Il Clima impone una transizione economica
Lo scorso 28 ottobre, in un dibattito aperto al pubblico, il Segretario Esecutivo delle Nazioni Unite per il Clima Christiana Figueres ha dichiarato: «I piani nazionali per il contrasto ai cambiamenti climatici rappresentano dei veri e propri programmi di investimento». Si riferiva agli INDC (Intended Nationally Determined Contribution), i contributi che 195 Paesi (più l’Unione europea) mettono sul tavolo della COP21 (Ventunesima Conferenza delle Parti), che si terrà a Parigi dal prossimo 30 novembre: concepiti per ridurre le emissioni di gas serra da qui al 2050, in realtà gli INDC aprono la strada a un mondo decarbonificato, che sfrutterebbe solo le energie rinnovabili. Figueres si dice ottimista sul fatto che si troverà un accordo, migliorando l’attuale UNFCCC (Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici Clima), cioè il Protocollo di Kyoto, sottoscritto da oltre 180 Paesi nel 1997; e se gli impegni da prendere a Parigi, in futuro, verranno rispettati, nell’arco di qualche decennio si assisterà a un “cambio di paradigma economico”, come lo definisce il geofisico e divulgatore scientifico Gianluca Lentini, del Consorzio di ricerca Poliedra-Politecnico di Milano. Gli abbiamo chiesto di parlarci degli obiettivi della COP21, della lotta ai Cambiamenti Climatici, e della portata di un accordo che passerà alla storia.
La COP15 di Copenaghen, nel 2009, è ricordata come il fallimento della diplomazia internazionale nella lotta ai Cambiamenti Climatici; però in quella sede si è fissato un limite di innalzamento della temperatura globale: sotto i 2°C, rispetto all’epoca pre-industriale, entro il 2100: è un obiettivo realistico? A che punto siamo nella lotta ai Cambiamenti Climatici?
Ci sono due considerazioni da fare per rispondere a queste domande; la prima: se guardiamo ai dati, la soglia dei 2°C è molto ambiziosa, direi irrealistica. La concentrazione di CO2 (biossido di carbonio) nell’atmosfera ha superato il livello record di 400 ppm (parti per milione); in epoca pre-industriale non si andava oltre le 150-200 ppm; per restare sotto i 2°C entro la fine del secolo, è necessario rimanere entro le 450 ppm. Ammettiamo che alla COP21 di Parigi la comunità internazionale sottoscriva un accordo vincolante, e in futuro riduca i gas serra rispettando gli impegni promessi negli INDC: entro il 2100, quindi, la temperatura si alzerebbe comunque fra i 2,8°C e i 3,6°C. E’ uno scenario preoccupante, perché la soglia dei 2C° verrebbe superata; ma è migliore rispetto all’ipotesi che la comunità internazionale rimanga inerte. E questo mi porta a una seconda considerazione, rassicurante: è cambiato l’approccio; prima l’UNFCCC dichiarava un obiettivo di riduzione di gas serra, e chiedeva ai Paesi più industrializzati di farsi carico del problema: un approccio “top-down”, mantenuto fino alla COP15 di Copenaghen. Dopo il parziale fallimento di quella Conferenza, l’UNFCCC ha cambiato strategia: ha chiesto al singolo Paese, anche ai meno sviluppati, che tipo di contributo sia disposto a offrire; un approccio “bottom-up”. In questo modo si responsabilizza ogni componente della comunità internazionale, e tutti sono coinvolti nella lotta al Cambiamento Climatico.
Nei piani a lungo termine degli INDC, molti Paesi pianificano di ridurre i gas serra dell’80-90% entro il 2050; si parla quindi di una vera e propria transizione economica, dal carbon-fossile alle rinnovabili; attualmente, la proporzione tra carbon-fossile e rinnovabili (da cui si esclude il nucleare) è di 85% contro 15%: quanto è fattibile una transizione al solare, eolico, biomasse, marino? Contando che vi sono aree geografiche con aumento della popolazione e domanda di energia crescente?
E’ vero, l’obiettivo della COP21, a lungo termine, è un cambio di paradigma nel settore energetico e nei trasporti, verso una decarbonificazione pressoché totale. Per adesso, carbone, gas e petrolio sembrano insostituibili, ma lo scenario sta cambiando rapidamente: da qualche anno si investe più nelle rinnovabili che nelle fonti di energia tradizionali. Si sta imponendo l’idea che il solare e l’eolico saranno le fonti di guadagno del futuro. Con la spinta dell’interesse economico, il cambio di paradigma, quindi, potrebbe avvenire molto prima di quanto immaginiamo; la diffusione globale dell’informatica si è realizzata in un paio di decenni, nulla ci vieta di pensare che le rinnovabili saranno la principale fonte di energia nell’arco di qualche decade. Perché questo avvenga, è innanzitutto necessario che l’accordo universale di Parigi sul clima sia vincolante, e che tutti i Paesi accettino revisioni periodiche dell’implementazione degli INDC.
La classe politica saprà assumersi la responsabilità di questa sfida? Potrebbe fare scelte più coraggiose? Ad esempio fissare il prezzo del carbone? In un settore, quello del carbon-fossile, che riceve molti sussidi statali.
Oggi nessun politico può più sottovalutare i cambiamenti climatici, perché ce li abbiamo davanti agli occhi: aumento delle temperature globali, scioglimento dei ghiacci, in particolare quelli marini, innalzamento dei livelli del mare, intensificarsi di fenomeni estremi, migrazioni di massa da regioni sempre più inospitali. I politici che lo fanno, rischiano di pagare questa scelta, come è successo di recente in Canada. Il Governo di Stephen Harper, nel 2012, ha deciso di non rinnovare gli impegni presi con il Protocollo di Kyoto, e ha puntato tutto sullo sfruttamento del carbon-fossile; alle ultime elezioni, Harper ha perso contro lo sfidante Justin Trudeau, che aveva lanciato una campagna fortemente ambientalista. Anche nelle elezioni presidenziali americane del 2016 i cambiamenti climatici potrebbero essere un fattore determinante; e in ogni caso, saranno il primo vero test per l’accordo di Parigi. Per quanto riguarda politiche dirigiste nel settore energetico, non credo siano molto efficaci; se il mercato si convince che le rinnovabili sono, a medio e lungo termine, più redditizie del carbon-fossile e del nucleare, il cambio di paradigma economico avverrà in modo automatico.
Questa presa di coscienza non poteva avvenire prima? Dopo l’accordo sul Protocollo di Kyoto del 1997, che cosa è andato storto? Perché la comunità scientifica non è riuscita a trasmettere il messaggio sulla gravità dei Cambiamenti Climatici in atto?
La comunità scientifica ha le sue responsabilità: per troppo tempo ha trattato il problema da un punto di vista accademico; è altrettanto vero che la lotta al Cambiamento Climatico va a toccare gli interessi dell’industria dei combustibili fossili, che sono altissimi. Mettiamo a confronto il Protocollo di Kyoto, sulla riduzione di CO2 (causa del Riscaldamento Globale), e il Protocollo di Montreal, sul bando dei cloro-fluoro-carburi (causa del buco nell’ozono): nel secondo caso, tutti i Paesi hanno recepito il problema, attuando una sostituzione o riconversione degli impianti di refrigerazione. Il Protocollo di Kyoto, invece, implicava un cambio di paradigma economico e tecnologico che molti Paesi si sono rifiutati di prendere in considerazione, ad esempio, gli Stati Uniti, la Cina, l’India, il Brasile: basato, poi, su dati ed equazioni branditi da un gruppo di scienziati che non li comunicavano in modo adeguato. In generale i politici, con incarichi a breve termine, spesso sono stati esitanti e poco lungimiranti nella lotta a lungo termine contro i Cambiamenti Climatici, sulla cui natura c’è stata anche cattiva informazione. Oggi però gli scienziati hanno imparato a veicolare meglio il messaggio, non lasciano più spazio a posizioni negazioniste: il Riscaldamento Globale è di natura antropica, fino a prova contraria; chi lo nega, o non lo ha compreso, o è in cattiva fede. In più, gli scienziati hanno imparato a conoscere i propri interlocutori: spesso non puoi dire a un’assemblea regionale, o al consiglio di amministrazione di una banca o di un colosso energetico: “signori, abbandonate i combustibili fossili perché dobbiamo salvare la Terra”; però puoi presentare loro i vantaggi economici e sociali di una transizione, in un mondo che presto o tardi dovrà fare i conti con i Cambiamenti Climatici: per coinvolgere politici e investitori, non bisogna parlare solo di catastrofi, ma di ritorno economico e di consensi, oltre che di qualità della vita.
Che cosa ha provato dopo il fallimento di Copenaghen 2009? Per Feltrinelli ha pubblicato il saggio per ragazzi Gaia, il Pianeta Terra e il Clima che cambia: da divulgatore scientifico, che cosa le dà maggior speranza?
Per quanto riguarda Copenaghen 2009, c’erano troppe attese, e tutto sommato mi aspettavo un esito non soddisfacente. Però, dal parziale fallimento di quella Conferenza, è nato un nuovo approccio al problema, che si sta rivelando vincente: chiedere a tutti di fare la propria parte, compresi i privati. C’è la percezione che il vento sia cambiato, non solo a livello culturale; per questo sono fiducioso. E lo sono ancor di più quando vado nelle scuole a spiegare cos’è il Cambiamento Climatico: con i ragazzi non è necessario banalizzare la questione, e loro si dimostrano molto attenti al problema; sono sempre pronti a fare domande per comprendere meglio i termini di questa sfida: capiscono che è in gioco il loro futuro.
di Cristiano Arienti
Articolo pubblicato su L’Indro