Il racconto di un carcerato iraniano – parte 1/3
Lo chiamerò Sami, un qualunque nome persiano. Mi ha concesso di pubblicare la sua storia a patto di rimanere anomimo: teme la reazione del regime iraniano. Ha paura che, svelando la sua vera identità, possa mettere in pericolo i sui suoi genitori, o i parenti, che vivono ancora sotto il giogo di una delle dittature più feroci del pianeta: l’Iran ispirato da un’illuminazione divina accecante. La storia di Sami è cominciata proprio perchè lui e la maggior parte dei suoi concittadini erano stanchi di chiudere gli occhi davanti all’ingiustizia e al malgoverno; per troppo tempo avevano dovuto osservare una “virtù” imposta con i rimproveri pubblici, il bavaglio, con le manette, con le bastonate. Dal 2009 hanno deciso di tenere aperti gli occhi, di respingere i dogmi politici e sociali di una classe dirigente che scambia la notte con il giorno. Ma è una storia triste, perchè dopo tre anni gli occhi suoi e degli iraniani sono sbarrati di fronte alla brutalità più cieca, e chi ne parla lo fa correndo il rischio di finire nelle galere delle torture, della violenza psicologica, delle umiliazioni.
Proprio dove un anno e mezzo fa è stato rinchiuso Sami per oltre 40 giorni.
Quando sono in sua compagnia, non mi sembra vero che sia stato a Evin, il carcere di Tehran dove il regime teocratico iraniano imprigiona i detenuti politici. Spesso mi trovo a osservare le sue braccia e la sua testa rasata, alla ricerca dei segni delle bastonate di cui mi ha raccontato. Ha una cicatrice sulla testa: potrebbe essersela procurata in qualsiasi modo, ma finora non me la sono sentita di chiedergli l’origine di quello spessore bianco sulla sua pelle di sabbia. Sami è un 27enne massiccio e dallo sguardo sveglio. In Iran era studente universitario di una disciplina scientifica, ma coltivava anche la passione del citizen journalism, in un Paese dove di veri giornalisti ce ne sono ben pochi, e le voci libere sono state costrette all’esilio. Si trova in Italia da qualche mese ormai; i suoi genitori, con l’avvicinarsi delle elezioni del parlamento iraniano dello scorso marzo, lo hanno spinto fuori dal Paese: tremavano all’idea che il loro ragazzo si unisse alle proteste, nel caso ci fossero state, e finisse di nuovo a Evin o chissà dove. Quando Sami mi parla del suo allontanamento dal Tehran, lo fa con il suo caratteristico sorriso, in bilico tra amarezza e sbeffeggio, atteggiamento che nella vita gli è costato fin troppo caro.
“Per me ormai la situazione era delicata: mi avevano rilasciato dopo un mese circa di carcere perchè non erano riusciti ad acquisire nessuna prova della mia attività di citizen journalist; per un colpo di fortuna, poi, i miei genitori erano stati avvertiti subito del mio arresto, e si erano attivati immediatamente per il mio rilascio. Ma dopo, per quasi un anno, ho vissuto con la paura di venire imprigionato da un momento all’altro: o perchè risaliti alle foto e video che avevo fatto e caricato nella Rete, o con qualche accusa inventata.”
Che un governo possa inventarsi un’accusa per mettere in carcere qualcuno sembra fantascienza: e invece questo è l’Iran, e così sono tutti gli altri regimi illiberali, da millenni. Quando affermo che quindi non avrebbe preso parte ad eventuali manifestazioni, se fosse rimasto a Tehran, sfodera quel suo sorriso; scuote la testa, ma non è un diniego, bensì per esprimere disaccordo: “Certo che avrei partecipato: Khamenei e Ahmadinejad sono dei dittatori. La maggior parte della gente non ne può più di loro. Oltre a toglierci la libertà, stanno portando il Paese alla rovina da un punto di vista economico e strategico, e rendono irrespirabile la vita delle persone. Aggiungi che con la loro ostinazione a dotarsi dell’energia nucleare espongono il Paese alla minaccia di una guerra. A causa di questo la comunità internazionale ci ha inflitto delle sanzioni che stanno mettendo il Paese in ginocchio. Sono due persone che vogliono il male della loro gente, se ne devono andare.”
Alla domanda se non avrebbe avuto paura di finire per la seconda volta a Evin, sorride di nuovo: “Certo che avrei avuto paura. Da lì non scappi, lì dentro non hai difese. Sei in loro pugno, possono farti tutto quello che vogliono, tutto quello che gli salta in mente di fare.”
Su Youtube è stato postato il video di una ventenne che accusa la polizia iraniana di averla arrestata scambiandola per una manifestante. Una volta in galera la giovane, privata di qualsiasi elementare diritto, sarebbe stata oggetto di violenze indegne e reiterate.
Una volta ho domandato a Sami se fosse stato torturato, e lui ha detto di no, a parte le botte dei primi giorni di detenzione. Poi ha chiuso gli occhi, e il corpulento 27enne si è lasciato sfuggire un sospiro: “in quella stanzetta sotterranea dove mi tenevano chiuso con altre 40 persone sentivo le urla di chi veniva “lavorato” dagli agenti. Volevano i nomi di chi aveva organizzato la manifestazione, sapere se ci fosse stata una regia dietro alle proteste.”
Sami fa riferimento al febbraio 2011, quando un folla oceanica si riversò in Azadi street, una delle arterie principali di Tehran, per il secondo anniversario della mancata rivoluzione del 2009.
“I carcerieri andavano avanti per ore, e non si accontentavano degli unici nomi che saltavano fuori, cioè di altri manifestanti. E’ per questo motivo che quando partecipavo alle proteste ci andavo da solo; mi dicevo: se mi prendono, non potrebbero cavarmi fuori nemmeno un nome. Purtroppo capitava di vedere qualche viso noto nel mezzo della folla, e in quei casi mi maledicevo: sapevo che avrei potuto vendermi quella persona per evitare qualche sessione di legnate in meno, o l’ennesima bruciatura di sigaretta sul corpo. In molti sono stati incarcerati giorni dopo la fine delle proteste, proprio perchè chiamati in causa da gente distrutta psicologicamente dalle torture.”
Gli domando se ci fosse stata effettivamente una regia dietro alle proteste del 2011.
“Che regia vuoi che ci fosse stata?” si risponde Sami; “Nessuno in Iran poteva dimenticare cosa era successo due anni prima. Eravamo andati in massa a votare, convinti che finalmente ci saremmo liberati di Ahmadinejad, e che il nuovo presidente sarebbe stato Mousavi, un uomo moderato in grado di mitigare le politiche integraliste di Khamenei. E invece prima della chiusura delle urne, un comunicato ufficiale della Presidenza della Repubblica annuncia che Semalì, (ndr, il nomigliolo affibiato ad Ahmadinejad), ha raggiunto il 63%. Una vergogna, una presa in giro. Per questo la gente nel 2009, uomini, donne, giovani, laici e religiosi, s’era riversata nelle piazze alzando cartelli con la scritta “Where is my vote?”; quel risultato era una frode, ci stavano rubando la democrazia, la speranza di un Iran diverso, migliore.”
Quando nel 2009 le proteste esplosero in tutte le principali città, Alì Khamenei e Mamhoud Ahmadinejad, rispettivamente la guida religiosa suprema e il presidente del Paese, diedero il via a una caccia all’uomo straordinaria. Khamenei, successore di Ruollah Khomeini, è l’uomo che dal 1989 spiega agli Iraniani cosa dio si attende da loro. Ahmadinejad, dal 2005, impone un’agenda politica basata sui principi della rivolzione Khomeinista del 1979, cioè uno stretto controllo dello stato teocratico su tutti gli aspetti e i settori della società e della vita pubblica. Ecco chi sono le persone che prima negarono i brogli alle elezioni, e poi, alla vista di imponenti manifestazioni per le strade delle principali città iraniane, decisero di usare il pugno. Sguinzagliarono i Basiji, parola che in persiano significa “mobilitazione per gli oppressi”, e che costituiscono una milizia civile incaricata di mantenere l’ordine e la disciplina. Si pensa che i Basiji pronti a intervenire in casi come le proteste del 2009 sono circa 1 milione e mezzo, e tanti ce ne vollero per fronteggiare la folla oceanica che riempì Azadi street e le piazze delle principali città iraniane. In sella alle loro moto, caricarono le persone, le presero a bastonate e cominciarono a colpirle con catene. Gli arresti furono brutali, e quando i Basiji compresero che la gente reagiva e non avrebbe sgomberato così facilmente, partitono con le coltellate alla schiena e le pistolettate ad altezza uomo, a caso, sulla folla. E’ così che morì Neda Soltani, sparata alla faccia, diventata nel mondo il simbolo di un popolo represso nel sangue. “Non ero lontano da dove l’assassinarono”, mi ha raccontato Sami. “Lei non era stata la prima: avevamo già capito che erano disposti a uccidere pur di mantenere il potere.”
Nel 2009 a migliaia furono arrestati, compresi Medhi Karroubi e Hossein Muosavi, i candidati rivali di Mamhoud Ahmadinejad alle elezioni presidenziali. Da allora in Iran non esiste più un’opposizione nè una democrazia effettiva: al voto partecipano solo le fazioni già al potere. In molti che per anni avevano osteggiato Ahmadinejad e Khamenei, sono dovuti fuggire all’estero; tra gli altri, l’avvocato Shirin Ebadi, premio Nobel per la Pace che si batte per i diritti civili delle donne iraniane e più in generale delle donne musulmane. Altri personaggi illustri sono stati incarcerati. La loro storia diventa esemplare per capire cosa accade quando alcune persone decidono di schiacciare il libero pensare dei loro concittadini. Ma di tanti altri, per mesi, non se ne era saputo più niente, illustri sconosciuti ingoiati nei sotterranei dei commissariati. Alcuni erano riapparsi in prigioni di regioni lontanissime, condannati a pene decennali. Chi aveva fatto ritorno se ne guardava bene dal raccontare in giro cosa gli avevano fatto in carcere, cosa aveva visto e udito.
“Tutti sapevano, nessuno parlava per la paura. Sono stati due anni di apnea, e quando abbiamo riaperto la bocca, è perchè non potevamo più reprimere l’urlo di rabbia e disperazione.”
L’uomo del montacarichi
Il clima di terrore è durato fino al secondo anniversario della mancata rivoluzione verde, caduto in piena rivoluzione dei gelsomini. Era febbraio, la Tunisia aveva già cacciato il suo tiranno, e in Egitto il popolo di Piazza Tahir stava ribaltando una dittatura trentennale.
Ho chiesto a Sami come è stato possibile che, in quel febbraio, la gente si riversasse di nuovo per le strade senza una regia, con internet monitorato scrupolosamente dalla polizia.
Lui sorride beffardo, scuote quella sua grossa testa pelata. “Vuoi sapere quando ho deciso di andare in Piazza nel 2011? Beh, sembra assurdo, ma è andata così. Stavo uscendo per andare a un appuntamento con la mia ragazza, era san Valentino, festa odiata dai “virtuosi” ma molto popolare tra i giovani. Avevo preparato una giornata romantica. Prima però volevo dare un’occhiata in televione, se parlavano di proteste in corso per l’anniversario della rivoluzione, tre giorni prima. La Bbc Persia stava mandando la diretta di un uomo salito sul montacarichi di un cantiere: in una mano teneva un vessillo verde, nell’altra la fotografia di lui inseme ai suoi figli. Sull’immagine c’erano scritti i nomi di ognuno. Ci stava dicendo che non dovevamo scordare cosa era accaduto due anni prima, e ci stava istruendo: ‘se un cecchino mi spara, potete risalire alla mia identità, e sapere chi è morto per mano di questo regime sanguinario’. In contemporanea la Bbc riportò di un’agenzia stampa: diceva che in caso di manifestazioni per l’anniversario della rivoluzione verde, la polizia non avrebbe attaccato i partecipanti.’
‘Non ci ho pensato due volte: ho telefono alla mia ragazza avvertendola che sarei arrivato in ritardo all’appuntanento, e che potevamo vederci direttamente a cena. Le spiegai che intendevo andare in Azadi street, perchè lì, sicuramente, sarebbero confluite le maggiori manifestazioni. Dopo averle promesso di stare molto attento, ho preso la mia macchina fotografica digitale, la stessa con cui avevo girato dei video trasmessi anche dalla Bbc Persia nel 2009 e 2010, e ho chiamato un taxi. Mi sono fatto lasciare in Keshavarz Boulevard, vicino all’Università di Medicina. C’era già molta gente che si dirigeva a piedi verso Enghelab street, grande arteria di Tehran, e non pochi camminavano occupando la carreggiata. Una volta arrivato a Enghelab street, nella zona dove c’è il grande mercato dei libri, ho avuto uno shock: i larghi marciapiedi straripavano di gente confluita da tutte le traverse minori, ognuna un affluente che riversava centinaia, migliaia di persone. Saranno state le 3 di pomeriggio; prima di sera, realizzai, Enghelab street si sarebbe trasformata in un fiume in piena; ero certo che avrebbe corso veloce lungo Azadi street, sfociando poi in Azadi square, trasformandola nella piazza Tahir iraniana. In persiano Azadi, come Tahir in arabo, significa libertà.’
Ed è proprio la negazione della libertà il motivo che ha spinto Sami e tantissimi come lui ha scendere in piazza in quel febbraio 2011, nonostante sapessero i rischi a cui andavano incontro. Tuttavia, come mi ha confidato lui stesso: “Nell’aria c’era la sensazione che potesse succedere qualcosa di grande. Era la prima manifestazione dopo la repressione del 2009, e guardandoci negli occhi, noi che eravamo in Enghelab street, sembravamo tutti avere lo stesso pensiero: non possono reprimerci anche stavolta, non con la rivoluzione araba scoppiata dalla Tunisia allo Yemen. Non ce ne andremo dalle piazze stavolta, accada quel che accada. Quella nostra impressione era confermata dall’atteggiamento dei poliziotti lungo il viale: erano già in molti, ma ci lasciavano sfilare per le vie senza problemi, come preannunciato dall’agenzia di stampa trasmessa dalla Bbc; anzi, alcuni mostravano simpatia per noi manifestanti, ci dicevano di occupare anche il centro della carreggiata, non solo la corsia adiacente al marciapiede.”
In questo contesto euforico, “ho iniziato a filmare i manifestanti che strappavano i cartelloni raffiguranti Khomeini accanto a Khamenei, e a registrare il coro scandito ripetutamente dalla folla: ‘dopo Mubarak e Bel Alì tocca a te Seyed Alì (ndr: Khamenei). Era come la manifestazione dell’anno prima, ma mille volte più grtande.”
Un uomo distribuiva le fascette verdi, il colore della Rivoluzione, e lui ne ha prese un po’: mentre provavano a legarle alle braccia dei poliziotti, Sami e altri manifestanti cercavano di interagire con loro, gli chiedevamo di unirsi alle proteste.
Tra i poliziotti, come mi ha spiegato, molti lasciavano fare; erano giovani che avevano firmato solo per avere un stipendio sicuro; in realtà simpatizzavano con i rivoluzionari.
Quegli stessi agenti, però, nel giro di pochi minuti avrebbero mutato atteggiamento. Sami e il fiume di folla in piena scorrevano lungo Azadi street, ed erano prossimi ad Azadi square. I vertici del regime iraniano si resero conto che se la gente avesse raggiunto l’enorme piazza nel centro di Tehran, ci sarebbero voluti i carriarmati per sgomberarla: come nel 1989 in piazza Tienanmen, in Cina; oppure, come non era successo in Egitto, a piazza Tahrir.
La polizia, però, come mi ha spiegato Sami, ha cominciato a caricare solo quando sono arrivati i Basiji, non prima. Sulla gente sono iniziati a piovere i primi lacrimogeni. Lui è riuscito a fuggire in una delle strade laterali che intersecano Azadi street. La folla si è trasformata in tanti rivoli impazziti: si separava e si ricongiungeva come se scorresse su un piano inclinato; ognuna di quelle gocce, ormai libere dalla paura, puntava dritto ad Azadi square: o lungo la Azadi street, o percorrendo le parellele laterali.
“Capisci perchè non c’è stata nessuna regia? Il film della rivoluzione scorreva da solo nella testa di ogni manifestante: se fossimo riusciti a raggiungere la piazza e la polizia si fosse rifiutata di usare la forza bruta contro di noi, ci sarebbero state buone possibilità di mettere in crisi almeno Ahmadinejad.”
“E i Basiji?” ho chiesto a Sami, mentre mi raccontava quel suo 14 febbraio 2011. “Che facevano intanto i Basiji?”
Sami ha azzardato un sorriso, il suo sorriso, ma c’era più amarezza che sbeffeggio: “All’inizio sembravano troppo pochi, e se ne stavano in disparte per non essere travolti dalla folla. Poi piano piano i loro branchi si sono ingrossati sempre di più, e hanno cominciato a battere le persone, indistintamente. Certi fendevano la gente alla ricerca di chi, come me, stava filmando la manifestazione.”
Il braccio di ferro tra manifestanti e forze dell’ordine doveva rimanere una cosa circoscritta solo in Azadi street; al Paese non doveva arrivare il messaggio che quell’14 febbraio era il giorno della resa dei conti.
“Io infatti ho messo in tasca la mia macchina digitale e ho cercato di stare il più possibile alla larga dai Basiji: sapevo quanto potevano essere pericolosi e vigliacchi. Dentro di me, però, pensavo: ‘Per voi è finita’.”
E invece le cose sono andate diversamente. Di lì a poco era per Sami che sarebbe stata la fine.
Imprigionato da un angelo custode
“E’ stato questo a fregarmi”, mi ha detto, indicandosi le labbra piegate in una smorfia che esprimeva solo lo sbeffeggio.
“Passando poco distante da un gruppetto di Basiji, uno deve aver letto perfettamente quel sorrisetto strafottente. Mi si è lanciato addosso con una tale rapidità che non ho fatto nemmeno in tempo a tentare una fuga. Una volta bloccato, sebbene protestassi di trovarmi in zona per comprare dei libri, è scattata la perquisizione corporea. Loro possono. Dalla tasca dei miei pantaloni ha tirato fuori la macchinetta digitale. ‘E questa?’, mi ha chiesto il basiji. Ho prontamente risposto che la tengo sempre con me. ‘Bene’, mi dice quello, ‘lo stabilirà l’Hajj a che cosa ti serve questa macchinetta, e se eri qui per solo per comprare dei libri o invece sei qui da controrivoluzionario’.
L’Hajj, il nome dato a chiunque si rechi alla Mecca in pellegrinaggio, è anche il modo per indicare il leader di un gruppo di Basiji, e nascondere la sua vera identità. Erano circa le 5 di pomeriggio quando Sami è stato portato davanti all’Hajj.
“E’ stato tutto così veloce. Mentre facevo quei pochi passi verso l’Hajj, ero convinto che potevo ancora cavarmela. Invece l’Hajj ha detto che aveva un solo compito: incarcerare i manifestanti e portarli di fronte a una corte.”
In quel momento Sami ha compreso di trovarsi un grosso, grosso guaio. I Basiji lo hanno preso sottobraccio e trascinato nella corsia centrale di Azadi street, quella riservata ai bus. Lì era stato approntato un centro di detenzione mobile. I vari pick up erano stati accessoriati di gabbie sul pianale posteriore. Il Basiji, nel consegnare Sami alla forze antisommossa, ha messo la macchina digitale nelle mani di un agente che apparteneva alle Guardie della rivoluzione. E’ in quella frazione di secondo in cui non aveva più addosso le mani dei Basiji, e quelle degli agenti non erano ancora sopra di lui, che Sami ha tentato la fuga. Con uno scatto ha raggiunto il muretto della carreggiata, alta un metro e mezzo; l’aveva quasi scavalcato quando è stato afferrato per le caviglie. Ha scalciato un paio di volte, inutilmente; lo hanno tirato giù, lo hanno gettato per terra e un agente ha cominciato a massacrarlo di bastonate. Sami si è rannicchiato in posizione fetale. Una guardia della rivoluzione si è preso carico di lui: bastonate sulle spalle e sulle ginocchia, scarpate in testa; tutto dato con pazienza e concentrazione. Gli altri manifestanti, al di là del muretto, urlavano di smetterla, chiedevano la sua liberazione, ma inutilmente: la guardia andava avanti a mulinare le botte. Il pestaggio è durato quanto basta (secondi o minuti?) perchè il dolore alle articolazioni gli impedisse fisicamente un’altra fuga.
“E poi”, mi ha detto Sami, “la visione del tuo sangue sulla maglietta ti annichilisce. Ero immobile per il dolore, ed ero sconvolto. Subire un pestaggio è sconvolgente.”
Hanno dovuto rimetterlo in piedi. Da solo non ci riusciva.
“Una volta sulle mia gambe, la stessa guardia che aveva appena finito di pestarmi mi trascina vicino al pick up, vicino alla portiera del passeggero. Dalla tasca tira fuori la mia macchina digitale; comincia a visionare le fotografie e i video che avevo girato non più di un paio d’ore prima.
Sami si raccoglie per qualche istante, come se il ricordo gli bruciasse dentro.
“Sai che mi ha detto quello? ‘Con questo sei fottuto’. E sapevo che era vero. Nel 2009, per robe simili, in molti erano scomparsi nulla. Ho provato il terrore allo stato puro.”
“E che hai fatto?”
“L’ho guardato fisso negli occhi per degli istanti, credo che la mia espressione ispirasse sinceramente pietà. Gli ho detto: ‘fai quel che puoi per me’. Lui non risponde, distoglie lo sguardo dal mio volto e comincia a redigere il verbale del fermo. Nome, cognome, indirizzo, professione, stato civile: elencavo le mie generalità come un automa, e intanto pregavo. Dentro di me pregavo che quella persona avesse pietà. A domanda precisa, rispondo che mi trovavo in Azadi street per caso, che volevo comprare dei libri al mercato. Poi mi fa una domanda che all’inizio non capisco.”
Sami fa il gesto di allungare il braccio con in mano il cellulare, mimando l’atto dells guardia.
“Teneva in mano il mio cellulare e mi chiede se questo fosse l’unico oggetto che avevo con me.”
“Io lo guardo e rifletto. Penso che no, non è l’unico oggetto che avevo con me: l’altro ce l’ha lui, è la mia macchina digitale. Però sto zitto, cerco di capire dove voglia arrivare.
Mi incalza: ‘Allora? Avevi solo questo, vero?’
Gli dico di sì. E lui lo scrive sul verbale che al momento del fermo possedevo solo il cellulare. Lo firma. Subito dopo ripone la mia macchina fotografica nel cruscotto del pick up. Quello è il suo compenso per aver occultato la prova che mi avrebbe condannato a molti anni di galera.”
“Mi mettono nella gabbia, montata sul retro del pick up. C’era già un altro ragazzo, anche lui con il viso in lievitazione per le bastonate e la maglietta sporca di sangue. Lì dentro so che non posso scappare al mio destino, e ho il tempo di formulare due pensieri, nitidi ed essenziali: essere arrestato è la cosa peggiore che potesse capitarmi; che la guardia della rivoluzione non abbia messo a verbale la macchina fotografica con quei video compromettenti è la cosa migliore che potesse capitarmi in quella situazione.”
Mentre Sami, per quel che poteva, rifletteva sulla sua condizione, la gabbia andava riempiendosi di altri giovani fermati durante la manifestazione. In lontananza udiva le urla della folla, gli spari dei lacrimogeni, le pale degli elicotteri che volteggiavano nel cielo. Tehran una città ribaltata. Lui guardava la strada ingolfata dalle auto che avanzavano a passo d’uomo. Clacson, fischi dei poliziotti che tentavano di dirimere il traffico in quella bolgia in sedazione. A un certo punto da un’auto scende un uomo e si dirige verso il pick up-prigione. Sami lo riconosce subito, è un suo vicino di casa. Quello, incautamente, si avvicina alla centro di detenzione mobile, e comincia a chiedere conto del fermo di Sami.
In tutta risposta una guardia della rivoluzione gli sferra una bastonata, vuole farlo allontanare subito.
Sami nega di conoscere quell’uomo. Il vicino comprende che non è il caso di insistere, nè di rimanere troppo a discutere con i poliziotti. Tanto non avrebbe potuto fare molto. La cosa che doveva fare, però, era avvertire i genitori di Sami: “vostro figlio è stato arrestato duranete le proteste di oggi.”
Nelle carceri dei dittatori
Parte 2/3 https://www.umanistranieri.it/2012/12/racconto-carcerato-iraniano-2/