L’alleanza anti-Trump, e la corsa di Clinton verso la Casa Bianca
La corsa alla Casa Bianca sta prendendo le sembianze delle ultime presidenziali francesi: un vasto arco politico, dai liberal democratici ai neoconservatori repubblicani, è pronto a sostenere Hillary Clinton per arginare la calata di Donald Trump alla Casa Bianca; come in Francia tutte le forze parlamentari si compattano contro l’ultradestra LePenista, negli Stati Uniti si profila una competizione tra l’establishment e il populismo di destra: le forze politiche pro-Clinton vogliono mantenere il “business as usual”, il vero comandamento di Washington; i supporter di Trump puntano a stravolgere lo status-quo, soprattutto attraverso le politiche dell’immigrazione, dell’occupazione, e delle relazioni con i partner esteri.
Lo schema pro/anti establishment, in piccolo, si era imposto anche nel 2008, quando Barack Obama vinse le Primarie con lo slogan “we can change”, riferito al sistema simboleggiato dalla rivale Hillary Clinton. Nelle elezioni generali, però, i diversi ruoli tra democratici e repubblicani erano chiari, basati su valori di appartenenza riconoscibili, soprattutto in politica estera, in campo sociale, e nel settore economico.
Oggi il bipartito americano Democratici/Repubblicani si sta fondendo definitivamente, a tal punto che la Clinton, una democratica di destra, ha scelto come suo Vice-Presidente il Senatore Tim Kaine, un centrista neo-liberista; questo, nonostante quasi metà dei democratici, alle Primarie, avesse votato per Bernie Sanders, un socialista.
In molti Paesi europei le Primarie democratiche avrebbero rappresentato lo scontro tra le due maggiori coalizioni parlamentari.
Proprio grazie al successo riscosso da Sanders, per qualche settimana si è fatto con insistenza il nome della Senatrice Elizabeth Warren come possibile Vice della Clinton; la paladina del movimento OccupyWall-Street, negli ultimi anni, si è lanciata in una dura battaglia in sede legislativa contro le multinazionali finanziarie, implicate nella Crisi del 2007/08. Un mese e mezzo fa Warren si era detta disponibile a entrare nel ticket presidenziale con la Clinton, appoggiandola ufficialmente.
Kaine, se possibile, è il contrario della Warren: è a favore della deregolamentazione di Wall-Street; inoltre, sostiene il TPI (Trans-Pacific Partership), un accordo di liberalizzazione del commercio che rischia di destrutturare ulteriormente i settori manifatturiero e terziario americani, oltre a limitare il campo d’azione dei singoli Stati sul piano legislativo. Da Segretario di Stato, Clinton si era impegnata per finalizzare l’accordo tra i 10 Paesi membri, al quale manca solo la ratifica nei rispettivi Parlamenti. Sanders aveva fatto un’intensa campagna in opposizione al TPI, e al TTIP (Trans-Atlantic Trade and Investment Partnersip), l’omologo trattato fra Stati Uniti e l’Unione Europea.
La Clinton, per inseguire l’elettorato del Senatore del Vermont, aveva rinnegato il TPI, alimentando la speranza di un concreto disimpegno dei Democratici nei confronti di quel tipo di accordo, già sperimentato con il criticatissimo Nafta (North American Free Trade Agreement).
Durante la Piattaforma Democratica, l’organo di partito che ha modellato le politiche da implementare in un’eventuale Amministrazione Clinton, il TPI è rimasto nell’agenda finale; questo, nonostante Sanders avesse fatto pervenire quasi un milione di firme contro l’accordo.
Un altro punto caro a Sanders, alla Warren e ai progressisti in generale, è stato bocciato durante la Piattaforma del Partito Democratico: l’emendamento “Revolving Doors”; mirava a impedire a lobbisti e dirigenti di grandi multinazionali di entrare nel governo, magari approntare leggi a favore delle loro vecchie aziende, e poi accettare da queste ruoli una volta lasciati gli incarichi governativi. Un sistema che, negli ultimi decenni, ha passato leggi contro gli interessi di cittadini e consumatori.
Tuttavia alla Piattaforma Democratica i membri nominati da Sanders hanno portato a casa sostanziali vittorie:
– un’agenda aggressiva nella lotta ai Cambiamenti Climatici, la quale accelera la transizione energetica dagli idrocarburi alle rinnovabili (sebbene i membri pro-Clinton abbiano escluso un bando del fracking e la tassa sul carbonio)
– l’innalzamento del minimo salariale a 15$ all’ora, impensabile fino a qualche anno fa
– cancellazione parziale dei debiti degli studenti da parte del governo, un problema che potrebbe scatenare un’altra crisi finanziaria, e tenere milioni di giovani intrappolati in finanziamenti esorbitanti in un mercato del lavoro ridimensionato
– corsi universitari sussidiati dallo Stato per gli studenti delle fasce non ricche
– espansione del welfare e dello stato sociale (sebbene la sanità universale rimanga ancora un miraggio)
– grandi investimenti in opere pubbliche per rinnovare le infrastrutture e incrementare l’occupazione
Le indicazioni uscite dalla Piattaforma Democratica dovranno essere ratificate durante la Convention di Philadelphia, che inizia il 25 luglio; il linguaggio lascia spazio a interpretazioni: tuttavia l’attuale agenda è considerata la più progressista degli ultimi decenni. Sanders, pragmaticamente, lo considera il miglior risultato possibile per l’area progressista del Paese. Il fatto stesso di aver potuto nominare 1/3 dei membri della piattaforma democratica, grazie agli ottimi risultati elettorali, è di per sè una conquista.
In virtù dei lavori della Piattaforma democratica, il Senatore del Vermont, uscito sconfitto al termine delle Primarie, a metà luglio ha deciso di appoggiare ufficialmente Hillary Clinton.
L’endorsement da parte di Sanders e della Warren è anche il maggior successo politico di Hillary Clinton, malsopportata dalla sinistra perchè espressione degli interessi delle multinazionali, delle banche e del complesso militare-industriale (con la Clinton al Dipartimento di Stato, gli Stati Uniti hanno venduto più armi rispetto al secondo mandato di George W. Bush).
E’ per questo che uno zoccolo duro dei sostenitori di Sanders, circa il 20%, alle elezioni di novembre non voterà per la Clinton; a maggior ragione dopo lo scandalo del #DNCleak: circa 20.000 email interne al DNC (Partito Democratico Usa) sono state hackerate, e successivamente rese pubbliche da Wikileaks. Negli scambi di emal tra i vertici del Partito, emerge la parzialità del DNC a favore di Hillary Clinton, e contro il rivale Sanders. Di particolare gravità solo le email sulle Primarie in Rhode Island, dove viene velata la soppressione di voto, attraverso la chiusura di seggi elettorali, per favorire la Clinton; la conseguente inchiesta – si legge nelle email – veniva “gestita dalla Governatrice dello Stato, “una dei nostri”. Si tratta di un documento che aumenta i sospetti su altri Stati dove si sono verificate pesanti soppressioni di voto.
Il DNCleak è uno scandalo che ha già costretto alle dimissioni la Direttrice dei Democratici, Debbie Wasserman Schultz, una fedelissima dell’ex Segretario di Stato.
Nonostante la conferma che le Primarie fossero apertamente sbilanciate in favore della Clinton, la maggioranza degli elettori registratisi democratici, a novembre, si recherà ai seggi per evitare che alla Casa Bianca salga Donald Trump.
Incassata la promessa di più voti possibili dall’area liberal e progressista, la Clinton punta a incamerare i voti nell’area dei Repubblicani moderati, essendo gli indipendenti poco prevedibili.
La scelta di Kaine come Vice-Presidente serve a rassicurare i ricchi finanziatori della Clinton, dalle banche alle grandi multinazionali; ma anche tutti quegli elettori di destra che rigettano una presidenza Trump. La pragmatica mossa di Clinton facilita il compito dei tanti leader repubblicani sbilanciatisi in suo favore (o contro il candidato repubblicano): dai falchi di guerra Bill Kristol e Robert Kagan ai fratelli Koch, storici finanziatori dei Repubblicani e padroni di un impero del carbon-fossile; dalla famiglia Bush, secolare perno dei Repubblicani, a quasi tutti gli esponenti di punta del partito battuti durante le recenti Primarie; dall’ex Segretario del Tesoro e già Ceo di Goldman Sachs Hank Paulson, all’ex sindaco di New York Michael Bloomberg.
Il leader repubblicano Paul Ryan, però, ha appoggiato Trump alla Convention di Cleveland, dove è stata formalizzata la nomination del magnate di New York. Ryan ha difeso la sua scelta con una motivazione ineccepibile: l’elezione dei giudici alla Corte Suprema, un compito che spetta al Presidente degli Stati Uniti, non può restare – secondo lui – in mano democratica per altri quattro/otto anni. La Corte Suprema, composta da 9 giudici con mandato a vita, è responsabile di molte decisioni vitali per il Paese, ogni qualvolta il potere giudiziario viene chiamato a valutare il potere legislativo. Barack Obama, durante il suo mandato, ne ha nominati tre (l’ultimo, Merrick Garland, è in attesa del nullaosta di Camera e Senato).
Non è solo Ryan, un alfiere della’ala radicale dei Repubblicani, ad appoggiare Trump; anche l’ala militarista del Partito, incarnata dal Senatore John McCain, sostiene il vincitore delle Primarie. La scelta di Mike Pence come Vice-Presidente, poi, è emblematica: il Governatore dell’Indiana rappresenta l’America periferica profondamente conservatrice, colpita prima dalla Globalizzazione, e infine dalla Crisi del 2007/2008. Un’America, a torto o a ragione, intimorita da un’immigrazione percepita come fattore destabilizzante; impaurita di veder crollare ulteriormente il potere d’acquisto; dubbiosa che esista ancora il sogno americano.
“Make America Great Again – Farò tornare l’America grande” è lo slogan di Trump, e richiama a una specie di età dell’oro in cui l’economia era solida e i valori rassicuranti: il messaggio fa leva sulla rabbia di chi in questa decade ha visto il tessuto sociale intorno a sé ritrarsi e impoverirsi, lontano dalle luci stroboscopiche di Wall-Street, Washington e Hollywood.
Ed è un vero paradosso che sia Donald Trump, stella del capitalismo edonista degli anni ’80, a indicare la via del riscatto per le classi meno abbienti del Paese. E proprio lui accuserà i Clinton di essere gli eroi della finanza rapace degli anni 2000. Il candidato repubblicano rivuole la Glass-Steagall, la legge introdotta da Franklin Delano Roosevelt per evitare crack finanziari come quelli del 1929; il suo smantellamento proprio durante la Presidenza di Bill Clinton, è stato alla radice della crisi del 2007/2008.
Il candidato repubblicano, poi, promette di opporsi ai trattati commerciali come il TPI, per mantenere manifattura e occupazioni in America.
La visione di Trump, semplicemente, è il contrario delle politiche neoliberiste iniziate con l’era di Ronald Reagan e George H. W. Bush. A raccogliere il testimone di trent’anni di politica repubblicana, per quanto mitigata dalle concessioni strappate da Bernie Sanders, sarà proprio una democratica, Hillary Clinton.
Forse non basterà un’alleanza che copre un vasto arco della politica americana. I sondaggi vedono i due candidati oscillare in un testa a testa a livello nazionale. Negli “swing States”, in particolare Ohio, Michigan, Pennsylvania e Winsonsin, la visione di Trump, o la semplice idea di “fottere” l’establishment, sta attecchendo; se dovesse conquistare quegli States, Trump si garantirebbe la Presidenza, anche qualora perdesse l’altro Stato chiave, la Florida. E’ la lucida analisi di Michael Moore; il celebre cineasta sta cercando di aprire gli occhi ai suoi concittadini: Trump attualmente è il favorito, perchè ha un un messaggio, per quanto populista, divisorio e pericoloso. La Clinton può averne a volontà di messaggi, ma la sua storia dimostra che può dire tutto e il contrario di tutto pur di mantenersi al potere. L’idea che il Paese ha di lei è terribile: è considerata disonesta e inaffidabile dalla maggioranza degli Americani; ovvero il vasto arco degli elettori. Lo scandalo “emailgate”, se possibile, ha peggiorato questa percezione negativa. Per quanto i media siano dalla sua parte, Clinton ha un problema di credibilità, di trasparenza; quando parla, non ispira fiducia.
Il suo unico messaggio, al di là delle parole, ormai è arrivato chiaro e forte: mantenere intatto l’establishment di Washington.
Su questo si pronunceranno gli americani il prossimo novembre: bloccare nella sua corsa alla Casa Bianca un Donald Trump senza esperienza di governo, e con un approccio demagogico, e destabilizzante, alla politica; o eleggere Presidente una Hillary Clinton espertissima della Washington che ha trascinato l’America in due guerre infinite, e l’ha gettata in una delle più gravi crisi economiche della sua storia recente.
di Cristiano Arienti