Migranti: il naufragio e la paura.
Naufragare è un verbo caro nella cultura italiana; Giacomo Leopardi lo usò come metafora per definire il viaggio della mente negli sterminati spazi del tempo, e nell’universo che ognuno di noi porta dentro. Una cuspide inarrivabile nella poesia europea. Ma questa nostra non è epoca di letteratura: naufragare, per noi italiani, ha il duro significato di una barca che arranca nel Canale di Sicilia, di uomini in balia del mare, di acque che s’inghiottono persone. Un bollettino quotidiano che passa, ormai, da anni: lo leggiamo sui giornali, lo ascoltiamo per radio, ce lo testimoniano in televisione. Sui social media vediamo scorrere immagini di teste galleggianti e di braccia che sporgono bimbi verso mani di soccorritori. Siamo spettatori quotidiani di trasbordi, da legni marci e sottili gomme, su ponti d’acciaio di navi cargo o fregate militari. E’ di ora in ora la conta di migranti, assiepati sui moli o addossati contro i muri dei centri di accoglienza.
Ogni giorno immagazziniamo, che lo vogliamo o meno, i numeri che registrano gli arrivi: decine, centinaia, migliaia di persone salpate dalle interiora di continenti lontani e sbarcate nei porti italiani; bastioni di un sogno chiamato Europa, via dall’incubo della guerra o di una vita misera. Ma registriamo anche numeri ben più glaciali: gli annegati tra le onde del Mediterraneo. Nel migliore dei casi recuperati e infilati nelle sacche mortuarie, la loro fine documentata. Altrimenti rimangono visioni senza nome, trasmesseci dai superstiti. A noi non resta che disporre queste memorie sulla traballante scacchiera della nostra identità di uomini, di familiari, di cittadini italiani ed europei. L’avversario, sul lato opposto della scacchiera, è la paura, nelle sue diverse forme.
La paura di ciò che potremmo perdere: l’equilibrio della società italiana, già precaria e impoverita, per l’urto di questa filiera migratoria via-mare, attiva ormai da oltre un decennio.
La paura per ciò che dovremmo tollerare: la presenza, immediata ed esponenziale, di persone diverse per lingua, cultura, usanze, storia. Da immettere in un mercato del lavoro in forte crisi occupazionale.
La paura per ciò che non vorremmo diventare: insensibili al destino di un naufrago che rischia di annegare; o indifferenti alla sorte di un rifugiato di guerra.
I numeri di una crisi
Nel 2016, in Italia, sono giunti via-mare più di 180.000 migranti, secondo le stime del Ministero degli Interni. Nei primi sei mesi del 2017, ne sono sbarcati quasi 90.000. La proiezione sui 10 anni, a questo ritmo, è di quasi 2 milioni di persone in più da accogliere sul nostro territorio; senza contare gli overstayers, stranieri che giungono in Italia regolarmente, ma che restano una volta scaduti i permessi.
Finora, la soluzione di smistare gli immigrati con diritto di asilo negli altri Paesi europei, presa ufficialmente nel 2016, sta procedendo con difficoltà, come attesta l’ultimo Rapporto del Ministero degli Interni. I Paesi dell’est Europa non accetteranno quote di migranti, nemmeno sotto la minaccia di sanzioni. In Italia si stanno distribuendo decine, centinaia di migranti stranieri in molti centri abitati, da nord a sud. Nel mio quartiere d’origine una cooperativa progetta di aprire un centro servizi per migranti (un centinaio sono già presenti sul territorio) in un tessuto urbano, Gallarate, di circa 50.000 abitanti (compresi gli immigrati di 1° e 2° generazione). A Milano li vediamo ovunque, non possiamo far finta di niente: nelle stazioni, agli angoli delle strade, fuori dalle panetterie con il cappello per l’elemosina.
Si tratta di rifugiati politici solo in minima parte; a cui si aggiungono un 40% dei casi con diritto a una qualche forma di protezione internazionale. Infatti sono in corso, al 2017, circa 26 conflitti armati in aree orbitanti l’Unione europea: dal Congo all’Iraq, dall’Afghanistan al Saharawi. Sorgenti di rifugiati che trovano una grande foce: la Libia. Negli anni scorsi ne ho personalmente conosciuti due, uno dal Sud-Sudan e l’altro dalla Somalia.
Sono decine di milioni le persone che, se salpassero oggi da Misrata o Zuwara, potrebbero reclamare, e ottenere, lo status di rifugiato politico una volta giunti in Italia.
Su dieci che giungono via mare, però, 7 sono migranti economici (fonte UN). Chi ha visitato l’Africa sub-sahariana sa perché tanti giovani sono disposti a intraprendere viaggi così pericolosi: si lasciano dietro fame, povertà, violenza, e lavori mortali.
La rotta libica è, del resto, quella più accessibile. Il Paese è frammentato da conflitti a bassa intensità tra varie fazioni; non esiste un governo centrale che controlla in modo capillare le aree in mano ai trafficanti di uomini. L’Unione europea elargisce fondi a clan locali per interrompere i flussi di migranti; ma i risultati sono ben diversi rispetto alla Turchia, dove la pioggia di miliardi di euro ha effettivamente bloccato la rotta balcanica.
Sono centinaia di milioni le persone che potrebbero decidere: sì, vale la pena intraprendere il viaggio della speranza verso l’Europa. Sono le stesse famiglie d’origine che finanziano il cammino, con il miraggio di futuri ricongiungimenti in case con l’elettricità e l’acqua corrente, in città dove ci sono tante strutture mediche e supermercati, in Paesi dove le leggi proteggono maggiormente cittadini e lavoratori.
In realtà in Libia, adesso, il numero di persone in attesa di salpare verso l”Italia varia a seconda delle fonti: si va dalle centinaia di migliaia, al milione.
Non è l’imponenza di questi numeri a fare paura, ma la mancanza di una strategia comune per affrontare la crisi. A Parigi, Londra, Berlino, e nelle altre capitali, è sempre bastato trincerarsi dietro ai Trattati Marittimi; o ai Tratti europei, come l’accordo di Dublino, per cui un migrante va registrato nel Paese di approdo o di arrivo, e lì va trattenuto.
Tradotto: i migranti dalla Libia deve prendersene cura l’Italia. E gli italiani, come cittadini europei, lo sentono questo abbandono di fronte a un dramma che da un decennio lacera le coscienze.
Bruxelles sta attuando una nuova forma di respingimento dopo quello lanciato, fra le critiche dei partner europei, dal Governo Berlusconi. All’epoca i migranti, compresi gli aventi diritto ad asilo politico, venivano rimandati in Libia. Le partenze, effettivamente, diminuirono. Gli accordi stipulati fra Roma e Tripoli nel 2008, durarono fino al 2011, quando l’intervento di una coalizione di Stati guidata da Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti e Qatar, abbattè i Gheddafi, al potere da 40 anni.
Con l’interruzione dei “respingimenti”, l’Italia riprese il balletto con Malta sulle competenze territoriali per il soccorso dei migranti nel Canale di Sicilia: “tocca a Roma; no, tocca a La Valletta”. Intanto non poche barche colavano a picco con il loro carico di umanità. Almeno fino all’ecatombe di quasi 600 migranti annegati al largo di Lampedusa, nell’ottobre del 2013. Quei due naufragi smossero le nostre navi di salvataggio al di là dei Trattati Marittimi.
Una settimana dopo partì immediatamente l’operazione Mare Nostrum, del Governo Italiano. E nel 2014 l’operazione Triton, targata Frontex, l’Agenzia europea per il controllo delle frontiere. E nel 2015 Sophia, della marina militare di vari Paesi dell’Unione. L’obiettivo: ridurre le tempistiche di salvataggio di barche e gommoni in difficoltà.
Con le operazioni nel Canale di Sicilia, si è giunti alla constatazione: i naufragi non sono diminuiti; il numero dei migranti è invece aumentato. Le imbarcazioni cariche di uomini, donne, e bambini, spesso lasciano le spiagge libiche senza la benzina sufficiente per la traversata. Da anni Vittorio Alessandro, ex Ammiraglio della Guardia Costiera Italiana, spiega: l’unica soluzione è l’apertura di corridoi umanitari nel Canale di Sicilia, con hot-spot in Libia sotto l’egida dell’Unione europea, o delle Nazioni Unite.
Il confine del soccorso
Una soluzione mai presa in considerazione a Bruxelles. Ma una brutta copia, a livello pratico, è stata adottata di recente dalle Organizzazioni Non Governative (ONG). Una quindicina di navi, quasi tutte battenti bandiere non italiane, stazionano nel liquido confine delle acque libiche, e si fanno trovare là, dove transitano legni e gommoni a rischio naufragio: dopo il trasbordo, si prosegue verso il porto più sicuro; che non è il ritorno verso la Libia – luogo di orrori indicibili, documentati dalle strutture italiane con in cura i migranti; nè verso la Tunisia, o la piccola Malta. Ma verso l’Italia. Che diventa una gabbia legale per i migranti, poiché Francia, Svizzera, Austria e Slovenia hanno sigillato i loro confini, sospendendo il Trattato di Schengen per la libera circolazione delle persone. Ecco come i migranti vengono fisicamente “respinti” in Italia.
Il ruolo delle ONG è finito sotto la lente d’ingrandimento: dalle procure italiane e libiche sono partite accuse di fiancheggiamento ai trafficanti di esseri umani. Frontex ha definito l’attività delle ONG “pull factor”, cioè “attirano” la partenza di gommoni e imbarcazioni. Ad ogni modo quei corridoi, nonostante la presenza delle navi ONG a poche miglia dalle coste, sono comunque mortali: quasi in 2000 individui, nel 2017, hanno perso la vita. E questa operazione non è accompagnata da relative politiche europee di accoglienza.
L’unica politica da noi praticata, ci insegnano quotidianamente Medici Senza Frontiere, il Moas e la decina di altre ONG attive nel Canale di Sicilia, è salvare più vite possibili.
Un’operazione resa più difficile dopo l’ultimo vertice dell’Unione europea, a Tallin, Estonia, sul tema dell’immigrazione, e l’introduzione di un codice di condotta per le ONG: devono tenersi al di fuori delle acque libiche, e non possono in alcun modo rendersi disponibili a contatti con i trafficanti, nemmeno visivi.
Questo è lo scacco matto alle nostre identità: che le scelte dei governanti, spinte dalle nostre opinioni, siano funzionali alla morte di uomini e donne che s’incamminano sull’abisso del Mediterraneo.
Intanto, a sei anni di distanza, sappiamo che le logiche della guerra in Libia del 2011 sono state funzionali a causare questo disastro; l’intervento, spacciato per umanitario, aveva come obiettivi il cambio di un regime scomodo, e l’accesso più semplice a un petrolio molto pregiato. Con il risultato, come spiega Alberto Negri sul Sole 24 Ore, della perdita per Roma di un partner cruciale.
Per l’Italia le soluzioni della crisi, a livello politico e strategico, sembrano ancora lontane, soprattutto perchè gli altri Stati europei non vedono la rotta libica come un’emergenza: non è una crisi per il loro sistema Paese, né un dramma esistenziale per i singoli cittadini. E verrebbe da dire: in questa tragedia infinita s’annega il pensiero nostro. Ma questa nostra non è epoca di letteratura, oggi non è verbo da metafora: nel Canale di Sicilia le persone continuano ad annegare.
di Cristiano Arienti
In Copertina: Salvataggio nel canale di Sicilia – Foto Marina Militare / Reuters
Fonti e link utili
http://www.libertaciviliimmigrazione.dlci.interno.gov.it/it/documentazione/statistica/i-numeri-dellasilo
http://www.interno.gov.it/sites/default/files/dati_fenomeno_migratorio.pdf
http://missingmigrants.iom.int/mediterranean-migrant-arrivals-reach-81292-2017-1985-deaths
https://medium.com/@ghostboat