Un hotel per i criminali di guerra dell’ex Jugoslavia
Damir Sagolj, giornalista e fotoreporter bosniaco, ha visitato il centro di detenzione del Tribunale penale internazionale dell’Aia, in Olanda, dove sono rinchiusi i criminali di guerra della ex Jugoslavia. Di seguito la traduzione del reportage di Sagolj, pubblicato su reuters.com il 28-9-2011.
“Il mio weekend all’Hilton dell’Aia” di Damir Sagolj per Reuters.
Vado dietro alla loro scia di sangue da 20 anni ormai. Come bosniaco e fotogiornalista ho seguito le loro tracce attraverso le rovine di Sarajevo, quando era l’obiettivo di cecchini invisibili e dell’artiglieria pesante disposta sulle colline; le ho seguite fino alle fosse comuni della Bosnia orientale e i villaggi sottoposti a pulizia etnica, distrutti per sempre. Le loro tracce mi hanno portato dietro a case ora disabitate, che nessuno ricostruirà più; le ho seguite fin dentro a chiese rimaste senza fedeli. Ho visitato ogni singolo angolo dei Balcani, addentrandomi nelle “vukojebina”, letteralmente “dove fottono i lupi”, un termine che cattura perfettamente questi luoghi remoti, dimenticati, lontani dalla civilizzazione. Sono sempre giunto sul posto troppo tardi per essere una vittima, ma ogni volta sono arrivato in tempo per vedere e sentire. Ho seguito i crimini di guerra con la passione di un giornalista e il senso di colpa di un sopravvissuto. Quelle tracce finiscono all’hilton dell’Aia, come qualche volta viene chiamata la struttura di detenzione del Tribunale per i crimini di guerra.
In questo centro, a Scheveningen, sono reclusi una quarantina di imputati del Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia; vivono in sorprendente armonia, in un ambiente confortevole, in attesa del processo o della condanna. Sono il primo giornalista ad aver ottenuto il permesso di fare un reportage dall’interno, e mentre varco la soglia, mi sento bruciare lo stomaco. Perchè come bosniaco e fotografo, sono prigioniero del mio passato.
Alcune delle persone qui detenute sono state accusate di crimini di guerra contro i membri della mia famiglia. Siamo passati attraverso l’assedio di Sarajevo. I miei parenti musulmani, mia nonna, mio zio e gli altri, sono stati costretti dai Serbo-bosniaci a lasciare le loro case, e sono finiti in Svezia. I parenti croati dalla parte di mio padre sono stati scacciati; eserciti diversi, campo di battaglia diverso. Alcuni dei miei parenti sono stati uccisi, e in seguito ritrovati in fosse comuni.
Nella ex Jugoslavia la Corte, istituita con l’unico scopo di perseguire i crimini commessi durante i conflitti fra il 1991 e il 2000, viene vista in modi diversi, che rispecchiano la divisione di una società schizofrenica. Per i nazionalisti, che considerano queste persone degli eroi, è una prigione; ma per tantissimi altri questo luogo è la sosta di quello che sperano sia un viaggio verso l’inferno.
In luglio è stato arrestato l’ultimo latitante ricercato; si attende che il tribunale chiuda le operazioni entro il 2014, dopo aver deciso il destino dei suoi inquilini; come quello del generale Ratko Mladic, capo delle forze armate dei Serbo-bosniaci, soprannominato il macellaio della Bosnia, e come quello che un tempo era il suo sodale politico, Radovan Karadzic.
Il giorno prima, lungo i corridoi del palazzo del tribunale, per caso mi sono imbattuto in Karadzic. E’ stato un incontro breve, ci siamo scambiati uno sguardo intenso, e poi lui mi ha salutato. Non ho detto nulla, le mie macchine fotografiche placate. Ho pensato che perfino in manette quell’uomo giganteggiava fra le guardie. E poi se ne è andato, scortato verso la sua sedia nell’aula del tribunale. Non ho avuto nessuna reazione, e questo mi sconvolto. La mia vita era nelle sue mani, negli anni ’90, quando controllava l’artiglieria e i cecchini intorno a Sarajevo.
Si comportano bene.
Nel centro di detenzione Karadzic e i suoi compagni di carcere vengono trattai bene.
Mentre sono su un balcone a fumare una sigaretta (sebbene di recente abbia smesso), sento il colpo di una forte prima di servizio. Proviene dal campo da tennis sottostante. Sento anche alcune parole pronunciate in differenti dialetti della mia lingua. Non riesco a riconoscere chi siano i giocatori sul campo da tennis, ma ho saputo che Ante Gotovina, il generale croato accusato di crimini di guerra contro civili serbi, è l’indiscusso campione qui intorno.
Di fronte ci sono le celle di isolamento; sono stanze con muri di un giallo luminoso, e dentro c’è solo un materasso disteso sul nudo pavimento. David Kennedy, direttore della struttura di detenzione, afferma che nessuno degli imputati della ex Jugoslavia si comporta così male da finire in isolamento.
Infatti per molti la vita qui è buona; una palestra, campi da tennis e di basket, al coperto e all’aperto. Le celle sono nelle ali della struttura, ma al centro c’è uno spazio condiviso dai detenuti: una cucina, docce e una cabina del telefono. Non è permesso tenere cellulari, quindi i sospetti criminali di guerra dispongono di schede telefoniche per chiamare casa (30 euro al mese, gentile concessione delle Nazioni Unite). Non possono ricevere chiamate né usare internet: sono ammesse solo lettere.
All’interno delle celle ci sono televisori a schermo piatto dove si possono guardare programmi dei paesi d’origine; libri e giornali vengono distribuiti regolarmente. In una cella vuota, sul muro, c’è un disegno pornografico; rappresenta le fantasie omosessuali di qualcuno.
In cucina vedo una torta pronta per essere cotta, un mazzo di carte da gioco, e una ricevuta da 23 euro per un chilo di bistecche olandesi e altri alimenti consegnati a uno dei detenuti. Qui si mangia il cibo della prigione, ma è permesso fare delle ordinazioni speciali, compresa una spesa settimanale in un negozio balcanico. Sulla porta della cucina qualcuno ha attaccato dei ritagli di giornale: sono le caricature del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad e dell’ex leader libico Muhammar Gheddafi.
Si fanno perfino delle feste. Qui si celebrano i compleanni, ma anche le feste religiose, proprio come accadeva sotto Tito, in nome dell’unità e della fratellanza dei popoli jugoslavi. Questi uomini negli anni ’90, quando erano liberi, hanno combattuto per ragioni etniche e religiose; ora siedono allo stesso tavolo per celebrare le rispettive feste religiose.
“Cucineranno per i giorni dei santi; faranno arrivare i cibi dal negozio balcanico, e l’intera ala si metterà seduta e festeggerà la celebrazione, qualunque sia il rito”, dice Kennedy. Perfino quando giocano su un campo di calcio non fanno le squadre in base all’etnia, e il direttore spiega che in tutti questi anni non c’è stato un solo incidente per motivi di nazionalità e religione.
Questo posto ha da insegnarci qualcosa?
“Vanno d’accordo l’uno con l’altro perchè sono sulla stessa barca”, dice Kennedy. “Essendo dei detenuti, stanno affrontando le stesse restrizioni che la custodia impone loro: vivono nella stessa area, nelle stesse ali, non c’è nessuna segregazione su base etnica, e in simili circostanze uno se la cava meglio e più facilmente se va d’accordo con i suoi vicini.”
Traduzione di Cristiano Arienti.