Trappola mortale in Bangladesh: il crollo del Rana Plaza
Il disastro del Rana Plaza, l’edificio collassato dove hanno trovato la morte oltre 550 operai per la maggior parte ragazzine e giovani donne, è l’incidente più grave di sempre nella storia dell’industria dell’abbigliamento. Al Rana Plaza si producevano indumenti anche per grandi marche americane ed europee, destinati ai consumatori occidentali. Tra gli altri, Primark, Mango, Benetton, El Cortes Ingles (fonte). Indumenti a prezzi elevatissimi in vetrina, prodotti con un costo di mano d’opera che, nelle parole di Papa Francesco, è una forma di “schiavismo“. Oppure pagare una persona 80 centesimi per 12 ore di lavoro può essere definito in altro modo? E pensare che fino a qualche anno fa la paga base in Bangladesh era la metà. L’ironia della sorte è che le grandi aziende considerano gli italiani solo come consumatori, visto che la manifattura, tessile e non, è ridotta ormai a una riserva indiana; e per giunta siamo consumatori con le tasche sempre più vuote. Come fai a chiedere a un disoccupato o a un precario o a un cassaintegrato di comprare da Benetton una maglietta di cotone che costa 40 euro? E poi, come si può definire un indumento “made in Italy”, se viene prodotto in Bangladesh e solo “assemblato” in Veneto. Insomma, una florida azienda italiana non dà più commesse al tessile italiano a causa di costi del lavoro insostenibili per chi compete in un mercato globalizzato; e delocalizza la produzione in un Paese dove la Legge sulla sicurezza e gli incendi non viene applicata o le poche ispezioni vengono rese inutili con bustarelle (Forbes). Queste strategie portano al licenziamento di migliaia di operai in Italia, e trascurano completamente i rischi mortali che i lavoratori dei Paesi più poveri corrono quotidianamente. Già a settembre del 2012 un’inchiesta del New York Times denunciava con forza l’assenza di sicurezza nelle fabbriche di abbigliamento in Bangladesh, e citava disastri del passato. Appello inascoltato. Due mesi dopo, lo scorso novembre, nell’incendio del Tazreen, edificio che ospitava fabbriche tessili, 117 persone hanno perso la vita perché l’unica uscita di emergenza era sbarrata. A distanza di mesi un palazzo abusivo si accartoccia su se stesso seppellendo oltre 500 persone. Le crepe erano visibili a occhio nudo, ma gli operai sono stati costretti a restare ai loro banchetti (fonte). Ci rendiamo conto che è un 11 di Settembre del mondo del lavoro? In Bangladesh, secondo esportatore tessile al mondo (fonte McKinsey), si sono sollevate molte polemiche, e da tempo la gente scende in strada a protestare; ma nulla è stato ancora fatto. In America e in Europa, le persone che vengono a sapere si indignano; la maggior parte, però, non sono raggiunte dall’orrore. In Italia, sul Rana plaza, la copertura mediatica da parte dei mezzi di informazione nazionali è vergognosa . O forse è, più semplicemente, complice: tra i committenti dei vestiti prodotti in Bangladesh ci sono prestigiose aziende del “made in Italy” e grandi catene mondiali che inondano giornali e televisioni con inserzioni pubblicitarie, come Disney, Ikea, Carrefour (fonte). Nello specifico, poi, Benetton è azionista di Rcs, il Gruppo Espresso e del Gruppo il Sole 24 Ore.
Benetton ha già ammesso sul suo account Twitter (fonte) di aver prodotto in passato alcuni capi di abbigliamento al Rana Plaza, tramite subappalti; ma alcune prove raccolte dal reporter Gianluca Mezzofiore di International Business Times mostrerebbero che al momento del crollo si stavano cucendo magliette che poi sarebbero finite nelle vetrine italiane.
Quelle 117 persone morte nell’incendio del Tazreen, e le oltre 550 che hanno perso la vita nel crollo del Rana Plaza, avevano un nome, un volto, una famiglia. Non erano macchinette da cucito. Sarah Stillman ha scritto le storie di alcuni di loro, in un toccante articolo pubblicato sul New Yorker , giornale americano.
di Cristiano Arienti
Aggiornamento: le vittime del crollo del Rana Plaza sono 1127.
Trappola mortale in Bangladesh: il disatro del Rana Plaza – di Sarah Stillman
1 Maggio – Lo scorso venerdì, in un temperato pomeriggio di Washington, ero seduta a pochi isolati dalla Casa Bianca, accanto a una donna chiamata Kalpona Akter. Kalpona ha molte doti, ma una in particolare è davvero fuori dal comune. Negli anni ha perfezionato l’arte di destreggiarsi tra le cataste di giovani deceduti nelle ditte bangladesi colpite da un incendio o collassate (“come un panino umano”, dice lei) a causa di un’edilizia incosciente. Una volta all’interno, Kalpona scatta fotografie a frammenti di vestiti in mezzo ai detriti. Dopodiché diffonde le foto per il mondo, affinché i consumatori americani possano riconoscere i rivenditori dietro alle etichette bruciacchiate: Walmart, Sears, una linea di moda di Sean Combs, e molti altri.
Una settimana fa il mondo ha saputo del tremendo crollo del Rana Plaza, un edificio in vetrocemento di otto piani situato vicino a Dacca, la capitale del Bangladesh; il Rana Plaza ospitava almeno cinque fabbriche di indumenti. Kalpona Akter è la direttrice esecutiva del Bangladesh Center for Worker Solidarity (Centro della solidarietà per il lavoratore del Bangladesh); quando c’è stato il crollo stava girando gli Stati Uniti per parlare della scarsa sicurezza sul posto di lavoro nel Bangladesh, una piaga per i giovani operai delle fabbriche di indumenti. Lei un tempo cuciva abbigliamenti in quelle fabbriche; cominciò a lavorare all’età di 12 anni. La tempistica del suo viaggio negli Usa è stata opportuna da una parte, dall’altra non poteva essere peggiore. Si è messa a piangere, in una caffetteria vicino a Farragut square, a Washington, dopo aver ricevuto i terribili aggiornamenti provenienti da Savar, sobborgo di Dacca. “Voglio essere là”, mi ha detto davanti a una tazza di te’. “Ho bisogno di stare laggiù.”
Durante il weekend è scoppiato un incendio tra le macerie del Rana, mentre le operazioni di salvataggio e recupero dei corpi continua. “All’inizio i miei amici mi hanno scritto dicendomi che i morti erano 8, anzi 9; poi il numero delle vittime è schizzato a 40, 50. Adesso siamo oltre i 304”. A mercoledì 1 maggio il numero dei morti è salito a 400, facendolo diventare l’incidente mortale più grave di sempre nell’industria dell’abbigliamento. Lunedì una folla enorme si è radunata davanti al tribunale, e quando è arrivato il proprietario del Rana Plaza, la gente ripeteva lo slogan: “impiccatelo, impiccatelo”. Lui, insieme ad altre sette persone collegate alla costruzione dell’edificio, è stato arrestato; ha dovuto indossare un giubbotto antiproiettile e un casco protettivo durante la sua apparizione pubblica.
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“So esattamente cosa farai quando tornerai a casa”, ha detto la compagna di viaggio di Kalpona, anche lei nella caffetteria. Si chiama Sumi Abedin, è una 24enne snella che in Bangladesh lavorava come operaia nelle fabbriche di abbigliamento. “Lascerai i bagagli e andrai direttamente al Rana Plaza.”
Kalpona ha annuito rivolta a Sumi, che porta un anello dorato al naso: “Certo”.
Lo scorso novembre Abedin stava cucendo vestiti per Walmart e altri marchi americani nella fabbrica chiamata “Tazreen Fashions”, nella periferia di Dacca, quando ha sentito un collega gridare “al fuoco”. Ha pensato di precipitarsi verso le scale quando il proprietario della fabbrica ha detto: “Sta mentendo”, e ha chiuso con i lucchetti le porte. Quando l’aria ha cominciato a riempirsi di fumo nero, Abedin mi ha raccontato “di aver cominciato a correre per il piano della fabbrica, urlando, chiedendo aiuto disperatamente”. Dopo che è andata via l’elettricità, ha seguito la fioca luce dei cellulari dei colleghi, diretti al terzo piano di produzione, dove un uomo stava togliendo le sbarre da una finestra. Sumi ha deciso di saltare.
“Non sono saltata per salvarmi la vita”, mi ha detto, come del resto ha ripetuto a giornalisti, studenti e a chiunque abbia voluto ascoltare la sua storia nelle settimane in cui ha viaggiato per gli Stati Uniti. “Sono saltata per salvare il mio corpo, perché se non fossi uscita dalla fabbrica, sarebbero rimaste sono le ceneri di me, e la mia famiglia non sarebbe stata in grado di riconoscermi.” Quando è atterrata, si è rotta un piede e un braccio. Si considera fortunata; 120 colleghi sono morti nell’incendio del Tazreen. I paralleli con l’incendio della Fabbrica Triangle Shirtwaist di New York, nel 1911, dove le porte erano chiuse a chiave e 146 operai morirono nel giro di 20 minuti, sono ovvi.
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La morte nelle moderne fabbriche di abbigliamento tende a essere diversa dagli incidenti aerei o altre catastrofi, perché è molto lenta e dolorosa. Per minuti, o anche ore, i polmoni degli operai si riempiono di fumo. Per giorni, o anche una settimana, gli operai lottano per sopravvivere sotto le macerie, sperando che qualcuno li tiri fuori. Kalpona mi ha parlato di una madre di campagna che l’ha cercata chiedendo aiuto dopo il Tazreen. Durante l’incendio la donna aveva ricevuto una chiamata da suo figlio di 24 anni, un operaio tessile. “Mamma”, le aveva detto, “c’è un incendio nella fabbrica. Sto facendo di tutto per scappare, ma il fumo mi sta riempiendo i polmoni.”
“Corri verso le scale!” gli ha detto sua madre, secondo quanto riporta Kalpona, “Corri alla finestra, salto su un bus e vengo a prenderti.”
Dieci minuti dopo, il ragazzo ha richiamato la madre. Non riusciva a salire le scale per via della calca. “Mamma, sto facendo di tutto, ma non c’è possibilità di uscire fuori.”
“Vai nei bagni”, sua madre gli detto, “fai scorrere l’acqua così manda via il fumo puoi respirare”. Il figlio le ha dato retta, ma senza fortuna: è ritornato al piano della fabbrica, dove i corpi dei suoi colleghi si stavano ammassando nell’oscurità.
Alla fine ha chiamato ancora, per scusarsi: “Mamma”, piangeva, “sarà l’ultima volta che ti chiamo: morirò di sicuro. Mi dispiace. Ho fatto del mio meglio. Non riesco a respirare”. Voleva lasciarle istruzioni: “Mi sto togliendo la camicia, e me la legherò alla vita, così potrai trovarmi”. E così ha strappato la sua camicia, ha fatto a tempo ad annodarsela al busto prima di collassare, ed essere ritrovato da sua madre il giorno dopo.
Kalpoma Akter adesso sta aiutando la famiglia del ragazzo a ricevere dei risarcimenti; il processo è stato lento, e le aziende americane sono state riluttanti a collaborare, dice. Ma l’attivista vuole più che i risarcimenti per i sopravvissuti e le loro famiglie: vuole che le industrie che ricavano enormi profitti come Gap e Walmart firmino il Bangladesh Fire and Building Safety Agreement, un accordo per la sicurezza degli edifici e contro gli incendi, e che i subappaltatori aumentino la paga standard, circa 40 euro al mese che bastano a malapena a sostentarsi. In Bangladesh l’industria di abbigliamento porta con sè circa più di 20 miliardi di dollari all’anno. La maggior parte delle aziende in subappalto (source company) non richiedono, o permettono, monitoraggi indipendenti delle loro fabbriche. Osservando gli sviluppi della tragedia del Rana Plaza, Kalpona non può fare a meno di pensare alle precedenti promesse del governo, anche recenti. “Dopo l’incendio del Tazreen hanno detto: ‘Sì, controlleremo tutte le fabbriche e ci accerteremo che siano sicure'”, mi ha detto. “E invece non è successo niente”.
Ora centinaia di genitori disperati stanno raggiungendo il Rana Plaza alla ricerca delle figlie e dei figli. I corpi dei freschi morti, molti dei quali erano donne adolescenti e ventenni dagli abiti brillanti, sono stati portati nella scuola locale di Savar, dove i famigliari si mettono in coda per il riconoscimento.
Lo scorso weekend, dopo il nostro incontro, Kalpona e Abedin sono tornate in Bangladesh per fare ciò che potevano. E’ probabile che Kalpona sia diretta verso la fabbrica ancora ardente, per rovistare tra le rovine. Cercherà registri ed etichette di rivenditori americani. Farà quello che ha già fatto dopo l’incendio el Tazreen, da cui Sumi Abedin è sfuggita e che invece ha ucciso il giovane uomo che si è strappato la camicia. Cercherà di indicare dei nomi, e chiederà firme per il Bangladesh Fire and Buinding Safety Agreement.
“Ho già sentito che hanno trovato Benetton”, mi ha detto. “Dopo l’incendio del Tazreen, c’era un cimitero, corpi umani su tutto il pavimento. E ora ne abbiamo un altro… le aziende americane sanno che questo accade. Gli abbiamo detto: “Ricordate questi volti umani. Avete ucciso queste ragazze.”
articolo di Sarah Stillman, pubblicato sul New Yorker il 1 Maggio 2013.
In copertina: Keith Haring – Untitled, Aprile 1985
traduzione di Cristiano Arienti