Israeliani e Palestinesi, il futuro è l’apartheid.
Ormai si nomina apertamente l’apartheid quando si parla di Israeliani e Palestinesi. Il termine, che indica l’oppressione esercitata da un popolo su di un altro all’interno di uno stesso territorio, è risuonato più volte nella sala di Palazzo Turati a Milano, durante la conferenza “Il confronto isreaelo-palestinese nel Medio Oriente che cambia”. Apartheid richiama la tragedia di milioni di neri subcittadini di un Sudafrica razzista, e ad accostare il termine a Israele sono stati Alon Liel, ex direttore generale del ministero degli esteri israeliano, e Ziad Zayyad, già ministro dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp). Alla comparsa di questa parola, apartheid, corrisponde l’affossamento del “processo di pace” fra Israeliani e Palestinesi; a sottolinearlo è stato Janiki Cingoli, direttore del Centro Italiano per la pace in Medio Oriente, l’istituto che ha promosso la conferenza. Da oltre un anno il processo si è fermato, non esiste più una road map della pace: gli accordi siglati in passato sono carta straccia. Esistono due popoli che vivono sotto lo stesso angolo di cielo, in una terra che gli Israeliani considerano loro per diritto divino. I Palestinesi non possono far altro che adeguarsi. L’espansionismo dei coloni israeliani in Cisgiordania, il territorio dove dovrebbe nascere lo stato palestinese, non è osteggiato da Benjamin Netanyahu, premier Israeliano, ed è sospinto dall’esercito di Tel Aviv, come sottolinea Liel. L’espansione riguarda anche Gerusalemme est, che doveva essere la capitale dello stato palestinese. E’ una politica unilaterale, sorda a qualsiasi avvertimento della comunità internazionale, ormai impotente. Fino a poco tempo fa Barack Obama, presidente Usa, ha denunciato con fermezza questa situazione; ma ora ha abbassato i toni, perchè le lobby ebraiche statunitensi gli hanno giurato di non votarlo alle elezioni del 2012 se criticherà di nuovo, e così apertamente, Israele. Ed è unilaterale la mossa di Abu Mazen, presidente dell’Anp, di recarsi presso le Nazioni Unite chiedendo al Consiglio di Sicurezza di accettare l’adesione dello Stato Palestinese all’Onu. La richiesta, avanzata lo scorso settembre, sarà rigettata non solo per il veto degli Stati Uniti, oggi più che mai garante mancato del processo di pace, ma anche per l’astensione dell’Europa. Abu Mazen contava molto sull’appoggio di paesi come Francia, Italia, Gran Bretagna per rispondere allo strapotere israeliano in ambito diplomatico e militare. La beffa finale è giunta con il recente accordo fra Netanyahu e Hamas, il movimento palestinese che detta legge nella striscia Gaza; per la liberazione del soldato Gilad Shalit, dopo cinque anni di sequestro, Israele ha rilasciato oltre un migliaio di detenuti Palestinesi. Non è vero, quindi, che Netanyahu e Hamas, considerato da Tel Aviv e Washington un gruppo terrorista, non sono disposti a discutrere: semplicemente, non accettano di negoziare per la pace dei loro popoli. Israele quindi si è permesso di contattare Hamas quando da tempo non dialogava nemmeno con Abu Mazen su una questione basilare come l’espansione dei coloni in Cisgiordania.
Le intenzioni di Netanyahu e del suo governo appaiono chiare: non vuole uno stato palestinese. E non c’è possibilità nemmeno per uno stato binazionale, perchè gli Israeliani pretendono di vivere in uno stato ebraico: nessun palestinese musulmano potrebbe attendersi uguali diritti di un ebreo. E quindi? Si continua a recintare le comunità palestinesi in Cisgiordania, oltre 2 milioni di persone, e va avanti l’espansione illimitata dei coloni, oggi arrivati a 500.000 individui.
I Palestinesi che vivono a Gaza, 1,5 milioni di persone, sono isolati dal mondo a causa dell’embrago di Tel Aviv. I Palestinesi che vivono in Cisgiordania, invece, si domandano quale gradazione di nero sarà il loro futuro. Zayyad si dice fiducioso, ma lo dice per convincere se stesso, più che la platea della conferenza: avremo giustizia, dice, fra 20 o 30 anni. Alon Liel è arrivato a dire che a settembre si è persa l’ultima occasione di vedere la realizzazione di uno stato palestinese, e si prospetta un nuovo Sudafrica in Medio Oriente, dove uomini e donne israeliani avranno diritti e opportunità negati a chi vive al di là di un muro o di una collina. Liel ha più volte detto che non vuole vivere in uno stato dove i leader perseguono questa chiara politica di apartheid; eppure la maggioranza degli Israeliani considera Netanyahu un eroe: ha imposto al mondo la sua personale agenda, e ha perfino riportato a casa un ragazzo dato ormai per spacciato.
I leader occidentali si prodigano per una soluzione di pace, ma oggi la crisi economica sta prosciugando ogni energia: la speranza va dosata per i bisogni più urgenti. Adesso a Washington e nelle capitali europee si pensa più che altro a salvare un’economia in difficoltà e a dare respiro a delle società in grande sofferenza; si pensa a combattere l’incubo di una grave recessione, e si finge di non vedere che in Israele si sta dolcemente scivolando verso l’apartheid.
di Cristiano Arienti
Mappa di di Israele, Cisgiordania e striscia di Gaza.
In copertina: Opera di Banksy, graffito su un tratto di muro che separa Israele dalla Cisgiordania.
Speriamo che il nuovo e ultimo mandato obama aiutara a cambiare la situazione in Palestina, senza pressione elettorale addosso.