I “writer”, dagli zero della Mazzucco agli eroi di Perez-Reverte
Sono “ninja” che si muovono nell’oscurità della notte, e la colorano con geroglifici futuristici, lettere pannose, simmetrie fluorescenti; s’infilano nei recessi delle città, le gallerie come i cunicoli dove i nostri antenati lasciavano le prime impronte di consapevolezza di sé: loro invece, questi guerrieri urbani armati di bombolette spray, investono i vagoni della metropolitana della loro rabbia contro l’inconsapevolezza dilagante della maggioranza di noi. E’ un atto di protesta primitiva, fisica prima che filosofica: per apporre la firma sulle porte scorrevoli di una carrozza devono strisciare in tunnel, stare all’addiaccio per giorni, camminare sui cornicioni senza reti di protezione, nascondersi dai circuiti di videosorveglianza e scappare da polizia e guardiani notturni; il “tag” è la loro bandiera piantata sull’Annapurna: migliaia di pendolari, al mattino, sono costretti ad “ammirare” quelle indecifrabili firme, potenti come un ideale elettroshock: “siamo lo spirito ribelle che in voi è dormiente; non avete il coraggio di svegliarlo, anche se le vedete voi stessi, tutti i giorni, le distorsioni del sistema.”
Più un “writer” è audace, più vagoni e cornicioni firma, più gente è investita dal suo messaggio, e più è ammirato nell’indomita comunità di indiani metropolitani.
Ed è proprio in questo ambiente che si muove “Sniper”, il protagonista de Il cecchino paziente, l’ultimo romanzo di Arturo Perez-Reverte, giornalista e scrittore, fresco ospite di BookCity, a Milano. Parlando del libro, Perez-Reverte ha spiegato di provare sì orrore per il vandalismo dei “writer” – detto con poca enfasi – ma al tempo stesso li ammira: in particolare per il coraggio di mettere a rischio la pelle e il futuro pur di affermare il loro esistere; quel tag è più spirituale di quanto si pensi, un atto che esprime una profonda connotazione anti-sistema, e non la voglia di vandalizzare.
I “writer”, spiega lo scrittore spagnolo, sono individui che marcano il territorio contro le logiche di potere, di mercato e di omologazione che governano la società globalizzata odierna. Si espongono a molti pericoli per firmare l’ingresso di una stazione, o il parapetto esterno di un cavalcavia, e tutto questo per ricordare alle migliaia, milioni di persone che utilizzano quei treni, o passano con la macchina sotto quei cavalcavia, che il mondo così com’è non va. E così la pensa anche Perez-Reverte: ci stiamo dimenticando quello che conta. Le prime avvisaglie lui le avvertì durante i reportage da Sarajevo per la Tv spagnola, durante la guerra fratricida in Bosnia: i suoi servizi venivano tagliati per dare spazio a una partita di calcio.
Perez-Reverte ammette di idealizzare i “writer”, ma li ammira per la presa di posizione ferma, frontale ma a mani nude, contro una sistema politico ed economico fondato sul capitalismo; un’ideologia, nelle parole del filosofo Emanuele Severino, diretta all’autodistruzione attraverso la depauperazione delle risorse, l’inquinamento, l’alterazione degli equilibri del pianeta. Una presa di posizione pura, contro istituzioni come quella dell’Unione Europea, che – citando lo scrittore spagnolo – “sta assassinando Cervantes, Virgilio, Shakespeare, e insomma la cultura intera del nostro essere europei”.
In questa ottica di scontro epico, i “writer” si smarcano da qualsiasi colore politico o pretesa artistica; sono “eroi” senza compromessi, tanto che detestano Banksy e i suoi epigoni. Il principe della Street art è nato nell’ambiente dei “writer”, ne mima la tattica, ma in ultima istanza gioca una strategia che rispetta le regole del sistema, con le sue logiche di attivismo politico, di propaganda e di marketing. E ciò che Banksy è per i writer, lo è per Perez-Reverte lo scultore di teschi diamantati Damien Hirst: se Banksy trasforma in politica attiva e mercato un gesto, il tag, di ribellione pura, Hirst “contamina” la produzione artistica, quel processo nato 35.000 anni fa con i graffiti nelle grotte di Altamira, con la ricerca spasmodica del profitto. E che le aste d’arte siano completamente sballate rispetto al valore in sé dell’opera, o che nella società occidentale il profitto di una banca sia più importante della sofferenza dei singoli cittadini, o di un intero popolo, fa parte del cortocircuito che attraversa la nostra Europa e il mondo che ci piace pensare globalizzato.
Ma cosa rimane dei “writer”, se spogliati della carica epica di Perez-Reverte? Che cosa ne è dei guerriglieri urbani senza la spietata critica al sistema politico ed economico attuale, come quella portata da un filosofo come Severino?
In un romanzo corale del 2006, Un giorno perfetto, della scrittrice italiana Melania G. Mazzucco, la figura del “writer” è tragica: Zero ha firmato tutta Roma, dalle gallerie della metropolitana fino ai muri nobili della superficie. Tuttavia Zero, un venticinquenne di famiglia agiata ma problematica, non trova più senso nella vita, perfino in quella lotta al sistema condotta con uno spray. Intorno a lui – il libro è ambientato nel maggio 2001 – Zero vede solo ipocrisia, avidità, ingiustizia; ma la ragione per cui passa dal gesto vandalico all’atto dinamitardo, non è l’ideale rivoluzionario, ma la sete di distruzione per quel mondo che non riesce ad accettare. La parabola della sua lotta produce un’onda d’urto che si porta via chi gli dà retta, oltre a se stesso. E forse la Mazzucco, quando ha scritto il libro, aveva ancora negli occhi la devastazione di Genova, al G8 del 2001: in quei cortei da 500.000 persone si sognava un mondo alternativo rispetto alla globalizzazione capitalistica progettata due anni prima alla Conferenza dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO), presso Seattle. Gli ideali finirono bruciati nei roghi dei “black block”, i devastatori neri a cui Zero in fondo assomiglia; il resto venne frantumato sotto i colpi di una repressione poliziesca benedetta dalla politica: nessuno doveva disturbare la costruzione di un mondo a misura delle grandi multinazionali.
All’epoca, erano passati una decina di anni dalla fine del comunismo, c’era la tendenza a riconoscere nell’ideologia capitalista una forza trainante per il benessere e lo sviluppo, e a trascurarne i lati negativi. Quella fiducia blindata nel capitalismo, tra il 1991 e il 2007, ha reso possibile lo schema politico-militare-finanziario che ha prodotto una crisi dalla portata distruttiva non ancora ben chiara. Quando nel 2004 George W. Bush invitò gli americani, anche i meno abbienti (sub-prime) a comprarsi una casa con dei finanziamenti, il contesto era quello della deregulation totale del mercato finanziario; quei “sub-prime beneficiarono di prestiti assicurati e cartolarizzati, che finivano con altre decine di titoli nei derivati, in teoria digeribili dalle pance di Wall Street, di Londra, nelle altre piazze del mondo. E invece la bolla della speculazione immobiliare scoppiò. Oggi questo schema è riconosciuto come platealmente fraudolento – tanto che William Black, investigatore Fbi, ha definito così l’intera operazione: “hanno derubato le banche dall’interno, attraverso prodotti finanziari con funzione di armi di distruzione di massa”. Almeno dal 2006 Goldman Sachs, Chase-Manhattan e altre grandi banche d’affari sapevano di vendere spazzatura. Truffaldino, del resto, è stato il maquillage del bilancio greco con derivati simili, proposto ad Atene dalla grande banca d’affari Goldman Sachs. Un’operazione che, complici i governanti ellenici, ha completamente distrutto il tessuto economico e sociale di una nazione. In realtà, se il ministro del tesoro Usa Hank Paulson, ex Ceo di Goldman Sachs, nel 2008 non avesse usato il denaro pubblico per compensare al fallimento della Lehman Brothers, nazionalizzare le agenzie di prestiti Fanny Mae e Freddy Mac, e sostenere il colosso assicurativo Aig e i tre grandi produttori di auto, ad essere distrutta sarebbe stata la finanza globale. Una conferma delle tesi di Severino.
Le proteste di Seattle ’99, il corteo di Genova 01′, come i tag di Zero del romanzo della Mazzucco, erano il tentativo estremo e relativamente pacifico, di avvertire il mondo: guardate che questo sistema è oliato dall’avidità e dalla rapacità.
E l’intervento degli Stati Uniti in Iraq, nel 2003, una guerra per il petrolio fatta passare per un conflitto per evitare un altro 11 Settembre, ha di fatto confermato la logica del profitto sopra a tutto il resto: i contratti stipulati dalla Halliburton del vice-presidente Usa Dick Cheney in cambio della vita di centinaia di migliaia di iracheni, migliaia di soldati americani, decine di militari italiani. Questa è l’accusa nella lettera del veterano di guerra Thomas Young, recapitata a Bush e Cheney in punto di morte, dopo dieci anni di sofferenze dovute alle ferite riportate nel 2004 in Iraq. Nessuno poté bloccare quella guerra, né i commissari Onu che ripetevano: non c’è traccia di “armi chimiche o atomiche”; né le decine di milioni di persone scese inutilmente per strada per gridare la loro indignazione. In Italia tutto si sciolse nell’arrugginito dibattito destra-sinistra; il 73% degli Americani, manipolati e ingannati, invece credevano che il tiranno Saddam Hussein possedesse le armi di distruzione di massa, e coltivasse legami con Bin Laden: quella guerra la volevano, in molti la pretendevano.
Di qui il senso di annientamento filtrato dalla Mazzucco a Zero – probabilmente con un rapporto Bachtiniano di immedesimazione tra autore ed eroe – di fronte a un mondo, il nostro, che in pochi anni è passato dal sogno e la fiducia nel futuro, all’incubo e al terrore del presente post Genova e soprattutto post 11 Settembre. Un mondo che stava scivolando, per dirla con le parole dei Blur in una canzone del 2003, fuori dal tempo, tanto appariva cupo e irreale. Sulla copertina dell’album, per altro, campeggia uno dei graffiti più celebri di Banksy.
Oggi si sa che la Cia, l’agenzia di intelligence Usa, ha avuto due anni di tempo per bloccare il multiplo attentato terroristico all’America del 2001. Oggi si conoscono le origini della crisi del 2007-08, e si è compreso che il problema è sistemico, non congiunturale – le operazioni dei Master of the Universe degli stock-exchange, in ultima istanza, sono e saranno sempre “assicurati” dai cittadini americani (come è successo con il Tarp), dai cittadini europei (bail-out delle banche) o dai popoli più deboli e impreparati (Grecia, Italia). Oggi si comprende come il progetto dell’Unione europea, il picco di un percorso politico e strategico lungo decine di anni, stia naufragando, sviato da logiche finanziarie lontanissime dai bisogni dei cittadini.
Si pensi alla trattativa iniziata anni fa tra Unione Europea e Stati Uniti sull’accordo per la liberalizzazione del commercio e degli investimenti (TTPI), tenuta segreta fino a quando non è stata svelata da Wikileaks. O si rifletta sull’elezione di Jean-Claude Junker come presidente della Commissione europea, la guida politica dell’Unione: per quasi 20 anni l’ex primo ministro del Lussemburgo ha sostenuto un’architettura legale-finanziaria in grado di incanalare nel suo Paese i profitti di centinaia di multinazionali: un vero paradiso fiscale dove i lussemburghesi nascondevano miliardi di euro sottratti agli altri Paesi dell’Unione. Uno così non ci doveva nemmeno comparire nelle schede elettorali.
E in alcuni di quei Paesi la filiera produttiva è stata distrutta dalla globalizzazione, la disoccupazione sale ed è destinata a salire, decresce il potere d’acquisto, i giovani fuggono, si alimentano le pulsioni nazionaliste: pericolose similitudini con il panorama sociale e politico precedente al 2° Conflitto mondiale.
In un decennio il punto di vista di molti, sul capitalismo finanziario, il militarismo a tutti i costi, le crisi energetiche e ambientali, la manipolazione dei media, e perfino sui “writer”, è mutato drasticamente, in qualche caso ribaltando i ruoli degli attori da positivi a negativi e viceversa.
Nel 2006 – periodo pre-crisi finanziaria ma in pieno rigetto della politica militarista americana – nell’ottica della Mazzucco il gesto anti-sistema del “writer” è monade distruttiva di un mondo che va salvato dalla violenza. Nel 2014, Perez-Reverte concepisce quegli scarabocchi ribelli come segni vitali di un mondo devastato da chi è deputato a guidarlo, o se n’è arrogato il diritto.
E noi oggi, pendolari stressati da questa esistenza frenetica, scuotiamo la testa vedendo passare l’ennesimo vagone della metro coperto di indistinte forme verniciate; noi oggi, cittadini di un Paese che affonda sempre di più sotto i colpi di una crisi da selezione naturale, restiamo inorriditi di fronte alla porta del Duomo di Milano pasticciata da un vandalo, come è accaduto pochi giorni fa. Gli stessi “writer” storici di Milano si sono dissociati. E’ il segno che ormai i ribelli più giovani non hanno più rispetto per niente, nemmeno per il simbolo stesso della nostra comunità. Sarebbe sbagliato leggerlo come l’estremo avvertimento del più coraggioso dei guerriglieri urbani: svegliatevi, se ci tenete a conservare quello che avete di più caro. Ma questa è l’opinione di chi è parte del sistema, e come Perez-Reverte si deve dissociare dai ribelli che scelgono una forma di lotta illegale e selvatica. Però, a questo punto, è anche necessario dissociarsi da chi, dentro al sistema, per quanto all’apparenza pacifico, sta operando forme di distruzione legalizzate.
di Cristiano Arienti
In copertina: Murales del writer spagnolo Sam3
Ciao Cristiano,
ottimo ed esauriente il tuo articolo sui Writers. Purtroppo quello che oggi è rimasto di questo fenomeno è l’imitazione puramente vandalistica. Niente più che lasciare il proprio segno di protesta, incomprensibile, sui muri. Un segno di disprezzo della proprietà privata sui palazzi abitati da persone normali come possiamo essere tu e io. Non è questo, a mio parere, il modo di rappresentare un disagio sociale che indubbiamente esiste e che sembra impossibile da sconfiggere. Rimane solo lo scempio con pochissima ideologia dietro: che senso ha il dispetto e l’invidia anche per chi a fatica è riuscito a comprare una casa dopo anni e anni di lavoro? Una cosa è cercare di colpire il grande capitale, gli intrallazzatori politici e non, un’altra è rovinare le città con segnacci anonimi.
Sono appena tornato da un viaggio in Cina: lì non si trova una scritta sui muri. Se ti beccano ti tagliano la testa e buonanotte ai suonatori. Eppure, proprio lì, fermo restando che non c’è e non ci deve essere un’opposizione politica, un certo liberismo nell’intraprendere un’attività ha fatto fare passi da giganti a tutta la società cinese. Fra pochi anni la Cina sorpasserà l’America e la Russia, mentre l’Europa sarà sempre più ridotta al margine, ferma a discutere di lana caprina.
Nicola
Ciao Nicola, non sono in grado di comprendere a fondo le ragioni che spingono i “writer” a taggare un muro o una carrozza di un treno; Perez Reverte ha trascorso molto tempo con loro per cercare di capirle.
Sono d’accordo con te: davanti al vagone di un treno pitturato io vedo vandalismo più che altro; per non parlare delle scritte sui massicci muri del centro di Milano, anche quando ospitano le stesse banche che per anni hanno immesso sul mercato azionario titoli-spazzatura e intanto sfrattavano migliaia di persone che non riuscivano più a pagare il mutuo, o manipolavano l’indice del valore monetario sballando gli scambi sul mercato ma intascando una marea di soldi.
A me però interessava molto – e spero che nell’articolo si capisca – l’approccio di due scrittori nei confronti dei writer, alla luce di eventi come la guerra in Iraq e la crisi economica.
Complimenti per il tuo reportage dalla Cina; non vorrei deluderti, ma è di pochi giorni fa la notizia che le autorità cinesi si sono arrese: creeranno degli spazi per i graffiti turistici sulla muraglia cinese sperando di contenere il fenomeno. Ma i graffiti in Cina sono anche un modo per protestare contro un regime brutale – guarda cosa stanno facendo al premio nobel per la pace Liu Xiaobo, rinchiuso in una galera da 6 anni solo perchè chiedeva la libertà di parola !!
Cristiano