Stati Uniti e Israele, tensione nucleare con l’Iran
Venti giorni fa il New York Times ha pubblicato un articolo a firma di Ronan Bergman dal titolo: “Israele attaccherà l’Iran?”. Al suo interno Ehud Barak, Ministro della difesa israeliano e già Primo ministro oltre che esperto militare, non ha risposto sì, ma ha ammesso che “non è una questione astratta, poichè l’Iran rappresenta da sempre una minaccia per il popolo ebreo”. La differenza tra ieri e oggi, però, sta nella presunta capacità di Teheran di dotarsi a breve tempo di armi nucleari. Armi che potrebbero essere impiegate contro Israele, come denunciano da anni lo stesso Barak e Benjamin Netanyahu, l’attuale Primo ministro israeliano. Incaricata di monitorare se il programma iraniano persegua davvero scopi civili è l’Aiea, l’agenzia internazionale dell’energia atomica. L’Aiea aveva sempre giudicato inconsistenti le paure (e le prove) israeliane; dallo scorso novembre però ogni certezza si è incrinata: i suoi ispettori hanno sollevato dubbi sull’effettiva collaborazione degli iraniani a rendere noti tutti i piani del loro programma nucleare, lanciando il sospetto che Teheran stia arricchendo l’uranio per scopi militari. In risposta gli Stati Uniti e l’Unione europea hanno deciso di imporre sanzioni economiche a chi commercia e fa affari con l’Iran. Questo embargo è già iniziato, ma sarà a pieno regime dal prossimo luglio. Gli Stati europei, con una sollecitudine sospetta, hanno già ridotto al minimo l’importo di petrolio dall’Iran. Il Paese mediorientale, come ritorsione contro le sanzioni, ha interrotto da un giorno all’altro l’afflusso di oro nero verso la Gran Bretagna e Francia.
La crisi fra Israele e Iran va avanti da molto tempo, e Meir Dagan, fino a poco tempo fa capo del Mossad, i servizi segreti israeliani, ha raccontato a Bergman di aver pianificato e attuato diversi attentati per uccidere gli scienziati che lavorano al programma nucleare di Teheran; in vari casi lo scopo è stato raggiunto. E’ negli Stati Uniti però che si deve tastare il polso per comprendere quanto sia grave la situazione. Da qualche tempo sui mezzi di informazione americani i toni contro gli Iraniani hanno cominciato a farsi sempre più aggressivi; in particolare dopo i recenti attentati contro obiettivi israeliani (Bangkok, India) e obiettivi sauditi (Washington). Prendendo per buone le indagini che incolpano i servizi segreti iraniani, Erin Burnett della Cnn è arrivata a dire che “Tehran, forse, potrebbe essere in grado di attaccare il suolo degli Stati Uniti d’America con le armi atomiche di cui, forse, dispone”. Analisi quanto meno vaghe e azzardate. Lo scorso gennaio Leon Panetta, Segretario della Difesa americana, ha dichiarato che “l’Iran non si sta dotando di un’arma nucleare” (fonte Cbs); il problema è il programma in sé, e il metodo utilizzato per arrivare all’energia atomica. “Perciò”, pensa Panetta, “Israele probabilmente attaccherà lo stesso l’Iran entro pochi mesi” (fonte Reuters). Negli Stati Uniti il clima si sta facendo rovente. Il 24 gennaio il presidente Usa Barack Obama, nel suo discorso sullo stato dell’Unione, ha dichiarato che sul caso del nucleare iraniano “nessuna opzione è da escludere”.
Ora, che la parola guerra, pronunciata esplicitamente o velata fra le righe, venga accostata al terzo produttore mondiale di petrolio, ecco, fa un po’ paura. Sarebbe un conflitto fra due potenze armate fino ai denti i cui leader non nascondono il disprezzo reciproco, senza contare il quasi certo coinvolgimento degli Stati Uniti. Israele, poi, dispone davvero della bomba atomica. Raggiunto telefonicamente, Michele Brunelli, docente di Storia e Istituzioni del mondo arabo ed esperto di Iran, fa notare che nell’area anche il Pakistan, a maggioranza musulmana e da qualche tempo insofferente verso l’alleato americano, possiede testate nucleari. I governi di Turchia ed Egitto, rispettivamente dopo la guerre di Gaza del 2008 e la primavera araba del 2011, hanno raffreddato i loro rapporti con Tel Aviv, e in caso di un conflitto subirebbero forti pressioni interne per schierarsi contro Israele. Hezbollah dal Libano quasi certamente lancerebbe razzi su Haifa. Quindi tutti gli attori coinvolti in questa vicenda conoscono bene i rischi catastrofici che corrono se alle minacce seguiranno davvero i fatti. Tutti hanno da perdere in caso di guerra, dice Brunelli: gli iraniani, soprattutto i suoi leader, che dovrebbero affrontare la reazione popolare ai bombardamenti nel mezzo di una grave crisi economica; Obama, che non desidera lanciarsi in un conflitto pieno di incognite a pochi mesi dalle elezioni presidenziali americane; ma anche gli Israeliani, perchè l’area si destabilizzerebbe in modo forse irrecuperabile. Di questo Ehud Barak è cosciente. Un po’ meno, forse, lo è Bibi Netanyahu, anch’egli con un passato nelle forze speciali d’assalto.
“Noi abbiamo paura”, ha scritto Gideon Levi, prestigiosa firma di Haaretz, quotidiano progressista israeliano da molto tempo critico nei confronti di Netanyahu. Il timore di Levi rispecchia le preoccupazioni della Burnett, con una differenza: il primo parla con terrore dei tamburi di guerra che stanno aumentando ritmo e intensità; la seconda parla del timore di un fantomatico attentato che potrebbe essere scongiurato con un attacco preventivo reale. Come sottolinea Cenk Uygur di The Young Turks, a livello mediatico l’attuale crisi mediorientale mostra punti in comune con l’escalation che portò gli Usa ad aggredire unilateralmente l’Iraq: identificare un nemico in grado di colpire il mondo occidentale con ordigni di distruzione di massa. Perchè, si chiede Uygur? Perchè oggi come allora chi fa business con la guerra, dietro a montagne di morti scorge orizzonti d’oro. Se possibile la situazione, in prospettiva, è peggiore del 2003. Allora gli ispettori dell’Onu ripetevano senza sosta che in Iraq non c’era traccia di armi nucleari, a dispetto delle “pistole fumanti” americane, poi rivelatesi delle bufale. Lo scorso 22 febbraio 2012, invece, gli ispettori dell’Aiea si sono ancora lamentati della scarsa chiarezza degli Iraniani, denunciando che le autorità di Teheran hanno negato loro l’accesso all’impianto di Parchin. Insomma, il programma nucleare iraniano esiste, e non si può escludere che gli scienziati di Teheran, definiti dall’incenerita opposizione interna “i fisici nucleari di Dio”, abbiano sondato il terreno per costruire un ordigno atomico. D’altronde i leader iraniani Alì Khamenei, la suprema guida religiosa, e Mamohoud Ahmadinejad, presidente della Repubblica islamica, coloro che hanno represso nel sangue la rivoluzione verde del 2009, rivendicano il diritto di andare avanti con i programmi nucleari. Bisogna capire quanto parlino anche a nome del popolo iraniano, che il prossimo 14 marzo è chiamato a votare il nuovo parlamento. Il professor Brunelli non si attende novità dirompenti da queste elezioni, né che si verifichino nuove proteste di piazza come nel 2009 o nel 2010; ma assicura che daranno indicazioni significative sulle elezioni presidenziali del 2013. Intanto per la Costituzione iraniana Ahmadinejad non potrà ricandidarsi per il terzo mandato consecutivo; e non è detto che vincerà il candidato di Khamenei, se nell’arena politica si proporrà qualcuno con una visione a lungo termine, sia in politica interna che estera.
In fondo l’Iran può uscire indenne da questa crisi solo con i mezzi democratici dopo il fallimento delle oceaniche proteste del 2009. Qualsiasi altra strada comporterebbe scenari imprevedibili, sebbene alcuni sembrano già percorrere la peggiore di tutte. Il 22 febbraio la Reuters riportava le dichiarazioni di Khamenei: “Al momento giusto toccherà agli altri sentire le nostre minacce”. Ehud Barak, nell’intervista concessa a Bergman, dice che “lui e Netanyahu sono responsabili in modo diretto e concreto dell’esistenza dello Stato di Israele. Anzi, del futuro dello stato ebraico”. Rispondeva alle critiche proprio del suo ex capo dei servizi segreti, Dagan, che giudica un attacco all’Iran “semplicemente una follia”.
di Cristiano Arienti
In copertina: Mordecai Ardon, Paesaggio con sole nero