Colonia e l’urlo contro l’altra metà del cielo
Era il luglio del 1992, pochi giorni prima dell’attentato di via D’Amelio. Mi ero perso negli occhi brillanti di questa milanese, Valeria, alla festa dei 18 anni di un mio coetaneo; era la prima volta che la incontravo. Le nostre bocche si dischiudevano in un’amabile conversazione sugli studi, sui progetti per le vacanze, e i sogni di tutta una vita di fronte; e io pensavo a come raggiungerle, quelle labbra. Anche in pista da ballo la marcavo, m’illuminavo come una lampadina ogni volta che posava i suoi occhi su di me; e brillo di speranza, con il coraggio di parecchi flûte di pinot buttati giù, ci provai. Valeria mi rimbalzò con eleganza, e con fretta io mi levai di torno. A fine serata, con più pinot in corpo, la filosofia del “non ho niente da perdere”, e il travisamento di un sorriso, l’affrontai di nuovo: Valeria era appoggiata a un tavolo, stupenda davanti a me, e provai a baciarla: più lei indietreggiava, più io mi sporgevo in equilibrio precario: finii per sdraiarla sul tavolo, con lei che cercava di levarmisi di dosso. Fu un mio amico ad aiutarla a sollevare quel fantoccio molesto che io ero diventato.
Mi consola che successivamente Valeria abbia accettato le mie scuse, e le nostre amabili conversazioni, seppur con un certo iniziale imbarazzo, siano continuate in amicizia. Ma ogni volta che ripenso a quell’episodio, lo provo ancora quell’imbarazzo,e forse qualcosa di peggio. E mi vergogno quando la mente ritorna ai tempi delle medie, e rivedo alcuni miei atteggiamenti volgari sulle mie compagne di classe. E mi dispiace per tutte le volte che ho manifestato gelosia e possessività nei confronti di mia sorella, durante la nostra adolescenza; capita che fosse bellissima: tutti i miei amici volevano uscire con lei, e nei locali i maschi le facevano una corte esagerata. Mi ci volle del tempo per capire che mia sorella non era “mia”, e che lei era libera di accettare la corte di un ragazzo come di rifiutarlo, ed era perfettamente autonoma nel mandarlo quel paese.
“Volevo indossare la libertà”
Negli anni, quella possessività per mia sorella si è trasformata in orgoglio: fa parte di quel 60% di donne che nel 2009 rappresentavano la classe medica “under 35” in Italia; la chiara dinamica di un’evoluzione del ruolo della donna, in un Paese arroccato per troppo tempo nel patriarcato.
Finalmente la nostra società sta cominciando a sfruttare le potenzialità dell’altra metà del cielo, visto che da tempo, all’università, le giovani sono più della metà degli studenti, e spesso hanno i voti più alti. Trovi donne ai vertici delle istituzioni e delle grandi aziende, e occupano posti chiave di imprese e istituti un po’ in tutti i settori. E’ vero che l’ascesa delle donne nei posti di comando, qui in Italia, è ancora limitata dalle conventicole di uomini al potere; ed è altrettanto vero che spesso i loro compensi sono inferiori, a parità di ruoli, rispetto a quelli dei loro colleghi. Per non parlare della penuria di strutture pubbliche, oltre che di mentalità, per sostenere le donne nei primi anni di maternità. E’ una realtà: partono da un trampolino di lancio sbilenco nel mondo del lavoro.
E’ ancora lunga la strada verso la pienezza delle pari opportunità; però oggi sarebbe impensabile nel nostro sistema Paese, e nel mondo globalizzato, ridimensionare le donne, fare a meno della loro voce, della loro esperienza, della loro visione. E’ una conquista frutto di decenni di lotte: dalle suffragette derise per strada perché chiedevano il voto, alle giovani partigiane in campo contro il nazi-fascismo; dalle operaie con in tasca la prima indipendenza economica, alle femministe degli anni ’70 e la loro battaglia di libertà nei rapporti con l’altro sesso, e di emancipazione negli spazi pubblici.
Ed è una lotta andata avanti per tutto il decennio successivo, se nel 1989 un libro intitolato Volevo i pantaloni diventò un best-seller, calamitando il dibattito pubblico per mesi, anni. L’autrice 19enne Lara Cardella raccontava la vita di una giovane siciliana vessata da una società patriarcale e una mentalità retrograda: a partire dalla proibizione di indossare certi abiti, a rigidi codici comportamentali da tenere in pubblico, dagli ostacoli per relazionarsi con l’altro sesso senza attirarsi insulti e pettegolezzi, al tentativo di violenza subìto tra le mura domestiche. Milioni di donne si identificarono con la protagonista del romanzo: era la denuncia pubblica di metà della popolazione italiana contro un Paese ritenuto “libero”, “progredito” e “moderno” dall’altra metà della popolazione.
Eppure bastarono una quindicina d’anni per farci dimenticare quanto fosse difficile, nel passato, nascere donna in Italia.
Nel 2007 il ministro dell’internò Giuliano Amato, di origine siciliana, osò paragonare i codici patriarcali degli immigrati pakistani a quelli in vigore in Sicilia, fino ad almeno gli anni ’70. Era ancora forte l’eco della morte della 20enne Hina Saleem, pakistana di Brescia, uccisa l’anno prima dai suoi familiari perché si stava “occidentalizzando”: si era innamorata di un italiano, e il suo disonore andava lavato col sangue. Secondo Amato non è l’Islam in sé a promuovere la violenza di genere, ma una mentalità tipica delle società patriarcali e arretrate.
La violenza di genere come crimine contro l’umanità
Nel cattolicissimo Messico, negli anni ’90 e 2000, si è assistito a una serie ininterrotta di femminicidi a Ciudad Juarez, nel nord del Paese. E sono quelle donne, quelle adolescenti, le vere protagoniste di 2666, il capolavoro di Roberto Bolaño: il romanzo è ambientato a Santa Teresa, mimesi letteraria di Ciudad Juarez: lì, le vittime scompaiono nel nulla, per poi riaffiorare cadaveri in discariche di periferia, in terreni disabitati, mezzo-sotterrate in zone desertiche.
A un certo punto della storia, quando ancora non è ben chiaro chi ci sia dietro alla ridda di femminicidi, il newyorchese Fate, uno dei personaggi, pone una domanda a un padre che gli ha appena chiesto di portarsi dietro la figlia negli Stati Uniti:
“Pensi che Chucho Flores sia implicato negli omicidi?”
“Ci sono dentro tutti”, è la generica risposta di Amalfitano, il padre della ragazza; il professore di Barcellona, da poco ingaggiato dall’Università di Santa Teresa, ha intuito la tragica realtà dei fatti, pur senza uno straccio di prova: gli è bastato respirare il clima di apatia nonostante il ritrovamento di così tante donne ammazzate con addosso i segni della violenza.
In alcuni casi i colpevoli, si scopre o si sospetta durante le indagini, sono mariti, fidanzati, colleghi, malavitosi, predatori sessuali, pedofili, gang di ragazzini annoiati; in altri casi, le piste che porterebbero a “intoccabili”, ad esempio narcotrafficanti o figli di gente in vista, vengono insabbiate. In questo panorama “machista” e corrotto, dagli strati più poveri fino ai vertici apicali della società, nessuno è estraneo, come afferma Amalfitano; in quella città, in quella società, si tollera che la donna sia una preda sessuale, con o senza il suo consenso: i rapimenti e gli omicidi sono solo la punta di un iceberg.
In 2666 i femminicidi occupano una sezione di 400 pagine, e vengono descritti con lo stile della cronaca, uno dietro l’altro, con la cadenza di un bollettino dal fronte: acquisiscono una corporeità spazio-temporale, come se a Santa Teresa si consumasse una guerra, con un inizio, una tregua, e una pace che non arriva mai. La violenza di genere, nella cornice di un luogo sì letterario, ma verosimile, può così essere accostata ad altri buchi neri nella storia dell’umanità, anch’essi affrontati nel romanzo: il femminicidio è l’Olocausto nei campi di sterminio nazisti, è come le Grandi Purghe del ’36-37, quando Stalin liquidò milioni di persone in odore di infedeltà al tiranno.
La lotta senza quartiere, ovunque
La violenza contro le donne è un male con la “M” maiuscola; sia essa intesa ad eliminarle, a degradarle, a sottometterle, a terrorizzarle. Roberto Bolaño ce lo fa capire raccontando il fenomeno nelle sue forme più brutali; tuttavia i segnali di questo Male sono tutt’oggi intorno a noi, anche qui in Europa, e nella nostra “libera”, “progredita” e “moderna” Italia.
Secondo una ricerca dell’Istat riferita al 2014, il 31% delle italiane ha subito una qualche forma di violenza fisica o sessuale nella loro vita; 1,3 milioni di donne in Italia sono state oggetto di stupro o tentato stupro; nel 62% dei casi, l’aggressore era un partner o ex partner; anche parenti e amici rientrano nella casistica. Non basta: oltre 3 milioni di donne sono state vittima di stalking nella loro vita.
Essi vivono tra noi: gli uomini che minacciano, picchiano, aggrediscono e stuprano le donne, nella maggioranza dei casi, conoscono le loro vittime.
Invece, per quanto riguarda le molestie fisiche sessuali, nel 78% dei casi gli aggressori sono sconosciuti. Quattro donne su cento, ovvero quasi un milione, ammettono di essere state oggetto di questo tipo di violenza negli ultimi cinque anni.
Personalmente, sono stato testimone di tre casi nell’ultimo anno e mezzo.
Ho visto un signore molestare una giovane in una carrozza della metro, a Milano; la violenza si è consumata così velocemente, e in un contesto all’apparenza normale, che la ragazza stessa ha faticato a rendersi conto della natura libidinosa di quelle “spinte”: più lei si spostava, più lui le si faceva sotto. L’uomo è sceso dalla carrozza quando ormai aveva attirato troppa attenzione, ma nessuno ha addossato su di sé la responsabilità di affrontarlo.
Ho sorpreso un uomo tastarsi nelle parti intime mentre fissava una quattordicenne, abbastanza ignara di come dovesse reagire. Brandendo un ombrello, ho minacciato l’uomo di chiamare la polizia se non se ne fosse andato immediatamente.
Ho avvisato le forze dell’ordine di un tentativo di aggressioni fisica ai danni di una donna a opera di un uomo, nella centralissima via Palazzi, a Milano. Erano le due di notte circa, a venti metri dal viavai di Corso Buenos Aires.
E’ una conferma che nessuna donna è al sicuro da questo tipo di violenza. Lo ha scritto molto bene Giulia Blasi nel suo saggio La Colonia in sé, la Colonia in te, parlando con coraggio della prima molestia subita, all’età di 13 anni:
“Una bambina che cammina sotto i portici di Pordenone, non può farlo senza guardarsi attorno con sospetto. […] In 43 anni che sto sul pianeta femmina, ho imparato che non ho il diritto, in quanto femmina, di usare lo spazio come un uomo”.
E’ una lezione di vita vissuta, quella della Blasi, proposta per analizzare i fatti di Colonia, di cui tutta Europa ormai parla da due settimane.
Nella notte di Capodanno centinaia di tedesche sono state molestate in massa nell’arco di qualche ora, in un’area delimitata tra la piazza della basilica, la stazione, e le vie adiacenti; una zona vigilata da oltre 150 agenti di polizia, i quali non hanno compreso la gravità della situazione, e sicuramente non sono stati in grado di arginarla.
Il livello di impunità delle aggressioni è stato tale, che il giorno dopo la polizia ha emesso il seguente comunicato: “In un’atmosfera allegra, le celebrazioni di Capodanno si sono svolte in maniera pacifica”.
Dopo quattro giorni di tam-tam sui social network, e oltre 60 denunce per aggressione sessuale, i cittadini di Colonia hanno realizzato che qualcosa, nella notte di Capodanno, era andato terribilmente storto.
Il caso è diventato politico in tutta la Germania, quando la polizia della città ha ammesso che la situazione era fuori controllo per via di un migliaio di uomini di origine nordafricana e araba particolarmente ubriachi e agitati; il profilo peraltro descritto dalle donne che, in numero esponenziale, si stavano presentando alla centrale per denunciare di essere state aggredite a Capodanno.
Alcune delle vittime hanno raccontato la loro esperienza a giornali e organi di stampa, e l’eco delle loro interviste si è diffuso in tutta Europa. Nei giorni successivi, mentre il capo della polizia della città è stato costretto alle dimissioni, i vertici dello stato tedesco si chiedevano questo: come è stato possibile un simile attacco alle donne, alla luce dei lampioni di una delle piazze centrali di Colonia.
A oggi sono state messe a verbale oltre 500 denunce, da dove emerge la dinamica della violenza: le donne venivano circondate, o si ritrovavano circondate, da gruppi più o meno numerosi di uomini, e in quella calca erano oggetto, oltre che di taccheggio, di ripetuti palpeggiamenti, strusciamenti, e anche tentativi di penetrazione. Ci sono stati anche tre tentativi di stupro.
Finora sono state fermate 31 persone, di cui solo 5 non di origine araba o nordafricana; non è nemmeno chiara la loro posizione rispetto alle aggressioni di massa, se vi abbiano partecipato o meno. Diciotto di queste persone sono richiedenti di asilo, un dettaglio che ha scatenato, in Germania e in tutta Europa, una polemica sulla gestione dei flussi migratori, e dell’accoglienza riservata ai profughi di guerra di Siria e Iraq.
L’accusa, in sostanza, è che stiamo accogliendo centinaia di migliaia di uomini che, per formazione, hanno una visione della donna molto diversa dall’europea libera ed emancipata a cui ormai siamo abituati. Un flusso che va ad aggiungersi ai milioni di nordafricani e mediorientali giunti in Europa negli ultimi 10 anni, e in particolare dopo le Rivolte Arabe.
Sono principalmente le destre a descrivere il “maschio islamico” come propenso a sottomettere la donna, e deviato dalla “cultura dello stupro”.
Molte voci si sono opposte a questa lettura dei fatti di Colonia; la giudicano una degradante strumentalizzazione delle donne in nome di agende politiche xenofobe; a maggior ragione con la denuncia, dati Istat alla mano, di una vera e propria guerra di genere in Europa per mano del maschio europeo. Secondo una ricerca dell’Agenzia dell’Unione Europea per i diritti fondamentali, il 55% delle europee ha subito una qualche forma di molestia sessuale nel corso della propria vita, rappresentante di quasi 100 milioni di femmine.
Forte di questi numeri e altre considerazioni sulla difficoltà a essere donna in Italia, Giulia Blasi, sempre nel suo La Colonia in sé, la Colonia in te, conclude: “non è dell’Islam che bisogna aver paura, non sono gli immigrati a portare la violenza e la sottomissione delle donne. […] Smettiamo di sentirci superiori: non abbiamo niente da insegnare a chi arriva qui. Tra il nostro mondo e il loro c’è solo una fragile barriera di una legge che in un attimo può essere cancellata, perché in fondo si pensa che la libertà delle donne sia già troppa.”
E’ l’uomo in sé che va temuto, portatore di cellule che, per genetica o per stimoli esterni, possono attivarsi, e scatenare la violenza contro le donne, o ricacciarle in uno stadio di sottomissione.
Affinché queste cellule rimangano inattive, le italiane e le europee hanno lottato duramente; nelle parole di Franca Fossati, dopo decenni di sforzi per influenzare la società, le donne hanno raggiunto un risultato prezioso: “la trasformazione dell’atteggiamento degli uomini, di molti, nell’educazione paritaria dei figli e delle figlie, nella reciprocità dei rapporti d’amore, nel non nascondere sotto la maschera di una virilità prepotente la propria vulnerabilità”.
La Colonia in me
Anche io ho scritto un pezzo sui fatti di Colonia, pubblicato lo scorso 9 gennaio su questo blog, e pure io ho parlato di un episodio di vita vissuta, accaduto in Toscana una dozzina di anni fa: dei giovani magrebini, qualche decina, entrarono in un locale e si fiondarono sulle ragazze, accerchiandole; cercavano il contatto fisico in modo così molesto, che nel giro di pochi minuti la pista da ballo si svuotò. Intervenni personalmente per aiutare a una ragazza a levarsi di dosso uno di loro: rischiai pure di prenderle.
Non ho potuto fare a meno di ripensare a quella serata in Toscana, mentre leggevo i rapporti della Polizia di Colonia sulle aggressioni, e ascoltavo le vittime raccontare la loro esperienza, ad esempio, Selina di Coblenza, o Michelle.
I due episodi presentano delle somiglianze: gruppi di uomini di origine magrebina o araba alla caccia di ragazze, pronti a molestarle; e nel caso di Colonia, a perpetrare vere e proprie aggressioni sessuali. Di episodi simili ne abbiamo sentito l’eco dall’Africa del nord, anche recentemente, durante manifestazioni o celebrazioni di piazza.
Nonostante abbia evidenziato come la violenza sulle donne non è legata a un’etnia o a una religione, il pezzo si prestava a una lettura dicotomica tra bene e male; dove io, italiano, rappresentavo il bene, e i giovani magrebini il male.
E’ stata proprio Giulia Blasi a farmi riflettere: quel “la Colonia in te” mi è risuonato nella testa come un campanello, l’allarme di una sveglia. Ma io chi sono per parlare? Ho requisiti di superiorità morale per insegnare come comportarsi a chi arriva da noi? Davvero io non mi sono mai reso responsabile di gesti o atteggiamenti squalificanti nei confronti delle donne?
E’ così che ho ripescato nella memoria episodi in cui il male, grande o piccolo che fosse, ero io; mi sono specchiato in lati della mia personalità, passata e presente, assimilabili alla cultura maschilista.
Ma non basta, mi sono chiesto: raccontando di quella serata in Toscana, ho strumentalizzato i fatti di Colonia e il corpo delle donne, agitandoli contro lo spettro degli immigrati? Ho fornito un assist a chi mette in discussione il principio di accoglienza da chi fugge dalle guerre, dalla miseria, dalla fame? E’, il mio, un pezzo islamofobico?
Negli ultimi giorni è emerso che la reticenza della Polizia di Colonia a parlare delle molestie di Capodanno non è un caso isolato; anche in Svezia, per due anni di fila, le autorità hanno taciuto due episodi di aggressioni di massa perpetrati da rifugiati al festival musicale di Stoccolma: gruppi di afghani circondavano le donne e le molestavano. La Polizia svedese, nei suoi rapporti, aveva scritto di “non aver mai visto un simile modus operandi”. E’ la stessa tecnica usata in Germania. La ragione di questo “insabbiamento” risiede nella paura di aizzare la xenofobia, facendo il gioco delle destre, ostili all’attuale gestione dei flussi migratori.
Avrei fatto meglio a sorvolare su quella memoria per non contribuire al clima xenofobo che da anni si respira in Italia? Dovevo sottoscrivere una lettura dei fatti di Colonia come espressione di un mondo maschilista e patriarcale, e quindi tacere su una dinamica di molestia che, avendola vista con i miei occhi, ho riconosciuto?
Se ne ho scritto, è perché avevo – ho – paura che quel tipo di aggressioni di massa venga replicato in futuro in luoghi pubblici come grandi piazze, stazioni, mercati, centri commerciali, parchi; o durante manifestazioni, concerti, cortei.
Avevo – ho – paura che il fenomeno delle molestie di massa viste a Colonia eroda la libertà di circolazione delle donne della mia vita, oltre che delle mie concittadine. O la libertà di circolazione delle stesse immigrate, che magari fuggono proprio da quel tipo di aggressioni.
Non sto strumentalizzando il “corpo delle donne” per dar contro agli immigrati; non voglio insegnare qualcosa a quelli che arrivano qui: sono mosso da affetto per le donne della mia vita, e solidarietà per le donne tutte.
La Colonia in loro
Solo nel 2015, ufficialmente, sono giunti in Europa oltre 1 milione di migranti sulle coste della Grecia e dell’Italia; la maggior parte sono richiedenti asilo in qualità di profughi di guerra: provengono dalle regioni martoriate della Siria e dell’Iraq, dall’Afghanistan e dal Pakistan dilaniati dai Talebani; dalla Somalia allo sbando e dalla poliziesca Eritrea; e poi si contano libici, nigeriani, sudanesi, centroafricani, curdi,egiziani, iraniani, palestinesi. Molti di loro scappano anche da guerre iniziate o peggiorate dai Paesi occidentali.
In via teorica, potrebbero essere decine e decine di milioni le persone con i requisiti adatti per essere accolti nell’Unione Europea come richiedenti asilo, qualora mettessero piede sul continente di Bruxelles, o presentassero domanda nei consolati. Senza contare i milioni di overstayers, ovvero extracomunitari giunti in Europa con visti regolari, rimasti qui anche dopo la scadenza.
In futuro gli arrivi potranno essere molti di più; si dovranno sommare i profughi climatici di varie aree del pianeta, con cui, presto o tardi, dovremo fare i conti. Già oggi, per altro, ottengono asilo anche i rifugiati economici come algerini, marocchini e tunisini.
Profughi, rifugiati climatici e immigrati economici puntano all’Europa per un motivo: vogliono migliorare le loro condizioni di vita. E’ utopico pensare di fermarli, senza un progetto di pace e stabilità in quelle regioni.
Questa ondata migratoria, questo vero e proprio esodo, sta mettendo in crisi l’Unione Europea: complici anche gli attentati terroristici di Parigi del 2015, quasi tutti gli Stati stanno attuando controlli sistematici alle frontiere per controllarne i flussi; un modo per disconoscere il Trattato di Schengen per la libera circolazione delle persone; la politica comunitaria per l’accoglienza dei migranti, poi, si sta rivelando un fallimento: su 160.000 profughi da distribuire negli Stati dell’Unione europea, per ora solo poche centinaia sono giunte a destinazione.
Anche la Germania, che inizialmente si era dichiarata disponibile ad accogliere alte quote di profughi, sta facendo marcia indietro dopo i fatti di Colonia.
Stati come la Repubblica Ceca, l’Ungheria e la Polonia, chiudono le porte ai migranti o profughi musulmani: temono che una cultura così forte non sia assimilabile nelle loro società; per questo, i Paesi dell’Europa orientale si stanno attirando le accuse di islamofobia: è una politica in contrasto con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, la quale vieta la discriminazione in base all’etnia o alla religione.
Purtroppo, molti articoli della Carta, che protegge i nostri diritti di individui e di cittadini, sono in conflitto con i sistemi giuridici di molti Paesi nel mondo; in particolare dove vige la Sharia, che riconosce una superiorità dell’uomo sulla donna: la legge coranica è adottata per dirimere le questioni private in tutti i Paesi a maggioranza musulmana; in quasi tutti i Paesi del Medio Oriente è il sistema giuridico dello Stato.
E va sottolineato che dalla Nigeria alle Filippine, vi sono forze che con la prepotenza cercano di imporre una visione ultraconservatrice dell’Islam, e gruppi terroristici che con la violenza tentano di diffonderne una versione perversa.
La donna, con le Rivolte Arabe, sperava di librarsi in una nuova dimensione: la sua vita, se possibile, è peggiorata.
Come detto, è da quei Paesi che, da anni, arrivano molti profughi ed immigrati economici: da aree con bassa scolarizzazione delle bambine, matrimoni combinati, infibulazione; integrarli nel nostro sistema di valori e libertà, senza negare la loro professione di fede, è una delle sfide del nostro tempo.
Ecco il pensiero dello scrittore Kamel Daoud, a commento dei fatti di Colonia: “In alcuni casi il rapporto tra rifugiato e immigrato con la donna – fondamentale per la modernità occidentale – rimarrà incomprensibile, e ne negozierà i termini per paura, compromesso, e desiderio di conservare la propria cultura. Non basta munirlo di pezzi di carta e offrirgli un giaciglio: occorre convincere l’anima a cambiare: proviene da quel vasto universo di atrocità e dolori che è la miseria sessuale del mondo arabo-musulmano. Il rapporto con la donna è il nodo gordiano nel mondo di Allah: la donna è negata, uccisa, rinchiusa, velata o posseduta. Il corpo della donna è il luogo pubblico della cultura: appartiene a tutti, ma non a lei.”
E’ il patriarcato nella sua forma più regressa quello con cui si confrontano le donne che vivono nei Paesi musulmani.
Quel patriarcato che le donne europee sperano di essersi lasciate alle spalle per sempre.
Ancora, nelle parole di Franca Fossati: “Le donne, nel loro cammino, hanno avuto la capacità di influenzare l’insieme della società: di conseguenza le costituzioni, le leggi, gli ordinamenti che delegittimano la discriminazione, che sanzionano le prepotenze e le aggressioni. Ancora troppo poco? Troppo contraddittorio? Lo sappiamo, ma da qui in ogni modo non si può tornare indietro. E questo deve rimanere forte e chiaro, di fronte agli uomini di casa nostra, patriarchi in crisi o in trasformazione, o a profughi e immigrati privi di tutto, ma non del potere patriarcale sulle donne.”
Le urla contro l’altra metà del cielo
Il lungo cammino delle donne per influenzare l’insieme della società ha avuto, spesso, un particolare sottofondo sonoro: le urla.
Le urla terrorizzate per richiamare l’attenzione durante un tentativo di stupro o di aggressione; le urla se ricevono maltrattamenti, o botte da mariti ubriachi. Le urla di protesta di ragazzine contro padri-padroni. Le urla megafonate durante i cortei, per rivendicare diritti di genere delle donne. E poi le “urla” metaforiche contenute nelle pagine di poesie, liriche, articoli di giornale, saggi e romanzi; e le urla di tutto il corpo politico del femminismo. Le urla indignate nei parlamenti, ogni volta che dei disegni di legge in loro favore non passano; e le urla disperate nelle aule di tribunale, contro l’ingiustizia di crimini di genere impuniti. E tutte le urla represse per paura, per vergogna, per disincanto. E infine, le urla di dolore e liberazione durante il parto, promemoria che le donne, sempre, avrebbero bisogno del massimo sostegno della comunità nei mesi delicati della gravidanza.
Per ognuno di quegli urli, degli uomini sono stati costretti a voltarsi, e guardare, e fare una scelta: alcuni ascoltano le voci delle donne, e decidono di aiutarle, di sostenerle nella loro visione di società; altri fanno finta di niente, restano insensibili a quelle voci; altri ancora agiscono per aumentare il tormento delle donne, e perpetuare quelle urla.
Come è accaduto a Colonia: le donne, sentendosi addosso le prime mani, provavano a divincolarsi, a ribellarsi, e protestavano mentre si ritrovavano accerchiate; molti degli uomini che ascoltavano le loro “urla” restavano immobili, complici; altri hanno atteso il loro turno per allungare mani moleste.
Non tutti però. Caitlin, in vacanza a Colonia con il fidanzato, nella notte di Capodanno si è ritrovata sola; gruppi di uomini l’hanno assaltata due volte; terrorizzata e piangente, è stata soccorsa da Mohammad, insegnante di Aleppo. Insieme ad altri rifugiati siriani, Mohammad ha creato un cordone di scorta per la ragazza, aiutandola a ritrovare il suo fidanzato.
Sono sicuro che Mohammad, in quella festa estiva poco prima dell’attentato di via D’Amelio, avrebbe soccorso Valeria, sdraiata su un tavolo: l’avrebbe aiutata a levarsi di dosso quel fantoccio molesto che io ero diventato; e lo stesso avrebbero fatto altri uomini di quei Paesi, dove è ancora troppo inascoltato l’urlo delle donne contro l’altra metà del cielo.
Di Cristiano Arienti
In Copertina: il deserto di Sonora, Messico
Fonti e link utili
http://www.repubblica.it/esteri/2016/01/10/news/colonia_molestie_capodanno_un_articolo_dello_scrittore_algerino_daoud-130973948/?refresh_ce
http://www.istat.it/it/archivio/161716
http://www.istat.it/it/files/2015/06/Violenze_contro_le_donne.pdf?title=Violenza+contro+le+donne+-+05%2Fgiu%2F2015+-+Testo+integrale.pdf
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