Il racconto di un carcerato iraniano – 3° e ultima parte
L’intera prima giornata a Evin, da mattina a sera, Sami l’ha trascorsa su un prato, davanti all’edificio di accoglienza del carcere. Seduto in mezzo a migliaia come lui, la testa pelata tra le mani ancora incrostate di sangue; era impietrito, e incredulo dei freschi ricordi di poche ore prima. Se li era sognati i lamenti strisciati lungo le mura del commissariato di polizia, dove era stato rinchiuso la notte prima? L’idea di passare tra le mani di qualche torturatore lo stava braccando; e continuava a interrogarsi, come un disco rotto: la corte lo avrebbe lasciato libero? Disfacendo le accuse che le guardie della rivoluzione avevano formulato e firmato contro di lui? E poi, cosa avevano in mano per condannarlo a pene severe? Niente, sempre che la sua macchina fotografica fosse rimasta nelle mani dell’agente che gliel’aveva sequestrata; sperando, poi, che nessuno visitasse la sua pagina Facebook, dove aveva postato i filmati delle proteste del 2009 e del 2010. Non era così facile risalire al suo account, visto che s’era iscritto con uno pseudonimo. Lo avrebbero rilasciato: che altro potevano fare? E però quei lamenti della notte prima stridevano nella sua testa; ecco cosa potevano fare: lavorarlo.
Intanto, per ricevere un giudizio bisognava attendere: le file per comparire davanti alla corte erano interminabili, e dal cancello d’entrata del complesso carcerario continuavano a giungere bus carichi di prigionieri.
“La massa è il peggio che potesse capitare”, mi ha raccontato Sami, “avevo paura che celebrassero processi farsa, con punizioni collettive. Io cercavo di stare calmo; mi dicevo che sarebbe andato tutto per il meglio, che i miei genitori avrebbero fatto qualcosa per tirarmi fuori da lì il prima possibile. Il vicino che mi aveva riconosciuto in Azadi Street doveva averli avvertiti. Ma forse la verità è che non mi rendevo bene conto di trovarmi davvero a Evin; o per lo meno: l’idea di restarci a lungo mi pareva lunare. Altri si lamentavano, imprecavano; si passavano le mani in faccia, la grattavano, come per levarsi dagli occhi e dalla mente la realtà che stavano vivendo. Magari lo facevo anche io e non me ne accorgevo. Però ricordo che ero sostenuto da una convinzione interiore: non c’era solo paura in me, ma avevo dentro il senso del giusto. Erano loro a sbagliare, a essere nel torto. Certo, è facile parlare ora, lontano da Evin e fuori dal carcere. Forse è bello credere che fossi pieno di coraggio; che non fossi spaventato e depresso come gli altri.”
A metà pomeriggio tutti quelli che erano seduti sul prato sono stati bendati uno a uno, e caricati a turno sui bus che facevano da navetta all’interno dell’enorme complesso carcerario. Sami sapeva perfettamente che lui e gli altri ‘passeggeri’ erano tenuti sotto tiro dalle guardie montate sul mezzo.
“Nessuno, durante il tragitto, ha aperto bocca per fiatare. Si sentiva solo il rumore del motore, le ruote sterzate, e i colpi di freno. Io tenevo la testa bassa, immobile; presumo che anche gli altri facessero altrettanto.”
La sua prima notte Sami l’ha passata sdraiato nella palestra del complesso carcerario. Nessun riscaldamento acceso, pavimenti e pareti lividi di gelo. Le guardie avevano fornito dei teli a tutti, e Sami si era avvolto con tre o quattro di essi. Rannicchiato in posizione fetale, il corpo dolente di bugni, quella pila di stoffa doveva bastare per ripararsi dal freddo di febbraio: se la tirava fin sulla testa. Buio su buio. Un sonno spezzato varie volte dal gemito di chi gli stava accanto. E dal tubare di un colombo chiuso dentro alla palestra; la finestra dal quale era entrato era stata chiusa; il volatile cercava di riunirsi con il suo compagno, rimasto fuori. A ricongiungersi invece, quella notte, sono stati due amici. Uno dei due era stato imprigionato, e l’altro si era presentato a Evin chiedendo notizie dell’amico: hanno arrestato pure lui.
“Quella notte l’ansia mi saliva dentro a ondate; tenevo sbarrati gli occhi. Ripensavo come in un film a tutti i miei passi, dall’uscita di casa fino a quando le mani del basiji mi hanno acciuffato in Azadi Street. Non la smettevo di darmi dello stupido: ridere in faccia a uno di quelli! Come avevo potuto sfidarlo, perchè lo avevo fatto! Il sogno della rivoluzione, a portata di mano una quarantina di ore prima, sembrava infinitamente lontano. Quindi, la spossatezza aveva la meglio, e perdevo conoscenza; mi risvegliavo in preda all’ansia, e però ricadevo in un sonno allucinato.
“All’alba, poi, scorgi la luce entrare dalle alte finestre, un nuovo sole sorge; in quei pochi istanti tra dormiveglia e mattina, ti rendi conto che non è stato un incubo, ma è tutto vero. Ti guardi attorno e vedi gli altri: a decine ancora sdraiati per terra; alcuni seduti, poggiati sui gomiti come in spiaggia. La serietà degli zigomi e la pesantezza delle mandibole sono scolpite sulla faccia di chi è stato rinchiuso, separato dai suoi cari, via dalla sua vita. Ho masticato amaro, tenevo gli occhi per terra. Il senso di schifo addosso, perché sei sporco di polvere e di sangue essiccato, e non ti cambi da due giorni.”
“A un certo punto sento parlare qualcuno che ne sa di giurisprudenza, e vengo a sapere che hanno già calpestato ulteriormente i tuoi diritti elementari. Un giudice, secondo il codice penale iraniano, avrebbe dovuto convalidare l’arresto entro le 24 ore. Quel termine era scaduto abbondantemente, ormai. Pensavo a me; e pensavo a quegli individui arrestati per sbaglio, sorpresi dai basiji nel marasma totale di Azadi Street, e nel caos delle altre piazze travolte dalla protesta. Per loro doveva essere una situazione insostenibile, da perdere il senno.”
A metà mattina del secondo giorno a Evin, Sami è stato condotto ancora sul grande prato antistante l’edificio d’entrata del complesso carcerario. L’hanno sbendato in mezzo a migliaia di altri come lui. Barbe sfatte, palpebre gonfie, seduti con le spalle cascanti, o sdraiati con le mani sugli occhi.
“Quando osservavo certi prigionieri, mi sentivo attraversato da una brutta sensazione: erano pallidi come uno straccio, si toccavano parti del corpo dolenti. I volti erano segnati sì dalle botte e dalle notti in bianco, ma soprattutto da un livore, un tremore; gli sguardi brancolanti in cerca di aiuto, o assenti, alla ricerca di una spiegazione. Mentre li osservavo, mi chiedevo: cosa possono avergli fatto?”
Dal cancello d’entrata, mi ha spiegato Sami, continuavano ad arrivare bus carichi di gente in stato di fermo. Li dirigevano sul prato, i polsi legati dalle cinghiette, le teste inclinate verso i piedi. Schiaffi sulla nuca a chi riottava.
“A quelli delle proteste li stavano andando a prendere uno per uno, casa per casa, questo ci pareva. Tremendo. Ascoltando due guardie chiacchierare tra loro, ho sentito che in un solo commissariato di polizia, la notte prima, avevano tenuto all’incirca 1600 persone: molte le avevano fatte dormire all’aperto. Alla televisione, il giorno prima, sul bus, la Tv di stato aveva parlato di poche centinaia di manifestanti.”
“Intanto le guardie hanno pensato bene di mettere in piedi uno spettacolino per intrattenere i nuovi ospiti: hanno fatto sfilare davanti a migliaia di noi un gruppo di carcerati politici. Erano incolonnati; indossavano l’uniforme blu della prigione: il tessuto era così leggero che i loro corpi tremavano visibilmente. Avevano gli occhi bendati, e le braccia tese, le mani appoggiate sulle spalle del compagno di fronte.”
“Si trascinavano così, come un umile, cieco millepiedi umano.”
“Arricci le labbra per il disgusto; scuoti la testa per la pena; ma li fissi attentamente per la paura, l’orrore di fare quella fine. E intanto le guardie, come ristoratori al mercato del pesce, cominciano a prelevare le persone in attesa di giudizio. Allora capisci il perchè dello spettacolino: a scaglioni di dieci, bendati e con le mani sulle spalle del nostro compagno, venivamo fatti salire su un minibus, e condotti via.
I diritti tolti nel nome di Allah
A Sami è toccato a pomeriggio inoltrato. Non vedeva nulla, teneva la testa bassa: ma sentiva il rumore delle armi spallate e imbracciate. La benda gli è stata tolta all’ingresso di un edificio; era un grande salone già pieno di gente. Un uomo in borghese con una mascherina sul viso consegnava dei moduli da compilare; bisognava inserire l’indirizzo email ed eventuali account sui social media. Sami, sedutosi per terra contro al muro, ha pieghettato il suo foglio, e lo ha nascosto dentro una scarpa. Quando è stato il momento di muoversi da lì, mentre tutti riconsegnavano il modulo, lui si è tenuto ben lontano dall’uomo in borghese, nascondendosi tra la calca. Compilare quel modulo e consegnarlo a chi, con tutta evidenza, era un agente dei servizi segreti, sarebbe equivalso, nel suo caso, a un’autodenuncia. Appena ha potuto, Sami ha gettato il foglio immacolato dentro a un cestino.
All’uscita dell’edificio gli hanno bendato di nuovo gli occhi; come da prassi acquisita, ormai, solo per il trasferimento in un’altra struttura. L’hanno condotto in un corridoio, e dopo un attesa di qualche minuto, è stato fatto entrare in una piccola stanza senza particolari arredi: due scrivanie di ferro, su uno dei quali era poggiato il ritratto dell’occhialuto Ayatollah Khamenei, la guida suprema che spiega agli iraniani cosa Allah si attende da loro. E’ stato fatto sedere su una panchina addossata al muro, dove c’era già un altro uomo in attesa di giudizio; di fronte a loro, dietro alle scrivanie, c’era la corte, composta da un giudice grassottello con la barba di due giorni, e un segretario obeso.
‘Perché lo hai fatto? Perché hai manifestato illegalmente contro il regime?’
Questa è stata la secca domanda che il giudice ha rivolto all’uomo seduto accanto a Sami. La “colpa” un’ovvietà; il dubbio nemmeno preso in considerazione. Gli hanno offerto un documento da firmare: era la confessione di aver preso parte alle rivolte. L’accusa era pesantissima: attività contro la sicurezza dello Stato. L’individuo ha cominciato a pregare la corte: ‘Non ho fatto niente, lo giuro! Ho moglie e figli, non ho fatto nulla di male! Ero lì per caso, sono innocente’. Piagnucolava, era disperato. Il giudice lo ha invitato a firmare la confessione, che poi lo avrebbe rilasciato con tutta una serie di condizioni. L’uomo ha obbedito. E così, dopo aver ammesso delle colpe gravissime che avrebbero segnato per sempre la sua vita da cittadino, per un reato arbitrario, quell’uomo è stato rilasciato. Sarebbe stato convocato in seguito per farsi illustrare bene quali diritti gli venivano dimezzati. A Sami gli hanno contestato le stesse accuse; lui non ha pregato, né ha pronunciato suppliche: ha solo detto di non centrare nulla con le proteste, che era in Azadi Street per comperare dei libri e che un basiji lo ha fermato senza nessuna ragione. Il giudice ha convalidato l’arresto senza batter ciglio; il rilascio era previsto su cauzione o in presenza di un garante pronto a rispondere di un’eventuale assenza di Sami, qualora fosse stato convocato di fronte alla corte. Uscito dalla stanza, non gli è stato permesso di telefonare a nessuno, né per la garanzia né per i soldi necessari a uscire dal carcere.
“Sarà questione di ore, pensavo; mi faranno telefonare quanto prima e qualcuno mi verrà a prendere.”
Invece, dopo averlo bendato, è stato fatto montare sul minibus, e dopo qualche minuto si è ritrovato di nuovo nella palestra, dove vi è rimasto per qualche ora. Poi, a piedi e senza benda, è stato condotto in una struttura adiacente per la trafila della registrazione: impronte digitali, fotografie segnaletiche, altri moduli da compilare. E’ ritornato alla palestra, dove finalmente sperava di mettersi la testa sotto i teli e piangere in pace, perché aveva capito che da lì non sarebbe uscito presto. Invece a mezza notte circa Sami e altri sono stati bendati e caricati su un bus, diretto nell’area della prigione vera e propria. Il sonno, il freddo, la paura, il senso di impotenza. Li hanno sbendati all’ingresso di un grande edificio in via di ristrutturazione; sono stati condotti al terzo piano, all’imbocco di in ampio corridoio: ai lati, decine di celle di isolamento. Le celle, in realtà, erano aperte, perché strapiene, e lungo le pareti s’erano già accampati in centinaia, disposti in file ordinate. Alla luce fioca della notte, sembravano assi di una ferrovia.
In modo maldestro, Sami e gli altri si sono scavati il proprio giaciglio tra i corpi semiaddormentati; c’era un forte odore di cameratismo in malora. Al mattino Sami avrebbe scoperto che a nessuno di loro era stato concesso il diritto di recuperare i soldi, o chiedere la garanzia di un conoscente.
La sveglia è stata militare. Tutti i piedi, contro le pareti, pronti a rispondere all’appello fatto da una guardia penitenziaria. La lista dei reclusi era sterminata, e nel monotono recitare dei nomi e cognomi, Sami ha realizzato che alcuni suoi conoscenti erano rinchiusi insieme a lui in quel corridoio: tra loro magari c’erano solo una trentina di metri, ma non riusciva a vederli, separati da decine, centinaia di altre persone.
“Si comincia a fare la conoscenza di chi ti sta vicino: lo studente universitario accanto all’operaio, il professore spalla a spalla con il disoccupato, il religioso di fronte al medico. C’erano una varietà incredibile di persone che avevano sfidato il regime, e che stavano pagando caro il loro coraggio.”
Durante la giornata tutti, a turno, sono riusciti a lavarsi usando i lavandini delle celle di isolamento. Al pomeriggio hanno portato un telefono: le persone che dovevano chiamare erano centinaia, e la procedura per accedere a quell’unico apparecchio era molto lenta. A un certo punto una guardia ha passato in rassegna tutti i detenuti chiedendo se qualcuno avesse necessità di vedere un dottore. Sami, mostrando i segni delle bastonate prese due giorni prima in Azadi Street, ha marcato visita, insieme a diabetici, cardiopatici e altri conciati male per le botte rimediate durante la manifestazione o nei commissariati. Pensava sarebbe stato più semplice, lontano dalla massa, trovare il modo di telefonare a casa. E’ stato quindi bendato e trasferito in un altro edificio del complesso, vicino alla clinica del carcere. Avrebbe rimpianto la sua richiesta di farsi vedere da un dottore; nell’ala penitenziaria che aveva appena lasciato erano stati reclusi alcuni professori universitari che, per alcune settimane, tennero alto il morale dei detenuti con lezioni di Fisica, Letteratura, Arte, Biologia.
“L’ho trovata un’estrema forma di protesta: la dittatura teocratica ti caccia in prigione, cerca di schiacciarti e di annichilirti, e tu continui a coltivare l’arte della conoscenza e del libero pensiero.”
Giochi e interrogatori
Il settore 209 è il peggiore di Evin; è dove tengono rinchiusi molti detenuti politici e i condannati a morte. Ed è lì dove hanno spedito Sami, a quattro giorni dal suo arresto in Azadi street. La struttura principale è un edificio con i primi piani interrati in una collina; al suo interno sono ricavate celle collettive, ciascuna con undici letti incastellati a tre brande. In uno spazio destinato a 33 detenuti, però, nella cella di Sami c’erano in media un’ottantina di persone. Ci volevano i turni per coricarsi, e di notte spesso gli capitava di addormentarsi seduto contro la gamba di un letto, pigiato addosso ad altri detenuti.
“Una mancanza di spazio vitale intollerabile, a cui ti abitui solo per non andare fuori di testa, e perché speri che finisca presto.”
Le ore d’aria si consumavano nel cortile interno della struttura, in pratica una ‘piscina’ chiusa da quattro facciate così alte, che in quel periodo dell’anno il sole non batteva mai sul pavimento. Un luogo di perenne ombra. La claustrofobia era aumentata dalla paura di finire in isolamento. Il vero incubo però erano i gabbiotti scavati nelle pareti, tra una cella e l’altra: un metro cubo di buio ereditato dai carcerieri dello Scià. Quando ho chiesto a Sami come fosse vivere in quelle condizioni, la sua risposta è stata sorprendente:
“In quella situazione non mi sono lasciato abbattere, o deprimere, non me lo potevo permettere: anzi, ho reagito, e mi sono abituato abbastanza in fretta alla vita del carcere e ai suoi ritmi. Dopo pochi giorni riconosci chi potrebbe metterti nei guai, e soprattutto stai vigile, e fai funzionare il cervello; capisci cosa non devi fare per non finire nei radar della guardie penitenziarie. Anche loro, poi, si sono ritrovati a gestire una situazione di emergenza; la quantità di persone rinchiuse là dentro era straordinaria. I secondini apparivano molto severi, ma credo che non fossero troppo rigidi con chi era stato preso durante le manifestazioni. Con noi erano, come dire, pazienti; pur esercitando la loro autorità, ci facevano qualche sconto. Ad esempio lasciavano aperte le celle, e potevamo circolare liberamente nei corridoi . Ho riabbracciato alcuni amici lì dentro, e salutato facce note. Facevamo lunghe chiacchierate, si trovava il tempo di ridere e scherzare. Riuscivamo addirittura a organizzare giochi a squadre come “Mafia”, dove i “mafiosi” si battono contro la polizia in un’infinita trama di manipolazioni e bugie. E’ molto popolare nelle università iraniane, e perfino alcuni agenti hanno voluto imparare le regole. C’era poi chi giocava a scacchi. Insomma, il clima era generalmente rilassato. I nostri comportamenti non erano da detenuti modello, né troppo rispettosi: ma non rappresentavamo nemmeno una grossa minaccia. Il cibo era uno schifo, ma chi aveva i soldi poteva comprarsi roba decente allo spaccio, caricando il denaro nelle schede fornite ai carcerati. Purtroppo, il mio problema era che di soldi contanti ne avevo pochi, e nel sistema penitenziario un normale bancomat non viene accettato.”
“Il giorno dopo il mio trasferimento al settore 209, mi è stato dato un kit con della biancheria intima pulita e prodotti per l’igiene personale. Spesso avrei voluto comprarmi qualche altro indumento, o anche qualcosa di buono da mangiare; ma non mi andava di chiedere i soldi in prestito. Infatti i soldi gli ho spesi quasi tutti quando finalmente ho avuto la possibilità di contattare casa. Fortunatamente sono riuscito a chiamare il giorno del mio trasferimento nel settore 209. Questo però, del fatto che ero al verde, non l’ho detto a mio padre; o per lo meno, non in questi termini. Non volevo che la mia famiglia stesse troppo in pensiero. Già avere un figlio in carcere doveva essere un’esperienza terribile: gli ho solo chiesto, se gli fosse stato possibile, di mandarmi dei vestiti e un po’ di soldi. Cosa che puntualmente non è avvenuta, perché non entrava nulla a Evin, e soprattutto nessuno poteva uscire senza il permesso firmato da una corte. Ho visto un generale stellato chiedere a una guardia della rivoluzione di rilasciare un detenuto, il figlio di amici suoi. E’ stato rimandato indietro a mani vuote. Magari aveva il benestare di un funzionario, ma senza l’approvazione di un giudice, o dei servizi segreti, o della guardia della rivoluzione, nessuno poteva andarsene impunemente. E’ incredibile come il puntiglioso rispetto della legge e le enormi distorsioni di quella situazione potessero convivere. Le ordinarie procedure di rilascio, o su cauzione o su garanzia, erano saltate; ma il regime faceva finta che tutto fosse nel recinto della legalità. Per questo non ci speravo troppo in quei soldi, né sulla promessa di mio padre che sarebbe riuscito a tirarmi fuori di là quanto prima.”
“A un certo punto della prima telefonata, che comunque è durata pochissimi minuti, mio padre mi ha detto di non preoccuparmi: il mio professore aveva già provveduto a ‘quelle’ mie email molto importanti. Lì per lì non ho capito a quali messaggi si stesse riferendo, ma non gli ho domandato nessuna spiegazione. Una volta ritornato in cella, riflettendoci, ho compreso che si trattava di una specie di messaggio in codice: voleva avvisarmi che lui, o chi per lui, aveva pensato bene di ripulire il mio indirizzo elettronico di tutte le email che in qualche modo segnalavano la mia attività di “citizen journalist”, e i miei account di Facebook e Youtube. Ed è proprio quello che volevano estorcermi durante il mio primo interrogatorio a Evin: se fossi attivo in rete sui vari social networks, e se avessi contribuito in una qualche misura al “caos” che si era scatenato a Tehran.”
Sami sorride, di quel suo sorriso amaro, quando parla del luogo dove è stato condotto per il primo interrogatorio: era un edificio intitolato a Hosseinie, un antico martire dell’Islam; lì dentro, negli anni ’60 e ’70, gli oppositori della dittatura dello Scià venivano giustiziati. Una mattanza durata fino al 1979. A cui ne è seguita un’altra.
“In quel luogo, dagli inizi degli anni ’80, è toccato al regime teocratico trucidare i vecchi alleati che rigettavano i dettami dell’Ayatollah; lì dentro, lo sanno tutti, sono state impiccate centinaia di persone. Era un promemoria per tutti noi: guardate che qui non scherziamo, facciamo dannatamente sul serio. Ed è così straniante pensare che le stesse persone che vennero torturate e schiacciate sotto lo Scià, hanno fatto lo stesso con dei loro concittadini, e continuano tutt’oggi a sopprimere il dissenso con la brutalità.”
“L’arco di tempo del primo interrogatorio è durato una decina di ore. Mi hanno condotto in una stanza dove ad attendermi c’erano alcune persone. Sugli occhi avevo una benda, ma era stoffa sottile, riuscivo a vedere le loro ombre, i loro movimenti. Il fatto che non potessi guardarli in faccia significava che erano agenti dei servizi segreti. Hanno cominciato a mettermi addosso una pressione incredibile: dicevano di avere le prove della mia partecipazione ad attività controrivoluzionarie, e che mi conveniva parlare per non peggiorare la situazione. Ho tenuto duro la prima ora, nel senso che cercavo di placare il terrore. Ogni momento poteva essere buono per uno schiaffo, una bruciatura di sigaretta, le mani in faccia. Non so come spiegare: avevo paura del male fisico, del colpo violento e scriteriato. E poi avevo la strizza fottuta che mi tirassero giù la benda per sbattermi in faccia qualche mio post, qualche mio video o fotografia, o messaggi in cui criticavo o insultavo i maggiori esponenti del regime. Quelli sono stati i momenti peggiori del primo interrogatorio: mi passava per la testa la tentazione di ammettere colpe minori, per provare che non avevo fatto nulla di così grave, tutto sommato; se paragonato all’attacco di un commissariato di polizia, o all’aggressione a un poliziotto.”
“Sarebbe stata la mia fine. Sarebbero risaliti in fretta a tutto il materiale postato in rete, e alle volte in cui avevo rilanciato il tam tam di nuove manifestazioni. Non sarei più uscito da quella prigione per molto, molto tempo.”
“Come detto, ho tenuto duro. Gli agenti, dopo un po’, si sono fatti molto, molto aggressivi. Non hanno usato la forza su di me, hanno solo minacciato di aggredirmi. Quell’atteggiamento ha ottenuto l’effetto contrario: mi sono convinto che stessero bluffando, che non avevano nulla contro di me, nemmeno un piccolo indizio per giustificare le botte. Me ne stavo seduto, cercavo di stare tranquillo, per quel che potevo; seguivo i loro passi quando si alzavano, cercavo di intercettare il movimento delle loro mani. Rispondevo sempre dicendo la stessa cosa: io con le proteste non centro niente. E allora ricominciavano a urlare; uno di loro a un certo punto si è appoggiato allo schienale della mia sedia, e se ne stava lì: io mi sono bloccato, facevo fatica a parlare dalla paura. Forse per stemperare la tensione che si era creata, mi ha tolto la benda dagli occhi e a sua volta si è levato la mascherina dal viso, mostrandosi. ‘Guardami in faccia: quando toccherà a me percorrere il Sirat, potrai dire ad Allah che in vita non ti volevo male: ma ti chiedevo solo di dire la verità. Hai capito? Voglio che tu mi dica la verità, nient’altro.”
Il Sirat, nella religione islamica, è il passaggio che permette di accedere al Paradiso. Chi in vita si è lasciato dietro dei nemici, persone a cui ha fatto del male, si troverà davanti una strada così stretta che diventa impossibile da attraversare, e cadrà così negli abissi dell’inferno. Quel ragazzo aveva gli occhi blu, era istruito e vestiva alla moda: se a Sami lo avessero presentato in un locale di Tehran, ci avrebbe anche potuto fare amicizia. E invece si erano incontrati a Evin, durante un interrogatorio. Quel giovane dagli occhi blu gli stava chiedendo di consegnarsi, nel nome di Allah, alle prigioni delle torture e dei diritti negati; gli stava chiedendo di marcire, nel nome di Allah, nelle carceri degli umili, ciechi millepiedi umani.
Sami, così mi ha detto, in quel momento ha pensato a quanti esponenti del regime, camminando tra anime di concittadini calpestati, si accorgerebbero che il loro Sirat è stretto, dannatamente stretto.
“Ho mantenuto la mia versione. L’agente mi ha tirato su la benda, e ha passato la mano a un altro; ma inutilmente. Ripetevo ossessivamente che non centravo nulla con le manifestazioni.”
“Per il secondo interrogatorio mi hanno condotto nella stessa struttura, ma all’inizio è stato diverso; mi hanno consegnato un questionario con 170 domande, se non ricordo male. Si trattava di materiale per una ricerca sociologica. C’erano domande di carattere personale: sull’estrazione di classe, gli studi, le esperienze lavorative; e poi c’erano domande che spaziavano dalla società alla politica. Gli agenti, con il volto coperto, mi hanno chiesto di esprimere le mie idee e di motivarle. Secondo me il regime tentava di delineare un quadro generale della società iraniana, e il profilo delle persone coinvolte nelle proteste. Volevano capire bene chi erano i manifestanti, cosa volevano. Io ho cercato di barcamenarmi tra quello che pensavo, e quello che gli investigatori volevano sentirsi dire. Se ad esempio parlavo di uno degli errori politici di Ahmadinejad, citando un suo discorso in tv, venivo accusato di essere un bugiardo, di distorcere la verità, o addirittura che quel discorso non era mai stato trasmesso in Tv. Erano degli invasati. Stavo ben attento a non pronunciare frasi che potessero alterarli. Ma quello è stato solo l’assaggio. Poi è cominciato l’interrogatorio vero proprio, ben più intimidatorio rispetto al primo. Sono ripartiti alla carica con le solite domande e le solite minacce. Stavolta però, non appena ho cominciato a negare la mia partecipazione alle manifestazioni, hanno tirato fuori alcuni messaggi inviati con il mio cellulare; risalivano a due anni prima. Mi sono sentito perso. Hanno in mano tutto, mi dicevo. Mi urlavano in testa, mi insultavano, mi mettevano le mani in faccia. Protestavo debolmente; loro mi minacciavano, mi puntavano il dito contro e inveivano. Ero sul punto di cedere. Rileggendoli con attenzione, però, mi sono accorto che erano stati manipolati: i messaggi accennavano alla mia pagina Facebook, ma in modo strano, in uno stile che non era il mio. ‘Devi dirci gli indirizzi dei tuoi account sui social media’, ripetevano. Solo in quel momento ho realizzato in pieno quel che mio padre, o chi per lui, aveva fatto per me: facendo sparire dalla mia email le tracce di Facebook e Youtube, e quindi del mio impegno civile di Citizen journalist, mi aveva salvato. Non ho mollato, lo dovevo a lui; così ho ricominciato con la mia cantilena: ‘non ho aperto nessun account’; lo ripetevo guardando fisso davanti a me, imperterrito. Speravo di essere abbastanza forte per il tempo necessario.
“Gli agenti non si sono arresi: hanno tentato di costringermi a firmare una documento in cui dichiaravo di avere delle pagine sui social media: ‘non peggiorare la tua situazione’, mi ripetevano, ‘fatti furbo, confessa e ne uscirai prima di quanto tu credi’. Così per ore; mani in testa, insulti. Mi sentivo dentro a un pozzo; nonostante la benda fosse sottile, ormai non riuscivo più a scorgere nemmeno le ombre. Ero così sfinito che non riuscivo nemmeno più a esprimere un pensiero articolato. Ribadivo la mia frase come se fosse l’unico filo per risalire. A una certo punto, quando era già sera da un pezzo, e lo sentivo per il freddo, mi hanno riportato in cella.”
“Mi ci sono voluti un paio di giorni per riprendermi. Però nello spirito mi sentivo più forte di prima. Con alcuni compagni di cella, poi, mi sono vantato di aver tenuto testa a un interrogatorio con le palle. Ricordo di aver persino detto che erano stati degli stupidi, perché non mi avevano nemmeno chiesto perché i basiji mi avevano bloccato in Azadi Street. Ecco un bell’esempio di come non ho usato la testa. In cella doveva esserci certamente una spia, o un informatore. Sono stato prelevato di nuovo, stavolta senza alcun preavviso.”
“Bendato e ammanettato, mi hanno fatto salire su un minibus. Nessun’altro è montato dopo di me. Il bus ha acceso i motori ed è partito. Dal tragitto, credevo mi stessero portando nella stessa sede dei primi due interrogatori, l’edificio di Hosseinie. Ci siamo passati davanti, ma poi abbiamo proseguito per qualche decina di metri, e ho compreso che doveva trattarsi per forza della “scuola”. La “scuola” è una struttura che fa parte del settore 209; è lì, nei piani sotterranei, che il regime tiene i detenuti politici, rinchiusi nelle 290 celle di isolamento. Una volta dentro, mi hanno fatto sedere su una sedia. Dovevo essere al centro di un grande salone poco illuminato. Il luogo era così silenzioso, se paragonato all’ala dove ero stato tenuto fino a quel momento; la calma, lì, era inquietante; i rumori erano metallici, ingigantiti dall’eco dei corridoi deserti. Rumori di sbarre, di porte ferrate chiuse e serrate. Urla sporadiche di ordini e rimproveri.”
“Ero solo, attorniato da agenti con il volto coperto. ‘Devi dirci che cosa hai fatto di preciso per essere stato bloccato in Azadi Street! Perché non sei stato preso a caso: devi esserti reso colpevole di qualcosa agli occhi dei basiji. Noi già lo sappiamo, ma preferiamo che ce lo dica tu, così la tua posizione migliora’. Questo è quello che, più o meno, mi hanno domandato con insistenza. Ho dovuto ripetere più volte, nei minimi dettagli, la mia versione di come avevo trascorso il 14 febbraio. Speravano che mi contraddicessi in qualche punto del mio racconto? Sono stato molto attento a non nominare mai la macchina fotografica. Se avessero avuto quella prova, sono certo che non me la sarei cavata. E mi dicevo: Sami, non puoi cedere dopo aver retto al secondo interrogatorio. Il secondo interrogatorio è una barzelletta in confronto a quello che potrebbero farti, se sapessero.”
“Non volevo finire per davvero in un luogo come la ‘scuola’, tra i detenuti politici, anime già cadute nell’abisso dell’inferno.”
“Credo fosse il loro ultimo tentativo di spaventarmi, più che di incastrarmi. Alla fine di quell’interrogatorio mi è stato chiesto di firmare un documento in cui dichiaravo che non avrei preso parte per nessuna ragione a manifestazioni, e che non avrei in alcun modo partecipato ad attività controrivoluzionarie. Ho firmato un altro documento che mi imponeva di rimanere a disposizione della giustizia, qualora fossero emerse nuove prove a mio carico.”
Ritorno alla libertà
“Una mattina hanno cominciato a rilasciare gente; mi è stato comunicato di prepararmi, perché sarei uscito quel pomeriggio stesso. Erano trascorsi 44 giorni dal mio arresto. Io e altri compagni di prigionia siamo stati bendati, caricati su un minibus e condotti sul grande prato vicino all’ingresso di Evin. In breve siamo diventati una moltitudine, e la procedura di rilascio è durata tantissime ore; facevano uscire gruppetti di quattro o cinque persone alla volta, con un bell’intervallo tra l’uno e l’altro. Quando è toccato il mio turno, ero vicino a un ragazzo che faceva molta fatica a reggersi in piedi da solo. Non era l’unico, del resto. L’ho preso sotto braccio e ci siamo avviati verso l’uscita. Mi ha confidato di aver preso un sacco di botte durante l’ultimo interrogatorio. Quando abbiamo attraversato la portineria, una guardia s’è lasciata sfuggire un commento: ‘Ma quanti sono? Quanti ne devono uscire ancora?’
“Il Paese era stato tenuto all’oscuro di questo colossale rastrellamento; perfino gli agenti penitenziari di Evin, secondo me, non aveva ben chiaro quante persone erano state rinchiuse lì dentro.”
“Uscito dal portone del carcere, mi sono ritrovato in cima a una scalinata. Davanti a me, all’ombra dei monti, si estendeva Tehran, sterminata; mi sono attardato a osservarla. Ai piedi dei gradini, c’era una muraglia di persone: i famigliari di tutti quelli che il 14 febbraio e nei giorni successivi, non avevano fatto ritorno alle loro case, spariti per le strade della città.”
“Sono sceso per gli scalini molto lentamente, visto che reggevo ancora il ragazzo claudicante. Ma presto i suoi parenti lo hanno riconosciuto e sono venuti a prenderselo. Prima ancora di scorgere qualcuno dei miei famigliari, sono stato affrontato da un paio di donne con in mano la foto del proprio figlio: mi chiedevano con voce isterica se riconoscessi il loro ragazzo, se lo avessi visto dentro al carcere. A una di loro ho sorriso: ‘sì signora, tra poco tocca a lui uscire’. A un’altra, invece, ho risposto che ‘no signora, non riconosco il ragazzo nella foto’.”
“Ho notato un braccio di donna alzarsi sopra le teste, e agitarsi; ho sentito il mio nome gridato. Sono andato a prendermi l’abbraccio di mia madre, in mezzo a una folla di gente che sperava di poter fare lo stesso con il proprio figlio, o figlia, o marito, o fidanzata. A casa, poi, mi sono preso anche l’abbraccio di mio padre, e me lo sono stretto forte al petto. I miei genitori erano commossi. Anche io lo ero. Con loro non ho accennato di quello che ho visto, né di quello che ho subìto. C’era la vergogna e la paura; c’era il desiderio di non dargli altri incubi per la loro vecchiaia. E poi, le esperienze che ho vissuto mi si sono annidate dentro, e non è per niente facile tirarle fuori. Mi sono chiuso. Forse i miei genitori non volevano nemmeno che gli parlassi di quei miei 44 giorni. In cuor loro speravano che mi lasciassi tutto alle spalle. E per essere sicuri, conoscendomi, prima dell’anniversario dell’11 febbraio e delle elezioni parlamentari del 2012, mi hanno spedito via dal mio Paese.”
L’ultima volta che ho chiacchierato con Sami sedevamo su una panchina di un parco: avevamo appena finito di rileggere insieme alcune parti del suo racconto, e cercavamo di goderci il pallido sole della giornata. Dai discorsi di politica, programmi nucleari, sanzioni, venti di guerra, siamo finalmente passati ad argomenti più leggeri. Abbiamo parlato di un paio di film che avevamo entrambi visto. Ci siamo fatti due risate nel raccontarci gli stereotipi degli italiani, e quelli degli iraniani. Per qualche minuto abbiamo guardato distrattamente le persone passeggiare; abbiamo concordato che le italiane sono donne di fascino. “Anche le persiane sono molto belle, e hanno personalità da vendere!” Poi ha sentenziato: “In Iran devi stare molto, molto attento a guardare una donna che passeggia. Rischi grosso”. Ma non ha aggiunto altro. Ha scosso la testa; ha alzato le spalle, e quindi ha sorriso.
“Se tornerai in Iran”, gli ho chiesto, “ti mancherà il cibo italiano, eh?”
Sami ha sorriso, e ha annuito con un’espressione succulenta. “Molto buono”, ha detto in un italiano stentatissimo, “qui mangiare bello, molto buono!”
Era ora di pranzo. Ci siamo alzati dalla panchina, e siamo andati a farci una spaghettata.
FINE
di Cristiano Arienti
In copertina: “Siamo innumerevoli“, opera di Mir-Hossein Mousavi
perchè lo hai fatto? perchè lotti contro il regime?
la risposta è racchiusa nella testimonianza fornita da Sami.
caro cristiano grazie per aver dato voce a sami
Grazie Alessandra, per me è stata una fortuna aver fatto la conoscenza di Sami e aver potuto raccontare la sua storia e quella di tanti giovani iraniani.