Luca Rastello, un volontario nel marketing del dolore

Luca Rastello è stato un giornalista del Gruppo Espresso, Direttore di Osservatorio Balcani Caucaso, e scrittore tra i più lucidi e ispirati in Italia; la sua raccolta di racconti La guerra in casa (1998)sul conflitto in Bosnia, emerge come una delle prove letterarie più importanti degli ultimi 20 anni. E I Buoni, pubblicato recentemente, é già stato definito un romanzo dostoevskjiano. Luca ci ha lasciato, ma rimarrà un punto di riferimento grazie alla sua instancabile ricerca sulle questioni più controverse del nostro tempo: dalla lotta alle narco-mafie alla guerra nei Balcani, dall’immigrazione all’alta velocità in Europa, dalle storture del liberismo alle contraddizioni del mondo di onlus e cooperative.

 

Luca rastelloAppassionava i suoi lettori, incantava il pubblico delle conferenze; chi lo ha conosciuto, anche solo per brevi momenti, è rimasto colpito dal rigore morale e dalla chiarezza della sua esposizione. Rastello ti dava una visione del mondo con cui bisognava fare i conti. Ma non era solo un raffinato intellettuale; era un uomo d’azione pieno di dinamismo e coraggio. Si è lanciato a testa bassa in ogni sfida: dai reportage nei buchi più neri del pianeta, al mettere in piedi un ponte umanitario per aiutare i profughi bosniaci; e con coraggio ha lottato la sua personale battaglia contro il male che lo perseguitava da anni, e che oggi se l’è portato via a soli 53 anni.

Di seguito propongo un pezzo scritto nel 2008, su una lezione di Rastello al Master di Giornalismo Internazionale dell’Umanitaria di Milano, “Un volontario nel marketing del dolore”: spiegava il ruolo del giornalista nelle zone di guerra, il delicato lavoro di verifica delle notizie, e soprattutto la difficoltà a diffonderle nel nostro occidente agiato e indifferente. Qualche anno dopo i social media avrebbero mutato il fluire delle notizie, e anche le dinamiche tra giornalisti, notizie e lettori; ma rimane integro il messaggio di Luca: informare è una questione di coscienza e coraggio, di osservazione e indipendenza.

Luca Rastello, un volontario nel marketing del dolore

Umanitario è organizzare un centro di accoglienza per i profughi di una guerra, quella bosniaca, scatenatasi tra il 1992 e il 1995, che l’Europa ha gestito come se si combattesse su un altro pianeta. Questo, in sostanza, è quello che ha fatto tredici anni fa nella sua Torino Luca Rastello, scrittore e giornalista di Repubblica classe 1961, quando radunò attorno a sé la società civile per aiutare bambini bisognosi di cure che gli ospedali di Mostar o Sarajevo non potevano garantire. Se uno così invita a stare in allerta ogni volta che ci si imbatte nell’aggettivo “umanitario”, come si fa a non prestargli attenzione? Rastello ha lanciato l’avvertimento agli studenti del Master di Giornalismo Internazionale, durante la lezione titolata “Il giornalista nelle emergenze umanitarie e nelle aree di crisi”; anche se poi, ascoltandolo, dichiaratamente cinico, si potrebbe ribattezzare il tema con un’anastrofe: “l’emergenza del giornalista nelle aree di crisi”, legata alla degenerazione del concetto stesso di “umanitario”.

Nell’introdurre l’impegnativo argomento, il docente traccia un profilo di se stesso per giustificare la propria competenza, come se non bastasse la sua carriera e la posizione di direttore responsabile di Osservatorio Balcani, portale di informazione e cooperazione di un’area che va dalla Slovenia all’Azerbaijan, da Cipro alla Russia. Tuttavia è la Bosnia Erzegovina il cuore della sua crescita civile e professionale: l’ha percorsa da giornalista free-lance e volontario per la cooperazione sociale. Il paese che ancora oggi si confronta con gli spettri del conflitto etnico, è stato una palestra di vita per tanti coinvolti nelle centinaia di attività nate spontaneamente per sostenere i bosniaci, non solo per Rastello, impegnato a raccontarne le sofferenze e a mitigarle. Fonti ministeriali parlano di 700.000 trasferte italiane in soccorso di quella terra. Per ognuno degli individui che partivano dalla penisola con viveri, abiti o medicine, almeno dieci lavoravano ai box per raccogliere gli aiuti. Per molti giovani, butta lì Rastello, fu il terreno di formazione all’agire politico e sociale dell’epoca, l’equivalente della militanza politica negli anni ’70. Forse l’accostamento vuole essere un tributo a una generazione aggregatasi senza sigle o bandiere, calamitata da un comune senso di umanità; eppure, non può non suggerire due immagini in antitesi: maniche arrotolate per darsi da fare, contro mani armate per fare la rivoluzione. Purtroppo, la purezza di quei primi anni ‘90 sarebbe andata dispersa proprio per l’efficienza delle organizzazioni “fai da te”, istituzionalizzate per decreto legge in cooperative sociali e avviate alla struttura aziendale. Oggi il “volontario” è un professionista, e lavora per imprese capaci di catalizzare finanziamenti altissimi, competitive l’una contro l’altra in un settore del mercato specifico, quello “umanitario”.

Se allora, al di là dell’Adriatico, si gettarono le basi per la futura privatizzazione del sociale in Italia, nei Balcani è anche risorto il giornalismo, ridotto a pezzi durante la I Guerra del Golfo, quando le uniche notizie dall’Iraq erano dettate dagli addetti stampa in comode sale ad Abu Dhabi; e umiliato in Slovenia, dove si arrivò alla manipolazione dei corrispondenti per propagandare un inesistente conflitto contro la Jugoslavia. In Bosnia, free-lance e inviati tornano a raccogliere voci alternative alle fonti ufficiali, spesso la testimonianza proprio dei “volontari”, e indagano i fatti in prima persona; mettono in comune esperienza e lavoro, creando una rete di “stringer” pronta a collaborare in nome di un’informazione corretta e aderente alla realtà.

Soprattutto, nei Balcani, il giornalista non fa più sconti all’autorità. Rastello ricorda di un’intervista a un generale del contingente italiano di stanza al confine con il Kosovo, quando chiede conto della presenza di obici in una missione chiamata “arcobaleno”. Lui, reporter, viene cacciato in malo modo, il fatto documentato dalla registrazione di una collega di Radio Radicale; il generale non dà risposta perché forse dovrebbe prima spiegare il significato di “Guerra Umanitaria”, slogan utilizzato dalla Nato per abbellire l’aggressione alla Belgrado di Milosevic, bombardata nel 1999 per fermare la pulizia etnica operata dai serbi nei confronti degli albanesi. “Ma allora a Kukes, appena al di là del confine kosovaro, che succede?” domanda poi Rastello ad Alfred Moisiu, comandante della guerriglia albanese, riferendosi ai profughi ammassati in una valle deserta e invivibile. Il futuro presidente di Tirana spara la sua verità: ci servono lì, così, se i serbi rispondono alle nostre provocazioni, una strage forzerebbe l’occidente a “liberare” il Kosovo; a loro ci penseranno le organizzazioni “umanitarie”. Quelle giunte insieme agli obici italiani.

Fu la prova generale, spiega Rastello, della futura cooperazione civile e militare già attiva nella Nato sotto la sigla Simic. Anche per l’Italia, da allora, chi agisce a scopi “umanitari” in aree di crisi è inquadrato in progetti che includono la presenza di soldati. La “ricostruzione” diventa strumentale per chi decide la guerra, elemento funzionale alla “proiezione di potenza”, la teoria per cui una nazione sradica i governi ostili di altri stati e impone i propri modelli politici, culturali, ed economici. L’esportazione della democrazia in Afghanistan e in Iraq, per intenderci, o il protettorato Nato in Kosovo, la terra dove le organizzazioni hanno scoperto la contraddizione della loro opera “umanitaria”, integrata nelle manovre militari.

In questo contesto così diverso dallo spontaneismo delle origini, il “volontario” è rimasto una pedina appetibile per i giornalisti, avendo conservato il suo status di “fonte indipendente” rispetto ai rappresentanti governativi. Gli articoli che si occupano delle aree di crisi riportano la nota istituzionale e, aggiunta ormai formale, la voce di “fonti non ufficiali”, quasi sempre personale di ONG contattato telefonicamente. Lo scopo del giornale: convincere il lettore di avere tra le mani un’informazione credibile, sintesi di due versioni incrociate, addirittura. Peccato, svela Rastello, raccontando l’aneddoto di un logista di stanza in Afghanistan, che i volontari, spesso, forniscono particolari trovati in internet per descrivere eventi accaduti a poca distanza da loro, ma di cui non sono testimoni. La reale verifica della notizia giunta da fonte ufficiale passa in secondo piano, perchè è più importante il suo “sciacquo” in quella del “volontario”, e offrirla “pura” al lettore.

Ultimamente, il rapporto tra giornalisti e associazioni umanitarie distaccate in aree di crisi si è evoluto in un sodalizio: molti reporter ricevono dal personale ONG appoggio logistico, contatti, informazioni; in cambio promettono visibilità all’interno di reportage costruiti sul dolore, con la pubblicazione di indirizzi e conti correnti in cui i lettori sono invitati a versare il loro contributo. Il fenomeno conosciuto con l’etichetta di “volontariato” diventa così il riferimento privilegiato per parlare dei Paesi dove è in corso un’emergenza umanitaria. Si crea così il meccanismo della “bolla” trasparente, ma solo a macchie, attraverso cui il lettore vede parti delimitate di quel mondo lontano, mai quelle che riguardano gli aspetti politici, economici e strategici.

L’informazione, secondo Rastello, che in questo passaggio morde il sistema, sta imponendo un nuovo modello culturale, sull’esempio dell’industria Hollywoodiana: la storia dell’eroe, il volontario, che si occupa di gente disperata nell’altro capo del mondo rassicura il lettore, non lo spaventa. E il lettore non spaventato piace agli inserzionisti, che investono i loro soldi per comprare gli spazi pubblicitari gemellati ai reportage. Il consumatore, pardon, il lettore, si può soffermare con calma sul prodotto pubblicizzato, sul marchio imperante.

Si spera che questo meccanismo, dove tutti guadagnano qualcosa, chi in visibilità, chi in carriera, chi nel sistemare la propria coscienza, chi in vendite, serva realmente a migliorare la condizione dei disperati dall’altra parte del mondo. Tuttavia Rastello serba seri dubbi: si chiede perché agli schiavi cinesi di via Sarpi, o le baby prostitute slave sulle circonvallazioni, viene data meno rilevanza rispetto ai drammi del terzo mondo? Forse queste notizie non dovrebbero interessare il lettore quanto i racconti giunti dai luoghi “esotici”?

Verrebbe da chiedersi provocatoriamente: è un’informazione di intrattenimento, quella che si occupa delle emergenze umanitarie e delle aree di crisi? Forse. Ma almeno, conclude Rastello, si mantiene alta la soglia della comunicabilità, il vero punto critico del giornalismo italiano.

E allora accontentiamoci di questo marketing del dolore, mentre andiamo a informarci sulle scarpe trendy pubblicizzate dal giornale.

di Cristiano Arienti – 2008

Articolo scritto per il Master di Giornalismo Internazionale dell’Umanitaria di Milano

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