Obama, Romney, e le conseguenze di un’elezione
Chi vincerà le elezioni tra Mitt Romney, candidato repubblicano, e Barack Obama, presidente americano in carica, è una domanda che ci riguarda tutti, e per capire l’importanza di questo evento basta ritornare con la mente a qualche anno fa. Sin dall’inizio del suo doppio incarico George W. Bush, presidente degli Stati Uniti tra il 2000 e il 2008, incoraggiò gli Americani, anche e soprattutto dei ceti più bassi, ad acquistare la prima casa; promosse politiche favorevoli a livello creditizio sia per i beni immobili che di qualsiasi altro oggetto. Forse fu questo nel 2004, più che il fattore Iraq, a decidere la corsa alla Casa Bianca, e a riconfermare un uomo che nel 2008, sull’orlo del tracollo finanziario mondiale, non aveva la più pallida idea di cosa stesse succedendo; anche perchè non si era mai direttamente occupato di Wall Street, e sosteneva la filosofia ultraliberista delle “zero regole”. Eppure fu proprio la bolla creditizia dei “subprime” americani, cioè i meno abbienti incoraggiati da Bush a comprare una casa, a inquinare i pozzi delle borse mondiali. Il governo Statunitense, ancora sotto la guida Bush, dovette addirittura nazionalizzare al 100 per cento Fannie Mae e Freddy Mac, le due compagnie assicurative operative sul mercato immobiliare che “coprirono” quei mutui, trasformandoli nei titoli tossici finiti nei bilanci perfino di Lombardia e Grecia. Questo evitò che le grosse banche d’investimento, ma non decine di piccoli istituti, fallissero nel giro di pochi giorni; un evento che avrebbe smaterializzato i soldi depositati in decine di milioni di conti correnti. Di sicuro però da quel fine 2008 sono stati bruciati milioni di posti di lavoro negli Stati Uniti. L’amministrazione Obama, insediatasi in mezzo alle macerie, ha reagito con uno stimolo di quasi 800 miliardi di dollari in tagli delle tasse, protezioni sociali e il sostegno a politiche per l’occupazione, oltre a salvare l’industria automobilistica dalla bancarotta e il colosso assicurativo Aig. Ecco come in pochi anni il debito Usa è salito alle stelle, anche perchè al bilancio federale sono mancate le tasse di circa una ventina di milioni di lavoratori, oltre che una gran fetta di imposte che l’amministrazione Bush aveva tagliato. Una politica fiscale, quella di Bush, per cui Warren Buffet, mega-miliardario, paga un’aliquota del 15%, mentre la sua segretaria versa il 30%.
E i primi due dibattiti presidenziali, tenuti nel mese di ottobre, sono girati intorno proprio a questi tre temi: lavoro, tasse e debito pubblico, spesso in modo strettamente collegato. E’ su questo che si gioca il voto del prossimo 6 novembre. Anche il terzo e ultimo confronto, incentrato sulla politica estera, è stata l’occasione per Mitt Romney di ribadire che lui è in grado di rimettere in moto l’economia americana, creando occupazione. Romney ha ripetuto la parola “jobs” come un mantra, imputando a Obama di aver messo in ginocchio gli Stati Uniti e la sua classe media. Per questo motivo il governatore del Massachusetts ha promesso di ridurre le tasse a tutti, senza per altro ritoccare all’insù le imposte pagate dai “ricchi” e da chi detiene quote di aziende (compreso Romney stesso). Obama, dal canto suo, da tempo ha lanciato la sua proposta di alzare quell’aliquota ben oltre il 15%, “affinchè tutti diano il loro contributo a rimettere in sesto il Paese”, gravato da un debito pubblico di 16.000 miliardi di dollari, oltre il 72% del Pil (prodotto interno lordo). Sul tavolo, accanto alle misure fiscali, il presidente in carica propone, a differenza del suo rivale, anche tagli alle spese militari. Un piano semplice, lineare, come la domanda che Obama ha posto al suo rivale fin dalle battute iniziali del primo dibattito, e l’ha ripetuta fino alla fine del terzo:
“Governatore Romney, è una questione di matematica: lei vuole tagliare le tasse alla classe media e mantenere l’aliquota del 15% per i ricchi, lei vuole aumentare le spese militari e al tempo stesso ridurre il debito pubblico; dice anche che non vuole togliere nessuna delle protezioni sociali, ma solo migliorarle. Governatore Romeny, i conti non tornano: da dove prenderà i soldi per governare il Paese senza levare i sostegni alle fasce più deboli o senza aumentare il debito pubblico?”
La risposta di Romney si è fatta attendere per oltre un’ora, ed è stata sbalorditiva: “Io aumenterò i posti di lavoro, così ci saranno più “tax payers”. Ecco da dove arriveranno i soldi: dalle maggiori entrate.”
Naturalmente Obama non si è accontentato di una risposta al limite dell’inconsistenza. Il candidato Repubblicano però ha sempre ripetuto che aumenterà il tasso di occupazione, scommettendo su un dato: “creerò 12 milioni di nuovi posti di lavoro”. Brad De Long, professore di economia di Berckley, ha fatto notare, sostenuto da proiezioni e ricerche, che nei prossimi 4 anni l’occupazione dovrebbe effettivamente aumentare, ma la questione è un’altra: non si può fare una previsione di bilancio dove la “voce forte” riguarda un fenomeno al di fuori del controllo di un governo federale. Soprattutto se si parla di Stati Uniti, il Paese campione del libero mercato, e di Romney, padre del motto “non è il governo a far girare l’economia”.
Il governo no, ma lui sì, sarebbe in grado di farlo: “I know how to run the economy”. E come? Accusando la Cina sia di manipolazione monetaria che di spionaggio industriale: nel primo caso per favorire l’esportazione delle industrie americane in quel Paese, nel secondo per difendere i brevetti. Aprirebbe nuovi mercati occupazionali trivellando ovunque, alla ricerca di gas, petrolio e carbone. Leverebbe non meglio precisate elusioni fiscali alle aziende che manifatturano all’estero. In tre dibattiti presidenziali, però, è rimasta impressa una sola, vera risposta da parte di Romney: “sono in grado di rimettere in moto l’economia perchè sono un businessman di successo con 30 anni di carriera alle spalle”. Si riferisce all’esperienza alla Bain Capital, un’azienda che ha fatto fortuna ristrutturando ditte e compagnie in dissesto. Un Paese complesso come gli Stati Uniti d’America concepito come un capannone. Ci si trova nel paradosso per cui Romney, pioniere della migrazione della produzione manifatturiera all’estero, sarà colui che riporterà in patria milioni di posti di lavoro.
In realtà, come confermano i dati relativi allo scorso settembre, l’occupazione americana si sta riprendendo, aumentata di 2 punti di percentuale in 2 anni; segno che le politiche di Obama per il lavoro stanno dando i frutti. Insomma, si può imputare al presidente democratico di non aver mantenuto molte delle sue promesse, come una legge sulle emissioni dei gas serra (bloccata dagli stessi democratici), o la chiusura di Guantanamo, dove decine di persone sono ancora rinchiuse senza un regolare processo; ma di certo bisogna riconoscere che il presidente in carica ha gestito una situazione durissima, evitando che diventasse catastrofica. Nel frattempo ha portato avanti le sue agende: in politica interna ha varato una riforma sanitaria a garanzia dei più poveri, e una Legge, la Dodd-Frank, che non convince molti ma almeno dà delle regole a Wall Street. In politica estera ha confermato l’impegno contro il terrorismo, eliminando Osama Bin Laden e molti esponenti di Al Qaeda; ha chiuso la guerra in Iraq, eredità dell’amministrazione Bush, e in un modo o nell’altro sta cercando di concludere la campagnia in Afghanistan, dove il successo dell’operazione sarà tutto da dimostrare. Ha aperto un solo fronte, in Libia, in accordo con molti alleati europei e sostenuto dalla risoluzione Onu 1973/2011. Il successo più grande, però, potrebbe arrivare a giorni, se è vero che l’Iran, in ginocchio per le sanzioni economiche, avrebbe intenzione di sedersi a un tavolo e discutere del suo programma nucleare proprio con gli Stati Uniti, e convincerli che a Tehran non vogliono dotarsi di una bomba atomica. Si sventerebbe così la minaccia di un attacco preventivo da parte di Israele. Evento su cui Romney è parso possibilista, forse senza rendersi conto che una guerra con l’Iran è ultima cosa di cui l’America ha bisogno.
In realtà l’incertezza trasmessa da Romney non riguarda solo la politica estera, ma anche molti temi sociali ed etici: dalla contraccezione al minimo salariale, all”inquinamento dovuto al carbone; le sue dichiarazioni durante le primarie repubblicane, molte delle quali soddisfacevano il tea-party, contraddicono la sua esperienza da governatore. Eppure, durante i dibattiti presidenziali, Romney sembrava “disimpegnato” rispetto a quelle stesse dichiarazioni che gli hanno fatto guadagnare consenso anche fra la destra evangelica e radicale. In un esilarante discorso Obama, di fronte a un rivale così ondivago, ha usato l’ironia, spiegando che soffre di “Romnesia“, si scorda quello che dice: propone una cosa per poi negarla (tagliare le tasse ai ricchi), promuove una politica che in seguito demonizza (riforma sanitaria).
Tuttavia il candidato repubblicano e il presidente in carica sono accomunati da una stessa dimenticanza: non hanno mai accennato all’Unione europea, alleato storico e strategico per promuovere i valori tanto cari agli Americani. Solo Romney ha parlato di Europa, di uno Stato europeo per la precisione: ha detto che se Obama verrà rieletto, gli Stati Uniti rischiano di fare la fine della Grecia. Lasciata da parte la delusione di non essere presi in minima considerazione come “macropotenza”, l’Unione europea speri che il prossimo presidente Usa non ripeta gli errori che hanno condotto noi e la Grecia a fluttuare sull’abisso.
di Cristiano Arienti
In copertina: Jackson Pollock – Lavander Mist