Unione europea e clima: la rivoluzione delle rinnovabili
Sarà la Francia, un Paese dell’Unione europea, a ospitare la COP21 (Ventunesima Conferenza delle Parti): in quella sede la comunità internazionale si riunirà dal 30 novembre al 11 dicembre per siglare un accordo sul Clima, e rinnovare la lotta ai Cambiamenti Climatici iniziata con il Protocollo di Kyoto. Da buon padrone di casa, il Presidente francese François Hollande farà da regista alla Conferenza, chiederà a tutti uno sforzo per ottenere un risultato concreto: ridurre il più possibile le emissioni di gas serra, causa del Riscaldamento Globale, nel breve e nel lungo periodo. In questa impresa, Hollande è sostenuto da tutti i membri dell’Ue, che da tempo si sono dati obiettivi ambiziosi nella lotta ai Cambiamenti Climatici. Già nel 2009 è entrato in vigore il “Piano 20-20-20”, un insieme di misure nel settore energetico che prevede: la riduzione del 20% delle emissioni di CO2 (biossido di carbonio) rispetto ai livelli del 1990; l’abbattimento del 20% del consumo di energia primaria; e l’aumento del 20% di energia prodotta attraverso le fonti rinnovabili. Il piano è entrato a regime nel gennaio 2013, e gli obiettivi vanno raggiunti entro il 2020; attualmente, la CO2 è stata ridotta già del 19%, sebbene la Crisi economica sia stata un fattore sul calo del consumo di energia, e quindi di produzione di gas serra.
A Parigi, i 28 membri dell’Unione europea siederanno al tavolo negoziale con un lungimirante programma di politica energetica: l’INDC (Intended Nationally Determined Contribution) fatto pervenire alle Nazioni Unite in vista della COP21, prevede una riduzione di gas climalteranti su base annua, nella misura del 40%, rispetto ai livelli del 1990, entro il 2030. Per rispettare questo obiettivo, l’Unione europea adotterà misure di controlli periodici, ed eventuali sanzioni, qualora uno Stato membro si sottraesse agli impegni da sottoscrivere; misure peraltro già previste per l’implementazione del “Piano 20-20-20”. Come base metodologica per delineare questi obiettivi, l’Unione europea ha utilizzato il Quarto Rapporto di Valutazione dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), il foro scientifico delle Nazioni Unite per lo studio dei Cambiamenti Climatici; l’obiettivo ultimo dell’Ue, condiviso in linea di principio dalla comunità internazionale, è mantenere l’aumento delle temperature globali sotto i 2°C, rispetto ai livelli pre-industriali, entro il 2100.
Nell’INDC dell’Ue è contenuto un vero e proprio programma di transizione economica; dalla produzione e consumo di energia ai processi industriali e agricoli, dalla gestione del suolo a quello dell’acqua fino allo smaltimento dei rifiuti: l’intero sistema-continente verrà proiettato verso un’economia con basso utilizzo del carbon-fossile. Contando sul raggiungimento dei target fissati per il 2030, l’Ue si propone di tagliare ulteriormente la CO2 dell’80-95%, rispetto ai livelli del 1990, entro il 2050.
Il Presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, durante il Discorso sullo Stato dell’Unione dello scorso 9 settembre, ha dichiarato: «L’Ue è in prima fila nella lotta ai Cambiamenti Climatici, non si accontenterà di un semplice accordo alla COP21 di Parigi: chiede che sia ambizioso, robusto, e vincolante».
Per comprendere meglio la portata del piano dell’Unione europea nella lotta ai Cambiamenti Climatici, e quanto sia effettivamente realizzabile, abbiamo chiesto un parere a Marzio Galeotti, Professore ordinario di Economia dell’Ambiente e dell’Energia nell’Università degli Studi di Milano.
L’accordo di Parigi ci sarà? L’Unione europea chiede che sia vincolante; nel caso i grandi Paesi produttori di CO2, e penso a Stati Uniti e Cina, non fossero disponibili a questo tipo di accordo, che conseguenze ci sarebbero a Bruxelles?
Innanzitutto penso che un accordo a Parigi ci sarà; nell’ultimo anno si sono visti diversi segnali positivi, a partire dall’accordo bilaterale dello scorso novembre 2014 fra Cina e Stati Uniti: i due Paesi hanno dichiarato di accettare vincoli quantitativi sulla riduzione delle emissioni di gas climalteranti, e anche sulla produzione di energia da fonti rinnovabili. Bisognerà capire se quello di Parigi sarà un accordo credibile: cioè se tutti i Paesi, o comunque i maggiori Paesi produttori di CO2, accetteranno un sistema di monitoraggio, verifica con eventuali sanzioni, allo scopo di raggiungere gli obiettivi prefissati negli INDC. Tuttavia, anche se l’accordo dovesse essere al ribasso, le politiche Ue sul Clima e in campo energetico non cambierebbero molto: Bruxelles si è data dei target precisi di riduzione di CO2; bisogna prendere atto che in Europa ormai è in corso una rivoluzione in campo energetico: il futuro è delle fonti rinnovabili.
Un futuro che si intravede leggendo l’INDC dell’Unione europea; si può parlare, perciò, di un cambio di paradigma nel settore energetico: quanto è realistico?
Ormai i Cambiamenti Climatici sono visibili un po’ a tutti, come, per esempio, le ondate di calore, o gli altri eventi climatici estremi. Un recentissimo studio prevede che nel Medio Oriente la temperatura a fine secolo raggiungerà i 70°C. L’idea che si debba fare qualcosa per limitare il Riscaldamento Globale sta entrando nella testa della gente: chi si oppone farà sempre più fatica a convincere gli altri del contrario. La transizione energetica di cui si parla, inoltre, non è legata solo alla lotta ai Cambiamenti Climatici: in Cina l’inquinamento atmosferico è un grosso problema pubblico; i Paesi europei devono fare i conti con la dipendenza da fonti fossili, che provengono principalmente da regioni extra-europee: le rinnovabili, quindi, diventano importanti anche da un punto di vista strategico.
Attualmente il nucleare rappresenta all’incirca il 13% della produzione di energia nell’Unione europea: se l’obiettivo è un futuro decarbonificato, che ruolo gioca l’energia nucleare?
In Europa il nucleare non ha futuro. I Paesi che non ce l’hanno, di certo non lo installeranno: i costi sono alti in partenza, sono sempre destinati a salire, e i tempi si dilatano, come dimostra la centrale finlandese di “Olkiluoto 3”. Per quei Paesi che il nucleare ce l’hanno già, la questione non è poi tanto diversa: gli impianti esistenti invecchiano, e dovranno essere sostituiti; ma è difficile pensare che, con le nuove tecnologie a disposizione, quei Paesi intendano mantenere quote di energia nucleare così alte. La Germania, infatti, ha già abbandonato questa tecnologia.
Però in Europa esistono delle resistenze per l’implementazione delle energie rinnovabili. Secondo lei, è più facile che nascano nuovi soggetti nel settore energetico, velocizzando la transizione, oppure quelli vecchi vorranno mantenere la loro posizione dominante anche nel mercato delle rinnovabili?
E’ in atto uno scontro fortissimo tra produttori tradizionali di energia elettrica, e le nuove realtà che avanzano: i primi, ad esempio, cercano di descrivere l’utilità e la necessità del gas naturale; per certi aspetti ciò è anche condivisibile, soprattutto se si considera il gas naturale come un combustibile di transizione verso le rinnovabili. I produttori tradizionali, poi, cercano di instillare il dubbio che le rinnovabili non potranno mai soddisfare i picchi di fabbisogno energetico, ad esempio in estate, quando in certe aree non si può fare a meno degli impianti di condizionamento. In questo scontro, le imprese più avvedute, quelle che sapranno meglio diversificare la produzione di energia, saranno avvantaggiate. E’ vero, gli azionisti guardano al profitto, e le grandi società energetiche non possono mettere da parte, dall’oggi al domani, investimenti ed esperienza nel carbon-fossile; è un peccato, però, vedere che molti produttori europei di energia combattano una battaglia di retroguardia: dovrebbero attrezzarsi per il futuro.
di Cristiano Arienti