2030, cinque meno uno
E’ come avere una mano con cinque dita, ma ne considerassimo uno come se fosse il dito di qualcun’altro e lo trascurassimo di proposito. Ecco come si possono riassumere i risultati di una una ricerca Istat pubblicata alla fine dello scorso dicembre, Il futuro demografico del Paese: essa mette in luce quanto sia imperativo risolvere oggi il problema dello stato giuridico dei figli degli stranieri che vengono al mondo in Italia. Da qui al 2030 nasceranno 10,3 milioni di individui e, secondo le leggi attuali, 1/5 di essi non sarà Italiano perchè figlio di immigrati. Il dato è stato calcolato grazie alla tabella dello studio, che ci offre uno sguardo profondo sull’Italia del domani, fino al 2065. La ricerca indaga sull’ammontare della popolazione residente, ovvero di tutti coloro che vivranno sul nostro suolo. Eppure il suolo non è ancora un fattore determinante per dare la cittadinanza italiana a un individuo; chi nasce entro i confini del nostro Paese non ne ha diritto, come invece accadrebbe se in parlamento passasse una legge basata sullo ius soli. La cittadinanza italiana è garantita solo dallo ius sanguinis, ovvero per diretta discendenza. Il mantenimento di questa disciplina giuridica, secondo lo studio dell’Istat, condanna il Paese a un progressivo invecchiamento; si perderebbe quel dinamismo che solo i giovani riescono a dare, e che è decisivo affinché un Paese affronti le sfide dei tempi in cui vive. Stiamo parlando poi dell’Italia, una nazione dove è normale che sia una classe gerontocratica a tenere in mano le briglie del nostro presente. Ma è proprio un ultraottantenne, il nostro presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ad avere le idee ben chiare sull’argomento: recentemente ha affermato che “non riconoscere la cittadinanza ai figli degli immigrati nati in Italia è una follia”.
Secondo le previsioni dello studio Istat, fra 18 anni saranno quasi 2,2 milioni i minori nati da genitori immigrati che frequenteranno i nostri asili e le nostre scuole; questi G2 (“immigrati-italiani di seconda generazione”) da bilingui avranno l’italiano come lingua madre, ma avranno anche la consapevolezza che saranno loro negati i diritti di un normale cittadino. Entrare in una classe di prima media del 2030, in alcune aree urbane densamente abitate dagli residenti stranieri, sarà come varcare la soglia di una racconto di Calvino: italiani saranno il pavimento, le pareti, le sedie, la lavagna e gli insegnanti. Gli alunni seguiranno in lingua italiana le lezioni di grammatica italiana, letteratura italiana, storia italiana, cultura civica italiana, e impareranno perfino l’idrografia dell’Italia; ma, a parte poche eccezioni, non saranno Italiani. Se poi contiamo anche i figli di coloro che oggi si proclamano padani, ben si comprende l’assurdità della situazione: una scuola italiana per chi Italiano non è, e per chi Italiano non vorrebbe esserlo, se ben indottrinato dalla famiglia di fede leghista.
I grandi numeri però rischiano di sfumare la gravità di un problema così drammatico nella vita interiore e pratica di ognuno di questi giovani che vivranno tra noi, spalla a spalla con i nostri figli e i nostri nipoti. Un G2 non è un “immigrato”, non ha compiuto nessun viaggio per arrivare in Italia. Ma la comunità in cui è nato gli dice che non è parte integrante della comunità stessa per via dell’immigrazione. Egli, o ella, vive quello che uno studio del Cestim, sito specializzato sui fenomeni migratori, definisce uno stato di precarietà identitaria; è una condizione che deriva dal senso di alterità rispetto al Paese d’origine dei genitori ma anche rispetto all’unico Paese dove l’individuo è cresciuto. Questo stato di precarietà incide sull’evoluzione dell’identità di una persona, a volte in maniera negativa. E’ il caso di quei giovani che non sopportano il peso della loro diversità, e si ghettizzano; o di quei ragazzi che, per difficoltà oggettive o discriminazione, sono esclusi dai percorsi scolastici e lavorativi a cui aspirano. Il rischio è che i G2 si sentano in una condizione di “inferiorità”, e covi in loro un sentimento di rabbia e avversione verso il Paese che, invece di essere la loro seconda patria, li ospita con malcelata sopportazione. Altri Paesi europei con una più antica storia di immigrazione alle spalle rispetto all’Italia hanno visto come la tendenza a discriminare i G2 porti a tensioni sociali; è il caso delle rivolte negli anni ’90 nelle Banlieu in Francia; nonostante una disciplina giuridica aperta nei confronti dei G2, dai quartieri dormitorio abitati in maggioranza da immigrati molti giovani di origini africane e magrebine scatenarono la loro rabbia contro una società che li teneva ai margini. O come è accaduto più recentemente nel quartiere ghetto di Rosengard, nella città scandinava di Malmoe, dove i ragazzini nati in Svezia ma figli di immigrati dichiarano con orgoglio la loro origine straniera nonostante abbiano passaporto svedese.
Oggi nel nostro Paese risiedono quasi 4,5 milioni di immigrati regolari, e 600.000 di loro sono minori nati sul suolo italiano. Basta alzare lo sguardo su di essi per capire come le dinamiche descritte nello studio del Cestim siano già in atto. Non è raro vedere su un campo di calcio squadre composte solo da giovani di origine sudamericana; o gruppi di ragazzini nati da genitori pakistani che giocano a cricket nel parcheggio di un grande supermercato. A Milano capita di passare negli androni di una stazione della metrò e vedere figli di filippini che si sfidano in gare di ballo moderno. La forza di aggregazione determinata dalla comune origine dei genitori e dalla lingua, e la personale ricerca delle lontane radici rispecchiate nell’ambiente in cui vivono, non cancellano il legame che comunque tutti loro hanno con l’Italia; siamo sicuri che contrastarlo con politiche di esclusione e discriminazione sia il modo migliore di gestire la loro presenza nel nostro Paese? Oppure non sarebbe meglio attivarsi con politiche che favoriscono la piena integrazione di tutti coloro che vogliono coltivare anche le loro acerbe radici italiane?
Nel 2030 potrebbero esserci 2,2 milioni di giovani italiani in più a darci una mano nelle sfide che già oggi ci stanno di fronte, dal mantenimento del sistema pensionistico e del welfare alla manodopera nei settori agricolo e industriale, dallo sviluppo di imprese e attività al ripopolamento delle comunità rurali in abbandono. Altrimenti, il nostro Paese, un domani, potrebbe essere debole e incerto, come la presa di una mano monca di un dito.
di Cristiano Arienti
In copertina: Gheisga mani, dipinto di Azzurra Lo Bello