Iraq 10 anni dopo: la conta delle vittime e delle bugie
Da giorni Teresa, maestra d’asilo e madre quarantenne, veniva a scuola con una faccia terrea: “Bambini, giocate pure, senza urlare però”; e non lo diceva con la solita aria allegra ed elegante. La voce come un filo sul punto di spezzarsi, e io sapevo perchè; i Talebani afghani avevano appena ucciso 2 alpini in un attentato: il tenente Manuel Fiorito, 27 anni, e il maresciallo Luca Polsinelli, 29. Il marito di Teresa, medico militare, si trovava da parecchi mesi laggiù, in un teatro di guerra, insieme all’Iraq, dove italiani perdevano la vita periodicamente. Mi è bastato chiederle “come stai”, con l’intonazione pronta ad accogliere lo sfogo, e Teresa ha una smorfia di dolore secco. Mani intrecciate contro il mento. Le rughe dell’insonnia spezzavano il suo volto tirrenico. “Non ce la faccio più. Ho il terrore ormai, quando sento il telefono squillare, che mi chiamino per darmi cattive notizie. E’ troppo dura.”
Era il maggio del 2006. Da oltre due anni, sopra la testa dei cortei degli antagonisti e dei centri sociali, aleggiava l’inno “10, 100, 1000 Nassirya”, oltraggio alla memoria di chi perse la vita il 12 novembre 2003, nell’esplosione di un’autobomba lanciata contro la base di comando italiana della città irachena. Lo si leggeva scritto sui muri esterni delle scuole, delle stazioni, o delle poste. Un haiku che descrive una giustizia immaginaria e sanguinaria; l’harakiri morale di alcuni giovani che odiavano la guerra e volevano la pace.
A 10 anni di distanza, l’intervento armato iniziò il 20 marzo 2003, il tetro inno resta una delle cicatrici di quel periodo; rimanda al conto delle vite umane perse, e ci ricorda il costo dell’equilibrio mentale di fronte alla minaccia di apocalissi atomiche, e il dubbio che quell’invasione fosse ingiustificabile. “Iraqi Freedom” fu una guerra combattuta sì per buttar giù il tiranno Saddam Hussein, ma con lo scopo di prevenire attentati simili alla follia dell’11 Settembre. Dovevamo salvare, così ci veniva detto, le città Occidentali: i missili però sventravano i palazzi della Mesopotamia, e i kamikaze si facevano scoppiare per le strade di Baghdad; le bombe al fosforo spellavano a morte gli abitanti di Falluja, ed erano famiglie irachene a essere colpite davanti ai check point, lungo le strade del Paese.
Gli atroci attentati di Madrid (2004) e Londra (2005) furono messi in atto da persone che, secondo le indagini, non avevano nulla a che fare con l’Iraq di Saddam Hussein. Semmai resta il dubbio che diventarono obiettivi presi si mira dai terroristi come ritorsione per quel conflitto.
Guerra alla ragione
Non appena il presidente Usa George W. Bush, era il 1 maggio 2003, dichiarò “mission accomplished”, l’happy end del film che scorreva nella sua testa, l’Italia del 2° Governo Berlusconi inaugurò “Antica Babilonia”, 3600 uomini dispiegati nel sud dell’Iraq. Quando a luglio arrivarono i primi carabinieri e soldati, sul campo c’erano già i tecnici di varie compagnie petrolifere, tra cui anche l’italiana Eni (fonte Rainews). L’Eni vantava contratti preguerra sui giacimenti nella regione di Nassiriya, e ha potuto farli valere nel 2009, quando sono stati assegnati gli appalti in una gara riservata. La suddivisione dei pozzi tra i Paesi della Coalizione, quindi, era cominciata presto; intanto i musei dedicati alla civiltà assiro-babilonese, culla della prima scrittura, avevano già subito abbondanti saccheggi.
Le forze speciali americane incaricate di trovare le armi di distruzione di massa vagavano per la Mesopotamia senza una meta: le “prove” di cui aveva sempre parlato l’amministrazione Bush, si rivelarono miraggi tremanti nel deserto, allucinazioni imposte a miliardi di persone. Saddam Hussein, ci avevano detto, ha cercato di produrre armi di distruzione di massa acquistando uranio impoverito dal Niger. Uno scienziato fuggito dall’Iraq, coinvolto in un vecchio programma nucleare iracheno smantallato dieci anni prima dall’Onu, giurava che le armi esistessero veramente; la stampa ne parlò per settimane.
Già mesi prima dell’attacco anglo-americano, gente come Robert Fisk, corrispondente in Medio oriente per la testata britannica Indipendent, cercava di spiegare in modo articolato come “Iraqi Freedom” fosse una guerra per il petrolio. Paul O’Neill, 1° ministro del tesoro dell’amministrazione Bush, si dichiarò testimone di pressioni da parte di Bush stesso sul ministro della difesa Donald Rumsfeld affinchè venissero trovate “scuse” per muovere guerra contro Saddam Hussein; gli episodi citati da O’Neill si riferivano a un tempo antecedente all’11 Settembre.
La loro parola contro quella del presidente degli Stati Uniti George W. Bush:
“Secondo fonti di intelligence britanniche e americane, Saddam dispone di ordigni nucleari, prodotti con uranio impoverito acquistato anni prima dal Niger; è pronto a consegnarli all’organizzazione terroristica di Osama Bin Laden, o addirittura potrebbe essere tentato di usarli egli stesso”.
I britannici The Sun e Mail on Sunday, su spunto di Alistair Campbell, uno stretto collaboratore dell’allora premier Tony Blair, titolarono che Saddam Hussein poteva scatenare una guerra chimica sulla Gran Bretagna in appena 45 minuti. Nello stesso lasso di tempo avrebbe quindi potuto attaccare le maggiori città italiane .
In Italia, appunto, il dibattito fu isterico; lacerò le coscienze e divise la nazione: da una parte la pace “senza se e senza ma”, dall’altra l’imperativo di prevenire attacchi terroristici contro le nostre città. Un conflitto sia filosofico sui concetti di guerra e pace, sia pragmatico su come difenderci dal terrorismo; e fu scontro ideologico tra destra e sinistra, mai entrate troppo nel merito delle accuse angolo-americane a Saddam Hussein. Ma chi appoggiava un intervento militare, fingeva di ignorare due elementi decisivi:
1) non c’erano prove che Saddam avesse legami con Bin Laden, ma solo fonti di Intelligence riportate (e mai rese pubbliche) da Dick Cheney, nella sua doppia veste di vicepresidente Usa e anche della Halliburton, gigante petrolifero oggi ben radicato in Iraq.
2) gli ispettori Onu e dell’Aiea (agenzia internazionale per l’energia atomica), guidati da Hans Blix e Mohamed El Baradei, per mesi avevano setacciato decine di siti iracheni, senza trovare il minimo indizio che portasse non dico alle armi di distruzione di massa, ma al trattamento di uranio, per cui servono impianti mastodontici.
Gli ispettori dell’Onu e dell’Aiea chiedevano più tempo, ma si dichiaravano perplessi di fronte alle certezze di Bush, Cheney e Blair. Quando a guerra scoppiata le “prove” del programma nucleare iracheno “via Niger” furono sottoposte all’esame dell’Aiea, vennero dichiarate dei falsi clamorosi senza esitazione. Joseph Wilson, diplomatico Usa, era stato in missione nel 2002 nello stato africano per appurare se Saddam avesse davvero comprato l’uranio; nel 2004 dichiarò pubblicamente di aver tentato, prima della guerra, di convincere la Casa Bianca che quell’accusa “era un’invenzione”.
Quello stesso anno l’America premiò con la rielezione George W. Bush, dall’11 Settembre 2001 Commander in Chief di una nazione aggredita, impegnata nella guerra globale contro il terrorismo di matrice islamica. Una commissione d’inchiesta parlamentare, intanto, aveva indagato il Consigliere di Stato Condolezza Rice; si cercava di capire perchè non avesse attuato misure antiterroristiche adeguate nonostante i rilievi della precedente amministrazine Clinton sulla pericolosità di Bin Laden e di chi si ispirava a lui. Saltò fuori che la Rice aveva ignorato rapporti ufficiali di intelligence sull’attività di “persone molto sospette” sul suolo americano; agenti dell’Fbi (ufficio investigativo federale) avevano seguito alcuni dei futuri “dirottatori”, segnalando che stavano frequentando scuole per piloti. La commissione ha accusato pubblicamente la Rice di negligenza in relazione agli attentati dell’11 Settembre. Il rieletto presidente Bush l’ha promossa a Segretario di Stato, il nostro corrispettivo di ministro degli esteri.
L’unico a pagare, e mica per l’11 Settembre, fu George Tenet, l’allora capo della Cia (i servizi segreti americani), costretto a dimettersi per aver dato peso a prove rivelatesi dei falsi.
La storia ha già moralmente condannato George W. Bush per non aver difeso adeguatamente il popolo americano e, nel tentativo di rimediare, per aver varato il Patrioct Act. Quella legge, firmata poche settimane dopo l’11 Settembre, permette alle autorità di spiare ogni angolo di vita dei cittadini, qualora sospettati di terrorismo, senza avvertire nessun giudice. E di fronte a un giudice, Bush quasi certamente non ci andrà mai; non risponderà di una guerra celeste e campale così tanto agognata, trasformatasi poi in scontro tribale, che fino a oggi ha mietuto, approssimativamente, oltre 130.000 vittime civili (fonte Iraq Body Count). I soldati della coalizione che hanno perso la vita in Iraq (senza contare le migliaia che si sono uccisi una volta tornati a casa) sono 4.804; fra loro, 33 erano italiani.
1000, 100, 28 individui
Il presidente del consiglio Silvio Berlusconi appoggiò senza esitazione Stati Uniti e Gran Bretagna nell’attacco all’Iraq: prima diplomaticamente e poi militarmente. Ruppe così, insieme a Spagna, Danimarca e la stessa Gb, il fronte antibellico europeo, e garantì soldati preziosi in Iraq in presenza di una risoluzione Onu, la 1483, che definiva i militari della coalizione come “occupanti”. Per l’articolo 11 della Costituzione italiana il nostro Paese non può entrare in guerra se non per difendersi da un attacco. Secondo il governo Berlusconi noi eravamo in Iraq per difenderci da Al Qaeda, e comunque la presenza militare dell’Italia a Nassiriya era stata concepita e predisposta come una missione di “pace”. Si è mantenuta tale anche quando si sono moltiplicati in tutto il Paese mediorientale quotidiani episodi guerriglia condotti dagli ex baathisti di Saddam, rivoltosi sunniti, integralisti sciiti, più gli attacchi terroristici ad opera di combattenti della Jihad o di cellule ispirate ad al-Qaeda. I nostri soldati, privi delle contromisure belliche adottate da Usa e Gb nella sfida contro gli insorti, rispondevano al fuoco solo se bersaglio di artiglieria. E questo capitava spesso, presi di mira dai lanciarazzi. Armi, elicotteri e blindati rimasero nelle caserme italiane, e intanto le pallottole fischiavano per aria, e rimbombava l’eco delle esplosioni. Come quella che nell’agosto del 2003 distrusse la sede Onu a Baghdad. Quell’attentato, in cui morirono decine di persone, indusse Britannici e Americani a recintare i loro comandi con muri di cemento. I vertici italiani, invece, andarono avanti a raccontarsi (e a raccontarci) le favole: noi siamo brava gente, siamo lì (solo) per costruire strade, ponti, ospedali.
Il camion pieno di tritolo che devastò il nostro comando di Nassirya uccise 28 persone: 19 italiani tra soldati dell’esercito, carabinieri e civili, più 9 iracheni. Il dolore di quella tragedia ha segnato fisicamente l’esistenza di mogli, fidanzate, figli, fratelli, genitori, amici. Nessuno di loro ha mai più potuto guardare negli occhi il proprio caro, nè stringerlo tra le braccia, nè sussurrargli alla guancia un ciao. E’ la mancanza di questa vista, e del tocco, e del calore, che scuote e ferisce, e dentro il petto torce qualche cosa che definiamo anima.
In quei giorni del maggio 2006, il pallore sul viso di Teresa, il tremore della sua voce, non erano altro che il riverbero dell’anima sua, e il rumore della paura. Solo allora ebbi la percezione del buio dentro coloro che, nel momento stesso in cui inneggiavano a una nuova Nassirya, si auguravano nuovi orfani, nuove vedove, nuovi funerali. Niente li poteva giustificare, nemmeno la guerra bugiarda dell’America di Bush e dei suoi alleati.
di Cristiano Arienti
In copertina: Cimitero di Arlington, Washington DC, USA, 2007 – Mary McHugh sulla tomba del fidanzato James Regan, caduto in Iraq. Foto di John Monroe / Getty Image