COP21 e Medio Oriente: clima pesante per i carbon-fossili
Tra qualche giorno, dal 30 novembre all’11 dicembre, la COP21 (Ventunesima Conferenza delle Parti) si ritroverà a Parigi con un obiettivo dichiarato: sottoscrivere un accordo, possibilmente vincolante, per ridurre le emissioni di gas serra, prodotti dalla combustione dei carbon-fossili (carbone, gas e petrolio); la speranza è di limitare l’innalzamento delle temperature globali sotto i 2°C, rispetto al periodo pre-rivoluzione industriale, entro il 2100: una soglia molto più vicina di quanto si pensi. Secondo il Met Office (Agenzia per il servizio meteorologico della Gran Bretagna) quest’anno, per la prima volta, la temperatura si è alzata di 1°C rispetto al periodo 1850-1900. Il 2015, inoltre, viene già considerato l’anno più caldo da che esistono misurazioni; e il livello di CO2 nell’atmosfera non è mai stato così alto come nel 2014, con 400 ppm (parti per milione): più del doppio rispetto a 200 anni fa; questo comporta uno squilibrio dell’effetto serra, con un aumento delle temperature inarrestabile. In questo scenario, la domanda e il consumo di energia continuano a salire, a causa dell’incremento demografico, e la crescita urbana e industriale dei Paesi in via di sviluppo.
La stragrande maggioranza degli scienziati è concorde: è in corso un cambiamento climatico molto rapido dovuto all’azione dell’uomo, e la comunità internazionale sembra esserne ormai cosciente; oltre 150 Paesi, in vista della COP21, hanno fatto pervenire alle Nazioni Unite il proprio INDC (Intended Nationally Determined Contributions), un programma in cui sono elencati gli intenti del singolo Stato nella lotta ai Cambiamenti Climatici: dalla riduzione dei gas serra all’implementazione delle fonti rinnovabili per produrre energia, dalla efficienza nel consumo di elettricità, a una miglior gestione delle foreste e del suolo coltivabile.
Saranno 195 Paesi, più l’Unione europea, a partecipare alla COP21 di Parigi, oltre a decine di enti privati e organizzazioni non-governative; sono circa una quarantina i Paesi che non hanno ancora inviato l’INDC alle Nazioni Unite: non lo hanno fatto, ad esempio, alcuni Stati del Medio Oriente, una regione ricca carbon-fossili, e in particolare di petrolio e gas.
In un’area che comprende Arabia Saudita, Iraq, Iran, Emirati Arabi Uniti e Kuwait, esiste la più grande riserva di petrolio crudo del mondo: circa 800 miliardi di barili (Fonte). Nel 2011, secondo l’IEA (International Energy Agency), si sono consumati quasi 34 miliardi di barili di petrolio, che a tutt’oggi rimane la principale fonte di energia globale. Le compagnie energetiche puntano molto anche su un’altra fonte tradizionale, il gas; e molti giacimenti di questo carbon-fossile si trovano proprio in Medio Oriente: in Arabia Saudita, Iran e Qatar ci sono tre delle prime quattro riserve più grandi del mondo.
I Paesi mediorientali sono tra i principali produttori di queste materie prime, che rappresentano una voce fondamentale dell’economia regionale: non solo per le esportazioni, da cui derivano grosse entrate, ma anche per il sostentamento interno in campo energetico. In alcuni Paesi l’energia deriva al 99% da gas e petrolio.
Perciò in Medio Oriente una transizione economica dal carbon-fossile alle fonti rinnovabili, il percorso delineato negli INDC, ad esempio, dell’Unione europea, Stati Uniti e Cina, è vista in modo negativo. Eppure il cambiamento climatico rappresenta una grave minaccia per le popolazioni di quella regione; un recente studio di Jeremy Pal e Elfaith Eltahir, del MIT di Boston, si concentra sui livelli di temperatura prospettati in Medio Oriente nel 2070: le giornate più calde mai registrate in questi anni diventerebbero la norma, rendendo inaccessibili aree oggi densamente popolate, in particolare nelle regioni costiere del Golfo Persico.
Tra i Paesi mediorientali che hanno già depositato il proprio INDC presso le Nazioni Unite, ci sono l’Oman, gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita. Nei loro programmi per contrastare i cambiamenti climatici, accennano al nodo delle emissioni di gas serra: promettono una miglior efficienza in campo energetico, la diversificazione attraverso centrali fotovoltaiche, e l’installazione dei sistemi BECCs (Biomasse, Cattura e stoccaggio della CO2). Chiedono però comprensione da parte della comunità internazionale, vista l’importanza strutturale del petrolio (e del gas) per la loro prosperità, e anche sostegno, nell’ottica di una sensibile diminuzione del consumo di carbon-fossili a livello globale.
Per comprendere meglio la posizione dei Paesi mediorientali in vista della COP21, e più in generale rispetto alla questione del clima, abbiamo chiesto un parere a Marzio Galeotti, Professore ordinario di Economia dell’Ambiente e dell’Energia nell’Università degli Studi di Milano.
Quale sarà la posizione dei Paesi del Medio Oriente alla COP21? Alcuni di essi non hanno nemmeno inviato i loro INDC alle Nazioni Unite.
L’atteggiamento dei Paesi mediorientali nei confronti delle politiche climatiche internazionali, e quindi anche della COP21, è di rifiuto; vivono delle fonti fossili, e dei benefici che la produzione di gas e petrolio garantisce, sia per il consumo interno, sia per le esportazioni. In Arabia Saudita, ad esempio, l’espressione “CO2” è praticamente bandita. Non è che, in questi Paesi, le autorità non abbiano consapevolezza dei problemi provocati dai Cambiamenti Climatici: tuttavia, è proprio grazie ai carbon-fossili, oltre che la religione, che mantengono una posizione dominante nella società; offrendo sussidi per chi produce energia, e prezzi incredibilmente bassi dei combustibili, si garantiscono l’appoggio dei comuni cittadini. In Arabia Saudita, dal distributore, un litro di diesel costa 0,05 €, o anche meno. Oggi come oggi, fanno tutto con il petrolio, anche per questo le emissioni di CO2 in questi Paesi è relativamente alta. Però la loro posizione alla COP21, sul fatto che si impegnino o meno per ridurre le emissioni di gas serra, sulla bilancia internazionale non è così cruciale. E’ chiaro che se a Parigi dovesse profilarsi un accordo importante, i Paesi mediorientali non vorranno passare per quelli che si oppongono a tutti i costi: anche loro, nel loro piccolo, faranno la loro parte.
I Paesi mediorientali producono energia dai carbon-fossili al 99%; esiste un piano per le energie rinnovabili? Penso soprattutto al solare: in Qatar, ad esempio, è in costruzione una centrale fotovoltaica destinata a diventare la più grande della regione.
In Arabia Saudita ho visitato un laboratorio di ricerca con una centrale fotovoltaica da un 1,5 Megawatt; quindi c’è consapevolezza delle potenzialità di questa energia: il problema sono i costi. Estrarre il petrolio costa molto meno rispetto alla costruzione di impianti per le rinnovabili. E lì hanno necessità di energia non solo per produrre elettricità o combustibili per i trasporti, ma anche per la desalinizzazione dell’acqua, essendo questo elemento molto scarso in Medio Oriente. Per cui gli incentivi dovranno essere significativi e importanti per convincere questi Paesi, dove effettivamente ci sono le condizioni per il solare, a introdurre nuove tecnologie in campo energetico. La questione, però, potrà avere un vero sviluppo solo se aumenterà la percezione che i Cambiamenti Climatici sono una minaccia per le popolazioni di questa regione: se cominciano a dare ascolto agli studi che prevedono un sensibile aumento della temperature nei prossimi decenni, con punte previste di 70°C, allora cominceranno a fare qualcosa di veramente concreto nel settore delle energie rinnovabili. Purtroppo c’è da tener conto di un aspetto cruciale: qui non ci sono regimi democratici, quindi non si pongono problemi di responsabilità sociale sull’implementazione di politiche ambientali.
Però le fonti energetiche carbon-fossili sono destinate a esaurirsi: come stanno affrontando questo problema i Paesi mediorientali? Penso all’Iran, che si è dotato di impianti nucleari a scopi civili per produrre energia.
Anche in Arabia Saudita esiste un’Agenzia per l’Energia Nucleare: stanno pensando se sia il caso di dotarsi di quella tecnologia per rispondere a una crescente domanda di energia interna; contando che in futuro, per produrre energia, potrebbero dover fare i conti con una gestione misurata del petrolio. Il Bahrain, ad esempio, ha una grossa disponibilità di gas naturale, ma siccome lo utilizza internamente con costi bassissimi, ha bloccato le esportazioni. Quello dell’esaurimento del carbon-fossile è un problema che riguarderà un po’ tutti i Paesi mediorientali, fra 30-40 anni; ne sono consapevoli, chi più chi meno. L’aumento demografico, e del consumo di energia, li costringe a pensare al futuro. Qatar ed Emirati Arabi Uniti, che sono dinamici, stanno diversificando la loro economia: da tempo investono nei settori della tecnologia e della grande finanza. Anche in Arabia Saudita cominciano a capire che è necessaria una gestione più oculata delle risorse: stanno ampliando una linea metropolitana; in questo modo si offre un’alternativa a chi, per spostarsi, utilizza l’automobile, senza dover alzare i prezzi dei combustibili. Questa sarà la grande sfida per i Paesi mediorientali, al di là della lotta ai Cambiamenti Climatici: crescere in futuro dove, prima o poi, non si potrà più fare affidamento ai carbon-fossili.
di Cristiano Arienti
In copertina: una mappa della Nasa che proietta le temperature del Medio Oriente ben oltre i 45°C, con oltre 900 ppm di CO2 nell’atmosfera.