato anche a Poppy Bush, se vogliamo. Fu sotto la sua presidenza che Usa, Messico e Canada lavorarono al Nafta, il Trattato di libero scambio (messo a punto e ratificato dal democratico Bill Clinton). E non è un caso che George Bush mantenne alla guida della Federal Reserve il neo-liberista Alan Greenspanche sotto Reagan aveva riformato la “social security“: una riforma costata alla classe media americana un aumento progressivo delle tasse, in corrispondenza di un minor welfare.

Poppy Bush, per altro, utilizzò i fondi destinati a sanità e pensioni per coprire altre spese federali. Confermando una volta di più la vocazione della sua dinastia: difendere gli interessi dei più ricchi; non solo ignorando i più poveri, ma anche a scapito della classe media.

La nascita politica di un potente

La difesa delle élite è stata connaturale a George H. W. Bush per un semplice motivo: ne è stato parte integrante.

Il nonno Samuel Bush era il Presidente della Buckeye Steel Casting Company, l’acciaieria di Frank Rockefeller, fratello dei fondatori della Standard Oil – da cui nacquero Exxon e Chevron . Nel 1917, con l’entrata degli Usa nella I Guerra Mondiale, Samuel Bush fu messo a capo dell’Ufficio federale per le armi e munizioni, gestendo gli appalti alle industrie di settore. Nel 1931, all’inizio della Grande Depressione, fu nominato da Herbert Hoover a guidare la Commissione Presidenziale a Sostegno dei Disoccupati.

L’altro nonno era il banchiere George Herbert Walker, dal 1915 Direttore della American Intercontinental Corporation, associazione delle banche americane impegnate a finanziare progetti principalmente in Europa, Unione Sovietica compresa. Era il Presidente della W.A. Harriman & Co – poi fusasi nella Brown Brothers Harriman, la più grande banca commerciale negli Usa, con vasti interessi nei settori strategici dell’economia americana. Walker fu anche Presidente della Union Banking Corporation (UBC), banca chiusa nel 1942 – dopo l’entrata in guerra degli Usa – per la partnership con le acciaierie Thyssen e altre aziende compromesse con il Partito Nazista in Germania.

Richard Nixon con Prescott Bush

Prescott Bush, padre di Poppy, fu uno dei fondatori della Brown Brothers Harriman (nonchè Direttore e azionista della UBC). Quando la banca, nel 1928, acquisì la Dresser Industries, azienda di Dallas produttrice di valvole per impianti petroliferi, Prescott Bush ne divenne il Direttore. La Dresser si specializzò ulteriormente in componenti tecnologici utili in vari settori; da quello militare, ad esempio per le bombe incendiarie piovute sul Giappone, a quello petrolifero, con assemblaggi per gasdotti e oleodotti. Negli anni ’90 si fonderà con la Halliburton, la società con sede a Houston che nel 2003, grazie agli appalti dell’Amministrazione Bush-Cheney, uscirà come la vera vincitrice della II Guerra del Golfo.

Sia George Herbert Walker che Prescott Bush frequentarono Yale, e aderirono alla società segreta Skull and Bones, una tradizione onorata da Poppy Bush e figli; da 200 anni gli Skull and Bones costituiscono una rete di relazioni esclusive, in odore di massoneria.

Alla carriera nell’alta finanza, Prescott Bush univa il forte interesse per la politica. Dopo aver sostenuto l’ascesa, in California, del giovane Richard Nixon, conquistò un seggio al Senato Usa; repubblicano conservatore, fu un attivo consigliere del Presidente Ike Eisenhower, con cui giocava regolarmente a golf.

Grazie a una simile rete d’appoggio, George H. W. Bush, dopo la laurea a Yale, non ebbe problemi a trovare un impiego prestigioso: venne subito preso alla Dresser di Dallas, che gli aprì il mondo del petrolio. Nel 1953 fondò la Zapata Oil, a Houston, beneficiando dei fondi di Neil Mallon, Presidente della Dresser. Oltre al business, Bush si dedicò al Partito Repubblicano dello Stato; una attività decisiva, politicamente, per il futuro degli Stati Uniti. Il Texas, all’epoca, era saldamente in mano ai Democratici di Lyndon B. Johnson, mentre il Partito Repubblicano era arretrato sulle posizioni radicali della Birch Society, fortemente anticomunista e contraria al movimento per i diritti civili. Lo stesso Bush, nel 1964, appoggiò la candidatura repubblicana di Barry Goldwater, un segregazionista; ma cercava di smussare le posizioni anti-federaliste in Texas; e corteggiava tutti quei democratici “traditi” dalle aperture verso gli afro-americani. A livello culturale furono gli anni decisivi per il passaggio del Texas, il secondo Stato per numero di delegati alle presidenziali, dai Democratici ai Repubblicani.

Proprio nel 1964 Poppy si candidò al Senato Usa, in una ideale staffetta con il padre Prescott, che lasciava il Congresso. E fu scelto dal petroliere di Dallas Jack Crichton come Vice nella corsa alla carica di Governatore del Texas. In entrambi i casi Bush fallì, ma la sua leadership nel partito, in Texas, era ormai indiscussa. Pur di assicurarsi un seggio alla Camera, Bush lavorò per la riforma geografica della Harris County, per creare un seggio republican-friendly; nel 1966 diventò il primo repubblicano della Contea a diventare Rappresentante del Congresso Usa. Dove prese posto nella House Ways and Means Commettee, che elabora leggi sulla tassazione alle imprese. In quella sede Bush cominciò la sua trentennale opera di deregolamentazione fiscale delle grandi Corporations americane, soprattutto le aziende petrolifere texane, e le grandi banche commerciali dell’est.

Da deputato, iniziò le prime missioni ufficiali all’estero. Tornato dal Vietnam, nel 1967, Bush rivide la sua posizione sul movimento dei diritti civili: fra le truppe di fanteria aveva conosciuto molti soldati afro-americani.

“Se sono degni di combattere per l’America, allora sono degni di essere pienamente cittadini americani.”

Lo disse Bush durante un comizio, di fronte agli allibiti elettori della sua costituente. Grazie a questa presa d’atto, Poppy acquistò una maggior credibilità a livello nazionale, soprattutto sulla costa est. Tanto che si vociferò, nel 1968, di una sua Vice-Presidenza in ticket con Richard Nixon. Il Direttore Finanziario della Campagna presidenziale era Bill Liedke, ex socio di Bush alla Zapata Oil.

Il cambio di rotta sul movimento per i diritti civili, tuttavia, gli costò, nel 1970, la rielezione alla Congresso Usa.

Richard Nixon con George Bush

Il salto di qualità avvenne lo stesso. Il Presidente Nixon nominò Bush come Ambasciatore Usa alle Nazioni Unite. Poteva sembrare un contentino, per sdebitarsi con Prescott. Tuttavia si rivelerà una carica fondamentale: in quella sede George Bush si addentra nel diritto internazionale, affina l’arte della diplomazia, e accumula contatti prestigiosi. Per la prima volta, poi, l’Ambasciatore all’Onu viene inserito nel Governo; Bush quindi prende parte anche alle riunioni dei ministri, e lavora in diretto contatto con il Consigliere alla Sicurezza Nazionale Henry Kissinger, all’epoca deus ex machina della politica estera americana.

L’ascesa politica di Bush, con Nixon alla Casa Bianca, è esponenziale soprattutto durante il Watergate, con la scoperta che i plumber, un gruppo di agenti a disposizione del Presidente, erano penetrati nella sede della Campagna del Partito Democratico. Quando scoppia lo scandalo, nel 1972, Nixon era appena stato rieletto; in pochi mesi la sua posizione si complicò con la scoperta che registrava illegalmente le conversazioni alla Casa Bianca. Partirono dimissioni e licenziamenti di figure di primo piano dell’Amministrazione, in contemporanea con il passo indietro del Vice-Presidente Spiro Agnew per una storia di evasione fiscale.

I Repubblicani si ritrovarono in una crisi senza precedenti, e nel 1973 Nixon decise di nominare un nuovo Presidente del RNC (Republican National Committee): così richiamò a Washington proprio Bush, giudicato il più adatto a riunificare il Partito, la Casa Bianca, e la Cia, trovatasi suo malgrado esposta, perchè i plumber erano ex agenti operativi.

Tuttavia Nixon scivolò in una spirale di paranoia e discredito dalla quale nemmeno George Bush era in grado di tirarlo fuori. Quando poi, agli inizi dell’agosto 1974, saltò fuori che il Presidente aveva insabbiato l’irruzione al Watergate, fu lo stesso Bush a chiedere a Nixon di fare un passo indietro. Il 9 agosto 1974 Gerald Ford giura come 38° Presidente degli Stati Uniti.

Il nome di Bush lievita di nuovo come potenziale Vice-Presidente, ma la scelta cade su Nelson Rockefeller. La bocciatura ha un risvolto positivo: decide di allontanarsi da Washington, per ripulirsi dal troppo fango del Watergate.

Bush venne quindi inviato a Pechino come Capo dell’Ufficio di Collegamento tra Cina e Stati Uniti, in un periodo cruciale per la normalizzazione dei rapporti fra i due Stati.

In poco più di 10 anni il “texano” George Bush, da leader locale di un Partito Repubblicano in piena era Kennedy, conquista il Congresso, entra nel Governo, diventa la guida del RNC, e sfiora due volte la Vice-Presidenza.

Il suo incarico in Cina, giudicato da molti come la fine di una meteora, è solo la pausa di una carriera ormai in rampa di lancio.

O forse Poppy Bush è sempre stato lassù, nell’empireo della politica americana, ma nascosto in una bolla di materia oscura.

George Bush e la Cia  

Nel dicembre 1974 il Presidente Ford, a seguito di un’inchiesta del New York Times, istituì una Commissione  sulle attività illegali della Cia. Nelson Rockefeller, il Vice scelto al posto di Bush, guidò l’indagine su alcuni degli scandali scoperchiati: la sorveglianza non autorizzata, gli abusi contro cittadini americani, il progetto MK-Ultra sul controllo della mente; e si affacciò sull’ipotesi di omicidi politici dentro e fuori dagli Stati Uniti: l’indagine, infatti, cercò di fare luce sulla connessione fra E. Howard Hunt, capo dei plumber del Watergate, e l’assassinio del Presidente John F. Kennedy.

Nel 1975 venne istituita la Commissione Church, un’indagine del Senato Usa che allargava il mandato della Commissione Rockefeller. Gli americani stavano scandagliando per la prima volta gli abissi della Cia, un’Agenzia nata nel 1947 per la raccolta di Intelligence estera da fornire al Presidente. In realtà fra le sue attività c’erano addirittura vere e proprie operazioni militari. Il Direttore William Colby, spiazzando molti a Washington, ammise alcune delle colpe imputate alla Cia; fece intendere anche una vasta infiltrazione nei media, per il controllo dell’informazione.

George H. W. Bush – 1976

In un momento di sfiducia totale da parte dei cittadini nelle istituzioni, la Casa Bianca decise di chiamare una personalità capace di ripulire la reputazione dell’Agenzia. La notizia raggiunge George Bush a Pechino: dal gennaio 1976 sarà il nuovo Direttore della Cia.

All’epoca la scelta è sorprendente: si pensava che Bush non facesse parte della Cia, come i suoi predecessori; i primi dirigenti erano ex membri dell’OSS (Office of Strategic Service), crisalide dell’Agenzia.

Tuttavia Bush sembra rodato per quel ruolo: più che un repulisti dell’Agenzia, si mette in azione per occultarne le responsabilità. Il whistleblower John “Bob” Stockwell, capo delle operazioni nella guerra segreta della Cia in Angola, lo svelerà negli anni ’80: Bush approvava personalmente la distruzione di documenti su attività illegali della Cia in Africa. Una testimonianza che getta un’ombra sulla collaborazione di Bush per le indagini della Commissione Church; e anche per le indagini della HSCA, la Commissione congressuale sugli omicidi politici di John F. Kennedy, suo fratello Robert, e di Martin Luther King.

Oggi ci sono pochi dubbi che George H. W. Bush fosse un ufficiale della Cia di un certo livello sin dai tempi della JM-WAVE di Miami, la base operativa da dove gli Stati Uniti tentarono di abbattere il regime castrista, insediatosi a Cuba nel 1959. Vari indizi lo confermano: in primis, la frequentazione fra Prescott Bush e Allen Dulles, storico Direttore della Cia, e garante del colpo di Stato del 1963, quando a Dallas venne assassinato John F. Kennedy. Esiste anche una lettera di Dulles indirizzata a Prescott Bush, riguardo a un candidato da far entrare nell’Agenzia; la cui identità, a distanza di oltre mezzo secolo, è ancora classificata. E’ una lettera di rifiuto; ma va pesato il metodo del “plausible denial“, ovvero seminare prove utili a negare il coinvolgimento di una persona in missioni della Cia. La lettera è del 1953, quando Bush fondò la Zapata Oil insieme a Thomas Devine, specializzato in attività di copertura della Cia. Nel 1954 la società aprì una sussidiaria, la Zapata Offshore; la quale operava in tutto il mondo, anche al largo delle coste cubane.

Zapata è il nome dell’operazione che portò 1300 paramilitari cubani, addestrati dalla Cia, alla Baia dei Porci, nell’aprile del 1961. Un’operazione nata durante l’Amministrazione Eisenhower-Nixon, e architettata da Allen Dulles. Zapata è anche il nome della penisola dove i 1300 sbarcarono: ma le navi utilizzate si chiamavano Barbara (nome della moglie di Poppy Bush) e Houston (feudo di Poppy Bush). In sé, potrebbero essere solo coincidenze; tuttavia in quegli anni Bush passava per affari a Miami – città che diventerà feudo del figlio, Jeb Bush, futuro Governatore della Florida.

Poi esiste il memo scritto dal Direttore Fbi J. Edgar Hoover il 29/11/1963, con il titolo “Assassinio del Presidente Kennedy”: il signor George Bush della Central Intelligence Agency è ufficiale di contatto con “malintenzionati anti-castristi di base a Miami”. Già dalla fine degli anni ’80 non esiste alcun dubbio che quel George Bush fosse Poppy . Per quanto riguarda i “malintenzionati”, molti anti-castristi di Operation 40, un gruppo della Cia con missioni a Cuba, ruoteranno nell’universo di George H. W. Bush: il plumber e ufficiale della Cia E. Howard Hunt; il suo sodale e reduce della Baia dei Porci Frank Sturgis; il “giustiziere di Che Guevara” e supervisore sul campo dei Contra Felix Rodriguez; il terrorista (e probabile Dark Complected Man di Dealy Plaza) Orlando Bosch; il trafficante di droga Barry Seal. Fino, con ogni probabilità, a un giovane Porter Goss, futuro presidente della Commissione dell’Intelligence al Senato, e che nel 2004/2005 diventerà egli stesso Direttore della Cia durante la presidenza di George W. Bush.

Il supervisore di Operation 40 era Ted Shackley, Capo Stazione della Cia a Miami durante la JM-WAVE anti-castrista. Nel 1976 il neo Direttore della Cia George Bush nominò proprio Shackley come Vice-Direttore della Operazioni segrete: fu lui, seguendo le direttive, a formare il Coru, ombrello delle organizzazioni contro-rivoluzionarie in America. E’ da quel periodo in avanti che si solidificano i rapporti fra uomini della Cia, i paramilitari di estrema destra, e i boss della droga colombiani e venezuelani. Un intreccio che evolverà nel Contragate: i Contra del Nicaragua, supportati dal National Security Council del Vice-Presidente Bush, si autofinanziavano pure grazie alla cocaina del Cartello di Medellìn, con sponda americana a Miami. Importata negli Stati Uniti sui voli messi a disposizione dalla Cia, la droga veniva poi rivenduta nelle grandi città del Paese. Era il periodo in cui l’Amministrazione Reagan-Bush aveva dichiarato guerra agli stupefacenti.

Shackley, all’epoca, era già stato estromesso dalla Cia (per la precisione nel 1979, dopo lo scandalo della Nugan Hand Bank); tuttavia galleggiava in quella palude indefinita, fra servizi segreti, Stati sovrani asiatici, e faccendieri, nella quale si sviluppò il piano della vendita segreta di armi all’Iran per finanziare aiuti “umanitari” in Nicaragua: lo scandalo Iran-Contra, scoperchiato nel 1986.

Una parte dei soldi finì, invece, per supportare perfino i mujaheddin in Afganistan, impegnati a combattere i sovietici che avevano occupato il Paese nel 1980.

Il principale finanziatore di quella guerra per procura era l’Arabia Saudita: i soldi, in particolare, consolidarono la Brigata estera, di cui Osama Bin Laden, futuro public enemy number one, era un leader. L’intervento era stato approvato dal National Security Council (sotto l’Amministrazione Carter), e supervisionato a livello militare, dalla Cia: fondamentalisti islamici venivano reclutati e addestrati nei campi militari in Pakistan. L’Amministrazione Reagan-Bush potenziò l’Operazione Ciclone, così si chiamava, che produsse il suo maggior sforzo a partire dal 1986; due anni dopo le truppe sovietiche si ritirarono dall’Afghanistan. I mujaheddin continuarono a lottare per la presa di Kabul, godendo dei soldi sauditi e del supporto della Cia. Nello schema era sempre compresa la brigata estera (chiamata “la base”, Al-Qaeda in arabo)”; che poi diventò davvero la base per l’esportazione, anche con le armi, dell’Islam delle origini. E’ la trasmutazione di Osama Bin Laden: da “freedom fighter”, termine caro a Reagan, al terrorista che ispirerà gli attacchi dell’11 Settembre.

Il finanziamento di operazioni estere segrete attraverso il contrabbando di droga e armi era uno schema talmente rodato fin dagli anni ’60, che la Cia disponeva di banche per il riciclaggio di denaro sporco. Oltre alla già citata Nugan Hand Bank, ci fu lo scandalo della BCCI, crocevia dei traffici più loschi su scala planetaria. Alcuni conti corrente della banca, chiusa del 1991 per bancarotta fraudolenta, appartenevano a persone legate alla Cia e addirittura al National Security Council: i soldi finivano nei forzieri del narco-dittatore Manuel Noriega a Panama; e del tiranno Saddam Hussein, in Iraq, per i suoi laboratori di armi chimiche. Fra il 1986 e il 1990 il 20% della BCCI era posseduto da Khalid Bin Mahfouz, finanziere molto vicino alla Famiglia Reale saudita e alla potente famiglia dei Bin Laden.

A partire dagli anni ’70, il quartier generale di Mahfouz era Houston, dove acquisterà una banca della città, la Main Bank, insieme all’ex Governatore del Texas John Connallyil passeggero della limousine in cui venne assassinato Kennedy. A rappresentare gli interessi di Mahfouz negli Usa, oltre a quelli dei Bin Laden, era Jim Bath, uno dei più fidati collaboratori di Poppy Bush. Negli anni ’70 Bath, da sempre sospettato di legami con la Cia, fu il garante della firma sui registri di presenza del figlio di Poppy, George W. Bush, presso la Texas Air National Guard; nella realtà dei fatti la frequentazione di W. era tutt’altro che costante: un comportamento punibile con la leva per il Vietnam. Inoltre, nel 1979 Bath fu uno dei principali investitori nella Arbusto Energy, la prima impresa petrolifera del futuro Governatore del Texas. Soldi che, tramite intermediazione, provenivano da Mahfouz. Uno schema riproposto con l’acquisto della Harken, un’altra società petrolifera di W., per altro destinata al fallimento. Per la Harken, Mahfouz trovò gli investitori arabi tramite la BCCI. Quando nel 1986 si affacciarono i primi problemi per la BCCI , l’Amministrazione Reagan-Bush  diede l’incarico di scrutinare gli affari della banca a un sottosegretario del Tesoro: John M. Walker jr., cugino di primo grado di Poppy Bush. La connessione Mafhouz-Bath-Bush non venne mai a galla; nemmeno nel Rapporto dell’Indagine della Commissione Affari Esteri sulla BCCI, firmato dal futuro candidato democratico John Kerry, e pubblicato nel dicembre 1992; gli ultimi giorni di George H. W. Bush alla Casa Bianca.

George “Saud” Bush

George H. W. Bush, con il tempo, è diventato una sorta di pigmalione dell’Arabia Saudita. Quel suo ruolo si rivelò nel 1990, quando soccorse Ryadh durante l’occupazione del Kuwait da parte di Saddam Hussein. Il Presidente Bush, nel quadro dell’Operazione Desert Shield, inviò 500.000 truppe sul suolo saudita. Dopo la fine della I Guerra del Golfo, nel 1991, fece accettare ai Saud la permanenza del contingente Usa. In Arabia Saudita i wahabiti radicali la presero come una sorta di occupazione militare.

Non nasce certo con Poppy Bush lo stretto legame fra gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita, ma decenni prima, con Franklyn Delano Roosevelt, quando il petrolio era già centrale nel settore energetico. Nel 1937 venne fondata l’Aramco, una Joint Venture fra l’americana SoCal (ex Standard Oil) e il Governo saudita; nell’evoluzione di questo sodalizio, lo sfruttamento del petrolio è concesso in cambio di un’alleanza strategica e militare. Alleanza incrinatasi nel 1973, quando Re Faisal annunciò un programma di nazionalizzazione di Aramco, e poco dopo bloccò l’esportazione di petrolio in protesta contro l’appoggio di Washington a Israele durante il conflitto Arabo-Israeliano. E’ l’origine della prima grande crisi petrolifera. Due anni dopo il Re fu assassinato da un nipote, Faisal Bin Musaid (vendicatosi, così si pensa, per la morte di un fratello); l’omicida era rientrato da poco dagli Stati Uniti, dove era stato arrestato per possesso di LSD.

Il regicidio portò a una stretta ulteriore nelle relazioni fra Arabia Saudita e gli Stati Uniti. Sotto la direzione di Poppy Bush, la Cia cominciò a occuparsi della sicurezza dei membri della Famiglia Reale, e funzionò come modello per la riforma della GID, il Servizio di Intelligence di Ryadh. E’ con il Principe Turki, all’epoca Vice della GID, ma poi reggente dell’Intelligence saudita fino al 31 agosto 2001, che Poppy Bush collabora. Invece con il Principe Bandar Bin Sultan, dal 1977 inviato del Re a Washington, si svilupperà una solida amicizia. Nel 1983 Bandar “Bush”, così viene ribattezzato, è nominato Ambasciatore negli Stati Uniti: in quella posizione diventò il principale lobbista saudita. Favorì, ad esempio, la vendita da parte di Washington di ben 3 Awacs, gli aerei-radar; fu concessa dall’Amministrazione Reagan-Bush nonostante l’opposizione del Congresso, visto che erano trascorsi appena 10 anni dalla guerra arabo-israeliana.

Da lì in avanti l’Arabia Saudita è diventata il recipiente di vendite record da parte delle aziende americane: Ryadh ha acquistato armi per 60 miliardi di $ nel 2010, nemmeno una decade dopo l’11 Settembre; e per 100 miliardi di $ nel 2017. Cifre stratosferiche che servono anche a consolidare l’alleanza fra i due Paesi; a cui vanno aggiunti gli asset americani detenuti dai sauditi; al 2016 ammontavano a circa 750 miliardi di $. Recentemente Aramco ha rilevato il 100% del polo petrolifero di Port Arthur, Texas, il più grande d’America.

Bandar e Turki, per quasi 30 anni, hanno rappresentato i garanti dell’alleanza con gli Stati Uniti dei Bush. Da George Bush, nelle stanze del potere dal 1976 al 1992, a George W. Bush, Presidente Usa dal 2000 al 2008: l’Arabia Saudita ha sempre ricevuto un trattamento speciale; che non è mai mancato nemmeno sotto le Amministrazioni Clinton e Obama. Perfino il Presidente Donald Trump, che in campagna elettorale aveva incolpato l’Arabia Saudita per l’11 Settembre, è volato a Ryadh nel tradizionale primo viaggio all’estero.

Tuttavia George H. W. Bush, quando impose la linea politica nei confronti dell’Arabia Saudita, non sospettava di aizzare il peggiore dei mostri. Proprio durante la sua Presidenza scoppiò l’ostilità di Osama Bin Laden nei confronti degli Stati Uniti: dichiarò guerra a Washington a causa di Desert Shield, perchè “contaminava il suolo sacro dell’Islam”. Il leader di Al Qaeda non risparmiava nemmeno Ryadh, complice di quell’occupazione, e troppo cedevole al “corrotto” stile di vita occidentale.

Nel febbraio 1993 i seguaci di Bin Laden provarono ad abbattere le Torri Gemelle del World Trade Center, con un attentato dinamitardo che, pur fallendo, costò la vita a 6 persone.

Nel 1996 ci fu l’attacco dinamitardo alle Torri Khobar, in Arabia Saudita, dove soggiornava il Comando dell’Operazione di No-Fly-Zone sul vicino Iraq: 19 soldati americani persero la vita. L’Iran è stato giudicato colpevole di quell’attentato; tuttavia nel 2015 William Perry, all’epoca Segretario di Stato, ha dichiarato: credo che Al Qaeda fosse dietro l’attacco.

Sebbene la pericolosità di Osama Bin Laden fosse ormai più che un sospetto, l’Amministrazione Clinton evitò di considerare il suo gruppo come un’organizzazione terroristica: il fatto che fosse un Bin Laden, sostenuto da eminenti personalità saudite (tra cui, si scoprì poi, i Mahfouz e i Bin Laden), lo preservava da attacchi troppo esposti.

Probabilmente ci furono anche pressioni da Ryadh. Fu il Capo dell’Intelligence Saudita, il Principe Turki, a dialogare con Osama Bin Laden e i suoi sponsor, e monitorarne i movimenti.

Sono gli anni in cui Poppy Bush, da ex Presidente, introduce i suoi prestigiosi contatti sauditi al Carlyle Group, azienda di tecnologia aerospaziale nata nel 1987. Partner del Carlyle era James Baker, Segretario di Stato sotto Bush e concittadino di Houston. Nel consiglio d’amministrazione stazionava anche un uomo di fiducia di Bush, Fred Malek; e per un certo periodo siederà anche il figlio George W. Bush. I sauditi non solo appaltano al Carlyle opere e tecnologie per miliardi di $, ma subentrano come finanziatori nei progetti della Difesa Usa. I Saud, i Mahfouz e i Bin Laden metteranno tutti quei soldi anche solo per il lobbismo di George H. W. Bush, che percepisce compensi stellari per discorsi di un’oretta.

Nell’ottavo anniversario di Desert Shield, Osama Bin-Laden emise una fatwa contro gli Stati Uniti, e i suoi seguaci colpirono le ambasciate Usa di Dar-Es-Salam, in Tanzania, e Nairobi, Kenya; in 224 persero la vita.

Nell’ottobre 2000 una barca-kamikaze speronò il cacciatorpediniere USS Cole nel golfo di Aden; 17 marinai rimasero uccisi. Il qaedista Khalid Al-Mihdhar era implicato nell’attacco. Da almeno un anno sia la GID del Principe Turki, che l’Ambasciata di Washingoton del Principe Bandar, stavano monitorando gli spostamenti di Al-Mihdhar dentro e fuori gli Stati Uniti. Anche la Cia, ai più alti livelli, sapeva che due pericolosi qaedisti, nel gennaio 2000, erano entrati negli Stati Uniti. Insieme a Nawaf Al-Hamzi, Al-Mihdhar costituiva la cellula di San Diego che l’11 Settembre 2001 schianterà il Volo A77 nel Pentagono.

L’attacco al cuore dell’America ha un ispiratore, Bin Laden; e un presunto pianificatore, Khalid Sheik Mohammed. Ma oggi le responsabilità del Principe Turki e del Principe Bandar sono chiare; è dettagliato nel (declassificato nel 2016) capitolo del Rapporto Finale della Joint Commission sull’Intelligence pre-durante-post 11 Settembre: senza il supporto del Principe Bandar alla cellula di San Diego, l’attacco qaedista non avrebbe mai potuto realizzarsi.

Ed è ormai da acquisire come un fatto: l’Amministrazione Bush-Cheney fu indisponibile a bloccare un attacco terroristico ampiamente temuto, e previsto con esattezza nel Press Daily Briefing del 6 agosto 2001.

US VP Dick Cheney, Re Abdullah, George Bush, Secr of State Colin Powell – Ryadh 5-8-2005

E un altro fatto è ormai acquisito: l’apparato governativo e di Intelligence coltivato da Poppy Bush nei precedenti 25 anni, attuò una vasta operazione di psicologia di massa: convincere gli americani che i sauditi non centrassero nulla con l’attacco al World Trade Center. E che non ci fosse una speciale contiguità fra Osama Bin Laden e i wahabiti radicali, che finanziavano Al Qaeda attraverso fondazioni islamiche e banche saudite.

Nel 2003 ci fu una serie di attacchi armati ai fortini di Ryadh occupati da contractor della Difesa americana: decine di persone persero la vita. Paul Wolfowitz, Vice-Segretario alla Difesa, riconobbe che la presenza militare Usa nella penisola araba minacciava le vite degli americani: così Washington cominciò a ritirare i propri soldati dall’Arabia Saudita.

Nel frattempo l’America aveva già invaso l’Afghanistan dei Talebani, a caccia di Bin Laden; ed era già partita un’altra, vasta, operazione di psicologia: convincere il mondo che l’Iraq di Saddam Hussein possedesse armi di distruzione di massa, e che fosse pronto a consegnarle ai qaedisti.

E’ il 2003, l’anno in cui, con oltre 400 giorni di ritardo, venne istituita la 9/11 Commission. Come Direttore della Commissione fu nominato Philip Zelikow, già Consigliere al National Security Council durante la Presidenza di George H. W. Bush; la Commissione sbianchettò qualsiasi responsabilità del governo saudita, dei suoi rappresentanti, o dei membri della Famiglia Reale. La classificazione delle 28 pagine del rapporto della Joint Commission sull’Intelligence dell’11 Settembre costituì uno scudo per il Principe Turki e il Principe Bandar. L’Amministrazione Bush-Cheney si schierò contro i parenti delle vittime dell’11 Settembre, che tentavano invano di portare in tribunale membri del Governo di Ryadh – per altro difesi dallo studio legale di James Baker, sodale di Poppy Bush, dei Mahfouz e dei Bin Laden.

George H. W. Bush ha di fatto coperto chi fu funzionale all’attacco terroristico più grave nella storia degli Stati Uniti; negando verità e giustizia al popolo americano. Proprio come il suo predecessore alla Cia Allen Dulles, manovrando la Warren Commission, coprì il commando che assassinò John F. Kennedy.

Coprire crimini in grado di mutare gli equilibri globali, e incanalare grandi eventi secondo la propria visione – o i propri particolari interessi – è prerogativa dei grandi della storia: George H. W. Bush, in questo senso, è un gigante della sua epoca. Le ragioni per cui l’opinione pubblica stenti a riconoscerlo, nascono da un’altra prerogativa del successore di Reagan: fino al 1988, in pratica, non esistevano biografie, o quasi, sulla sua vita; Bush, e la sua dinastia, prosperavano in una zona d’ombra lunga oltre mezzo secolo.

Il gigante trasparente dall’eredità ben presente 

La carriera politica di George H. W. Bush è costellata di negazioni sul suo coinvolgimento in eventi cruciali nella storia degli Stati Uniti.

Nel 1976, durante l’audizione al Congresso per la nomina a Direttore della Cia, dichiarò di non aver mai fatto parte della Agenzia.

Ha affermato di non ricordare dove fosse il 22/11/1963, nel momento in cui il Presidente Kennedy fu assassinato. Anni dopo, pressato su questa domanda, disse che si trovava a Houston per affari. In un memoriale, la moglie Barbara, lo ricorda a Tyler, una città del Texas. Non ammetterà mai in pubblico che in quel fatidico giorno, di sicuro alla mattina e alla sera, si trovava a Dallas. E non è mai riuscito a dissolvere i dubbi sui motivi della telefonata all’Fbi, un’oretta dopo l’assassinio di Kennedy: Bush si identificò, e denunciò un volontario del suo partito, un innocente, come coinvolto nell’assassino.

Negherà di aver mai avuto rapporti con i vari sauditi implicati con lo scandalo BCCI.

Negherà anche di aver avuto un ruolo nell’Iran-Contra. Un’assurdità, visto che Donald Gregg, il Consigliere alla Sicurezza Nazionale di Bush, supervisionava le operazioni di supporto ai Contra in Centro-America. Il nome del Vice-Presidente compariva perfino negli appunti delle riunioni per gestire i flussi di denaro. Quando venne istituita la Commissione Congressuale sull’Iran-Contra, Poppy Bush non venne nemmeno convocato, né gli venne chiesta una dichiarazione scritta.

Non confermò nemmeno la sua storica amicizia con gli Hinkley, i genitori del giovane squilibrato che nel marzo 1981 ferì con vari colpi di pistola il Presidente Reagan.

Se fino al 1988 la figura di Bush sembrava così poco interessante da non meritare particolari scrutini, dal 1988 in poi è sempre bastata la sua parola, contro ogni evidenza e logica, perchè rimanesse immune dal fango. Non si è mai alzata nessuna campagna mediatica contro i presunti scandali che sfioravano lui e la sua famiglia.

Nel 1988 il New York Times informò i lettori che forse George Bush, nei giorni dell’assassinio di Kennedy, era il contatto Cia di un gruppo di anti-castristi – da sempre indicati come operativi nell’agguato in Dealy Plaza; ma il Times non si lanciò in una campagna investigativa: come se Bush, da bersaglio poco visibile, fosse all’improvviso fuori portata. E chi tentava di metterlo con le spalle al muro, rischiava la propria carriera.

Nel 1988 Dan Rather della CBS, durante la campagna presidenziale, intervistò Bush: lo accusò di essere stato funzionale nello scandalo Iran-Contra. La reazione dell’allora Vice-Presidente fu così rabbiosa che toccò al giornalista difendersi per aver posto certe domande. (Lo stesso Dan Rather che, nel 2004, cercò di dimostrare come George W. Bush, all’inizio degli anni ’70, avesse falsificato le presenze alla Texas National Air Guard; per quel servizio, attaccato per presunta fabbricazione dei documenti dell’inchiesta, la CBS licenziò Rather.)

Una volta entrato alla Casa Bianca, George H. W. Bush mise a tacere qualsiasi capitolo opaco del suo passato. A partire dallo scandalo Iran-Contra: perdonò tutti gli attori coinvolti, compreso, indirettamente, se stesso.

Nei 4 anni successivi Bush, raccogliendo attorno a sé il nucleo di quelli che conosceremo come i Neo-Conservatori, fu libero di plasmare l’America secondo la sua visione: un Paese militarista, impegnato in più teatri di guerra, in grado di gestire le crisi anche unilateralmente. Una proiezione di potenza che rendeva accessibile, a maggior ragione dopo il crollo dell’Unione Sovietica, qualsiasi risorsa sul pianeta: a partire dal petrolio mediorientale; ma anche la manodopera a basso prezzo dei Paesi in via di sviluppo, da sempre mira delle multinazionali.

L’impatto di George Bush fu anche culturale: in quei 4 anni solleticò la pancia populista del Paese, di quell’America del sud che, da Rappresentante del Texas, conosceva molto bene.

Fu proprio una pubblicità a favore di Bush, durante le Presidenziali del 1988, ad aprire le porte a un linguaggio televisivo esplicitamente razzista e sgradevole. Revolving Doors distorceva la realtà del sistema carcerario del Massachusetts di Michael Dukakis, avversario di Bush; la pubblicità alludeva che con un democratico alla Casa Bianca, i delinquenti (afro-americani) sarebbero usciti facilmente di prigione, liberi di stuprare le “nostre” donne: un appello all’inconscio del sud, che faticava a sganciarsi dal segregazionismo. Quella campagna pubblicitaria, in grado di spostare in modo determinante una massa di elettori indecisi, era stata prodotta da Roger Ailes. Lo stesso Ailes che qualche anno dopo fonderà FoxNews, emittente di informazione apertamente di destra, e destinata a incidere nel dibattito politico americano. Dal definire il Riscaldamento Globale una bufala, al promuovere la War on Terror in modo martellante, FoxNews ha propagandato gli interessi delle grandi multinazionali della finanza, del petrolio, e delle armi, che nei Bush, da quasi un secolo, hanno sempre avuto dei referenti politici.

E l’emittente diretta da Ailes fu funzionale anche alla vittoria di George W. Bush alle elezioni presidenziali del 2000: mentre Al Gore stava già festeggiando, FoxNews proclamò la Florida, Stato decisivo, al candidato repubblicano, dando il via a un domino di ritrattazioni da parte delle altre emittenti. Si determinò uno stallo politico di oltre un mese, e che vide Gore sconfitto attraverso una sentenza della Corte Suprema. Nella sala di comando di FoxNews, quella notte, c’era John Ellis, primo cugino di W. e Jeb Bush.

E fu proprio Jeb, Governatore della Florida, a spingere per la proclamazione del fratello come il vincitore dello Stato, senza attendere il conteggio richiesto per legge.

Con George W. Bush Presidente, alla Casa Bianca si insediarono anche i Neo-Conservatori coltivati dal padre; i quali, dopo l’11 Settembre, furono in grado di implementare ulteriormente la loro agenda. Proteggendo l’eredità di Poppy Bush, e proiettando la sua visione d’America verso il futuro.

Quell’America non si è bloccata nemmeno con Barack Obama; eletto con grandi aspettative, il primo Presidente afro-americano si è scontrato con il Tea-Party, quella pancia del Paese invasata da FoxNews; ed è stato azzoppato dall’establishment, arroccato in difesa delle grandi banche, del complesso industriale-militare, dell’industria del carbon-fossile. Proprio l’Amministrazione Obama ha espanso i teatri di guerra americani, dalla Siria alla Libia, dalla Somalia allo Yemen, seguendo le coordinate dei Neo-Conservatori, che hanno trovato nel Segretario di Stato Hillary Clinton un degno rappresentate.

Ma è con la Campagna presidenziale del 2016 che si è svelata l’eredità di George H. W. Bush: la trasformazione della politica americana in una specie di democrazia cesarista.

Finanziato dall’establishment, e con alle spalle i media filo-repubblicani, Jeb era destinato a diventare il terzo Bush, in meno di 30 anni, a guidare gli Stati Uniti. E l’idea di un potere dinastico si è confermata con la candidatura di Hillary Clinton, moglie di Bill, presidente dal 1992 al 2000.

Trent’anni nei quali il Partito Repubblicano dei Bush, ma anche l’ala clintoniana del Partito Democratico, hanno pensato gli Stati Uniti post-Guerra Fredda in termini imperiali: dagli interventi militari nel mondo, all’imposizione del neo-liberismo su scala planetaria; dal sequestrare i tavoli diplomatici, ad esempio per gli accordi sul Clima, al rifiutare la Corte Penale Internazionale.

La misera sconfitta di Jeb Bush alle Primarie, e di Hillary Clinton alle Presidenziali, ha segnato, per il momento, il rifiuto del popolo americano verso la democrazia cesarista inaugurata da George H. W. Bush.

Toccherà agli storici misurare la grandezza del 41° Presidente degli Stati Uniti.

Una parte del Paese, a livello istituzionale, sembra riconoscere la figura ormai iconica di George Bush. Per ora gli hanno dedicato, a lui ancora in vita, l’aeroporto di Houston, il George Bush Intercontinental Airport; una super-portaerei classe Nimitz, la USS George H. W. Bush; e soprattutto il Quartier Generale della Cia, a Langley, Virginia: il George Bush Center for Intelligence.

E’ un’assenza, forse, il gesto politico che la storia ricorderà di George H. W. Bush, quando preferì non partecipare al falò del comunismo sotto lo sgretolantesi Muro di Berlino. O forse gli storici, un domani, lo vedranno come una chiave per capire gli eventi cruciali a partire dagli anni ’60 del XX secolo; e rivaluteranno la sua pervasiva presenza nel sistema politico e sociale di questo inizio millennio. A meno che, in futuro, le attenzioni degli studiosi siano calamitate dalla nefasta Presidenza del figlio, George W. Bush: sarebbe la più grande operazione di plausible denial mai realizzata; il magistrale depistaggio del gigante George Bush per mantenere intatta la propria trasparenza.

di Cristiano Arienti  

articolo aggiornato il 25 aprile 2018

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In Copertina: George H. W. Bush

Fonti e Link utili

Family of Secrets – Russ Baker

House of Bush, House of Saud – Craig Unger

https://books.google.it/books?id=M_vkgRD3QwwC&pg=PA275&redir_esc=y#v=onepage&q&f=false

https://news.google.com/newspapers?id=PlNWAAAAIBAJ&sjid=uesDAAAAIBAJ&pg=3766,3968714&dq=kamal+adham&hl=en

https://books.google.it/books?id=AyEMV1sd5S4C&pg=PA168&lpg=PA168&dq=bandar+bush+mahfouz&source=bl&ots=ShMRkJWZEH&sig=zt3AZ1VNVGIJJZLFAFE1nDDXOFA&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwjE1tby8cfWAhWL1hQKHcVqBY8Q6AEISDAH#v=onepage&q=bandar%20bush%20mahfouz&f=false (House of Bush, House of Saud)

https://archive.org/stream/pdfy-qR2aGth2CDTnwtX-/The%20Bush%20-%20Saudi%20Connection_djvu.txt

http://www.businessinsider.com/roger-ailes-revolving-door-ad-bush-election-2017-5?IR=T

http://www.spiegel.de/international/world/condoleezza-rice-on-german-reunification-i-preferred-to-see-it-as-an-acquisition-a-719444.html

http://cepr.net/publications/op-eds-columns/ronald-reagans-legacy

 

 

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