Un Paese allo sfracello, la decadenza di un uomo
Mi trovavo negli Stati Uniti quando lo scorso settembre il team della protezione civile ha raddrizzato la Costa Concordia; sulla prima pagina del New York Times campeggiava l’immagine della nave: all’inizio non l’avevo nemmeno riconosciuta, la sua fiancata rovinata e nascosta nelle acque del Giglio da oltre un anno e mezzo. Quella tragedia, costata la vita a 32 persone, si è imposta collettivamente come metafora di un Paese allo sbando, sull’orlo dell’abisso finanziario.
Oggi non siamo ancora così lontani dal pericolo; il declino dell’Italia è dettato dagli indicatori macroeconomici: disoccupazione oltre il 12%, Prodotto interno lordo stagnante, debito pubblico oltre il 130% e in crescita inarrestabile, finanziamento sui mercati internazionali in risalita, ma sempre su tassi molto alti. E’ un tracollo sotto gli occhi di tutti: file di serrande urbane abbassate per sempre, capannoni dei distretti industriali vuoti e silenziosi, marchi del Paese venduti alla concorrenza straniera e asset nazionali pronti ad essere svenduti a capitali esteri. Le persone se lo raccontano: la difficoltà a pagare i conti e a farsi pagare le fatture, il posto di lavoro perso e la paura di non trovare nulla, la fuga all’estero dei giovani (e dei professionisti) come unica prospettiva di (ri)costruirsi una vita, risparmi che vanno i fumo per poter ripartire in qualche modo.
Molti imputano la colpa di questo sfracello a Silvio Berlusconi. Sono 20 anni che occupa la sala di comando in Italia: dalla presidenza del consiglio del ’94, passando per la bicamerale del ’97, fino ai tre incarichi di governo in 10 anni, tra 2001 e 2011, e l’appoggio ai governi Monti e Letta. Le sue petulanze sulla deriva giustizialista della magistratura hanno incantato milioni di elettori, resi ciechi di fronte a problemi ben più pressanti, come la perdita di competitività nell’economia globalizzata, l’aumento del debito pubblico, la stessa riforma dei processi penali e civili, un’àncora pesantissima. La mancanza, poi, di un piano energetico ed economico vincenti, liberalizzazioni mai fatte o lanciate malamente, hanno frenato lo sviluppo della nazione.
Oggi, 2 ottobre 2013, con lo strappo di Angelino Alfano, segretario del Pdl, e la fiducia al premier Enrico Letta, è la data che segna l’uscita di Silvio Berlusconi da quella sala di comando. Tuttavia pochi pensano che i capitani del Partito Democratico alternatisi a Silvio Berlusconi abbiano fatto meglio in questi anni; l’exploit del Movimento 5 Stelle, leggi la disillusione degli elettori di centro-sinistra, ne è la dimostrazione. Romano Prodi, ad esempio, durante il suo primo governo varò una riforma del mercato del lavoro che ha di fatto spaccato i dipendenti in due categorie, i protetti e i precari; venne concertata da una classe sindacale incapace, negli anni successivi, di comprendere le dinamiche della globalizzazione e della delocalizzazione. Guglielmo Epifani allora era vicesegretario della CGIL, il più potente tra i sindacati: nella sua carriera si è impegnato più a reintegrare sul posto di lavoro persone lasciate a casa dalle imprese (pubbliche o private), perché rappresentavano un problema; e ha fallito nel costruire un nuovo ingresso nel mercato del lavoro per intere generazioni di neodiplomati e neolaureati. Ora è lui il segretario del partito che si pone come alternativa a Berlusconi.
Questo va detto al di là del fatto che il Cavaliere, in sostanza, ha dimostrato di fregarsene del Paese e di chi ci vive; la spallata al governo Monti e il tentativo di buttare giù anche il governo Letta sono mosse che con i bisogni dei cittadini non c’entrano nulla. I suoi elettori, la classe borghese, i piccoli imprenditori, i commercianti e i professionisti, avrebbero dovuto aprire gli occhi da tempo: con Silvio Berlusconi le tasse e le spese dei beni di prima necessità sono sempre aumentati. Ha fallito nel mantenere la promessa di abbattere la pressione fiscali, la più alta d’Europa. La cancellazione dell’Ici ha portato poi all’introduzione dell’Imu. Appaltando l’economia all’esperto di bilancio Giulio Tremonti, ha consegnato l’Italia alla stagnazione più lunga del dopoguerra. Silvio Berlusconi si è sempre vantato di essere un imprenditore, e questo è stato il suo vero grande limite: ignora le dinamiche di sistema.
E del resto, nella sua doppia veste di magnate e premier, ha governato per mettere in sicurezza la sua persona e la sua ricchezza dalle inchieste giudiziarie. Quello che ha sempre denunciato come una deriva della magistratura, è in realtà l’apertura delle indagini su notizie di reati: dalla frode fiscale alla corruzione in atti giudiziari, dalla compravendita di parlamentari all’abuso d’ufficio, dallo sfruttamento della prostituzione all’architettura di un sistema di appalti truccati, dall’associazione esterna di stampo mafioso (Dell’Utri) all’abuso edilizio.
E se accanimento c’è stato, è avvenuto nella cornice di una guerra fatta di leggi “ad personam” per sfuggire a un principio elementare: la legge è uguale per tutti.
Purtroppo i reati di Silvio Berlusconi, passati definitivamente in giudicato, prescritti, o non ancota giunti al terzo grado, sono lo specchio della classe politica, delle istituzioni e di molti cittadini. Il caso Penati, ex presidente Pd della provincia di Milano, e i casi AntonVeneta e Montepaschi di Siena, per citare i più clamorosi, sono emblematici di come anche a sinistra vi sia una questione morale aperta. E gli stessi gruppi finanziari ed economici muovono fondi occulti per corrompere, comprare, manovrare (Finmeccanica, Agusta, Ligresti). Gli Agnelli, forse la casata di industriali italiani più nota, attinge da un “tesoretto” sottratto nei decenni ai loro concittadini italiani (fonte). Questo è il Paese in cui se hai un parente o un amico nel posto giusto ti levano una multa, o non ti denunciano il figlio per possesso di stupefacenti; passi davanti nelle liste dell’Asl o ti ritrovi con una cattedra all’università in barba alla meritocrazia. Lo sappiamo tutti come funziona. E’ il Paese degli evasori fiscali, anche totali, delle colate di cemento grazie a uffici tecnici compiacenti, dei preti pedofili sottratti alle loro colpe. E’ il Paese dove dipendenti pubblici timbrano il cartellino per i loro colleghi assenteisti, o mettono in nota spese pranzi da gran signori quando sono in trasferta. E’ un Paese dove le pensioni d’oro non si toccano perché si romperebbe il patto di fiducia tra Stato e cittadino, ma si scaricano migliaia di lavoratori a un passo da quella che era la soglia della pensione prima della riforma: peccato che le aziende non abbiano un piano di reintegro per loro.
Ammettiamolo, poi: a parte chi ne fa una ragione di vita, noi italiani ci chiamiamo fuori dalla lotta alla mafia; ‘ndangheta, mafia, camorra, estese in modo capillare su tutto il territorio, sono in grado di condizionare più che mai la politica. La ‘ndrangheta è arrivata a piazzare un suo uomo nella tesoreria della Lega Nord! Eppure sembra che tutto ciò accada su un altro pianeta.
Di questi problemi dell’Italia ne parlavo proprio a New York, con Monica, ricercatrice alla Sloan con una posizione di post-dottorato. Alla fine le ho domandato, forse un po’ ingenuamente: “ma un giorno potresti tornare se ti offrissero un posto di rilievo?”.
“Non ci penso proprio”, mi ha risposto a braccia conserte, “mi dispiace da morire, ma io in quel Paese lì non ci torno più a vivere.”
Berlusconi per 20 anni è stato capitano di questo Paese qui, ed è stato anche il suo parasole. Alla sua ombra in troppi hanno coltivato i loro interessi, e hanno difeso i loro piccoli grandi privilegi. Da oggi non ci sono più scuse, sempre che non sia troppo tardi.
di Cristiano Arienti
In copertina: La nave Costa Concordia – Foto di Vincenzo Pinto /Agence Presse – Getty Image
Video sotto: Le lacrime di Silvio Berlusconi dopo aver dato la fiducia a Letta. La sconfitta dell’uomo dopo 20 anni di lotta politica e privata.