G2, i nuovi italiani
Sono tra noi. Si chiamano Ling, Adel, Mamadou. Camminano per le nostre strade da qualche anno ormai, nelle grandi città o nelle periferie di provincia. Solitari, o con uno zaino in spalla e il cellulare all’orecchio; o in coppia, con un loro coetaneo. Occhi a mandorla si specchiano in altri occhi. Spalla olivastra al fianco di un’altra spalla. Una mano nera in quella di una fidanzatina. A volte capita di vederli in un gruppo eterogeneo, confusi con chi dà l’idea dell’italiano (o del padano). Si fa più fatica a intercettare la loro diversità, le differenze livellate dagli abiti e dai modi di fare scanzonati. Sono tra noi, alieni “scesi” sulla penisola da astronavi clandestine partite da Shangai, Islamabad, Quito, Lagos, Manila, Tunisi. Lo pensiamo fino a quando non ci capita di ascoltare i loro discorsi in un italiano squisito; la loro parlantina genera un tipico moto di incredulità, e allora li guardiamo meglio, li squadriamo. Ma come? Una cinese fatta e finita che parla come mia nipote di tredici anni? Un “marocchino” che ha l’accento milanese? Un “africano” che discute utilizzando le parole difficili che si leggono sui giornali? E’ lo “shock multietnico” che l’Italia sta vivendo da qualche tempo. Finora conoscevamo solo la madre di Ling, che pronuncia “laviolo” invece di “raviolo; lo zio di Adel, che parla mangiandosi i termini con la furia tipica dei madrelingua arabi, e il padre di Mamadou, che sillaba le frasi con un timbro gutturale. Sono i genitori di una nidiata che ha fraequentato la scuola in Italia, ha guardato la televisione italiana, ha letto i giornali italiani, ha fraternizzato con italiani, ha ricevuto lezioni da insegnanti italiani. Come se un Dante dalla pelle scura potesse un giorno appropriarsi della celebre terzina: “Fatti non fummo a viver come clandestini, ma per seguire virtù e conoscenza”. E chissà quante volte, ormai, dai banchi delle nostre scuole, le Ling, gli Adel e i Mamadou, interrogati alla cattedra, hanno letto con voce intonata “Zacinto”: “tu non altro che il canto avrai del figlio, o materna mia terra; a noi prescrisse il fato illacrimata sepultura”. In quei versi Foscolo instillava tutto il suo dolore per la patria perduta, preda di stranieri, papi e tiranni; quel suolo dove oggi noi viviamo da italiani e ci stupiamo che “loro”, i figli degli immigrati a loro volta “fuggiti” dalle terre d’origine, ci usino la scortesia di assomigliare così tanto ai nostri ragazzi. E fanno scattare in noi un dubbio: non è che a “loro” stia stretta quella definizione? Sono solo “figli di immigrati”?
Tra legalità e necessità. Alla presentazione meneghina del film Mooz-loom di Q. Bashir era presente Akram Idries, redattore di Yallaitalia, blog attento alle tematiche che riguardano giovani mussulmani che vivono in Italia. Akram, che è anche una risorsa della giunta Pisapia per i progetti di integrazione degli stranieri a Milano, ha raccontato l’esperienza di avere una doppia identità: egiziana e, appunto, italiana. O per meglio dire, ha spiegato cosa significa sintetizzare due culture così diverse per trovare la propria identità da italo-egiziano. Si definisce “italiano di seconda generazione”, un’espressione gergale ripresa da associazioni che si occupano di immigrati e stranieri che vivono in Italia, come ad esempio Stranieriinitalia e Anolf, ma anche dall’istututo di ricerca Istat. Per semplificarla, esiste perfino una sigla, G2, ma non è un’espressione legale. E Ling, Adel e Mamadou non sono legalmente riconosciuti come italiani. Sono individui che hanno sempre vissuto nelle nostre città, prole di stranieri giunti in Italia, ma per lo Stato devono richiedere il permesso di soggiorno né più né meno di un americano che si candida a vivere e lavorare qui, e il bel paese l’ha visto solo in fotografia. Akram è nato in Egitto, ma ha sempre vissuto in Italia, da dove non ha mai potuto allontanarsi per più di pochi mesi, altrimenti la sua richiesta di permesso di soggiorno, al compimento del 18° anno di età, rischiava di venire rigettata a causa della Legge Bossi-Fini. Questo, in realtà, accade anche per i G2 che sono nati qui. In Italia non è riconosciuto lo “ius solis”, ovvero il diritto di chiedere la cittadinanza per chi, figlio di immigrato, ha visto la luce a Milano, a Roma, a Palermo. Esiste perà lo “ius sanguinis”, ovvero la legge secondo cui il nipote di un emigrato italiano, che magari non conosce nemmeno la nostra lingua, ha diritto di ottenere la cittadinanza dopo tre anni di permanenza. E magari conquistare il privilegio di vestire la maglia azzurra, come i campioni di calcio Camoranesi e Thiago Motta. Anolf-Cisl ha lanciato un appello affinché i figli degli immigrati non vengano considerati alla stregua dei loro padri, immigrati, ma sia riconosciuta la loro appartenenza sociale e culturale a questo paese, e quindi anche legale. La questione è sì culturale, in gioco c’è un’idea di identità italiana, ma soprattutto politica: nel centrodestra molti temono che un domani questi cittadini ingrandiscano il serbatoio di voti per la sinistra, da sempre attenta all’integrazione degli immigrati. Il Popolo della Libertà si oppone con forza a questa prospettiva: la cittadinanza è una conquista, non basta nascere in Italia per essere italiano. La Lega Nord per l’Indipenza della Padania, poi, non vuol sentir parlare di società multietnica. Ed è quantomeno sorprendente che a bloccare un dibattito pubblico sul tema dell’italianità sia una forza politica che ama il territorio ma odia l’Italia. Nell’ultimo raduno di Pontida il popolo della Lega Nord ha scandito ben 8 volte l’urlo “se-ce-ssio-ne”. Lo Stato, secondo chi si definisce “padano”, non dovrebbe neanche ascoltare le ragioni di chi si sente italiano ed è sempre vissuto in Italia e chiede di essere riconosciuto in quanto tale. A Pontida erano sì e no in 50.000 a pretendere la nascita della Padania; nel nostro paese sono circa un milione (dati Istat) gli italiani di seconda generazione costretti a vivere con l’incubo che un domani non gli venga concesso il permesso di soggiorno e siano spinti all’esilio. Quasi 600.000 di essi sono nati nei nostri ospedali, cullati nelle nostre nursery, bollati come stranieri fin dai loro primi vagiti. In pratica, secondo gli studi sui tassi di natalità e lo ius sanguinis, in Italia oggi un neonato su cinque non è italiano, e non lo è un bambino su dieci. Ma c’è un altro dato che richiama attenzione: le donne italiane procreano 1,3 figli, mentre le straniere procreano 2,1 figli. Questo significa che il ricambio generazionale in un paese gerontocratico è garantito solo dalla prolificità degli immigrati. Gli italiani di seconda generazione rappresentano davvero un serbatoio, nel paese, ma di forza lavoro; il loro impiego potrà garantire un domani la distribuzione delle pensioni, il peso principale sul nostro debito pubblico: oggi esiste un rapporto leggermente superiore di un pensionato per ogni lavoratore. Se questo rapporto dovesse rimanere inalterato, e le nostre aspettative di crescita demografica fossero riposte solo sulle donne italiane, il destino dell’Italia come sistema paese sarebbe segnato. Tuttavia la presenza degli immigrati, il 6,5% della forza lavoro, è ormai un fenomeno strutturale a cui l’Italia non può rinunciare: lo ha sottolineato l’Istat, ma anche osservatori stranieri come l’Economist. Quindi restano degli equivoci da sciogliere: è saggio considerare solo figli di immigrati una parte rilevante di una generazione destinata a rivitalizzare l’Italia? Prevarrà il timore che questi ragazzi non saranno mai dei degni concittadini?
Il linguaggio della repressione. Ad aprile 2011 la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha bocciato il reato di clandestinità, introdotto due anni prima con il varo del pacchetto Sicurezza 94/2009. E’ una norma voluta fortemente dalla Lega Nord nella speranza di decurtare la presenza di stranieri senza permesso di soggiorno e, perciò, ridurre i reati commessi dai clandestini. Nel 2008, secondo le cifre del Ministero degli interni, 1/3 della popolazione carceraria era straniera, e molti dei reati erano stati commessi da “irregolari”. Anche le statistiche ufficiali relative alla criminalità minorile creano l’allarme “immigrato”: su circa 38.000 denunce nel 2007 (ultimo anno di riferimento), 1/5 sono state spiccate contro stranieri. Questi dati sono passati attraverso il megafono dell’informazione televisiva, uniti alla quotidiana striscia di cronaca nera con italiani vittime di rei stranieri. E’ stato dal 2006 in poi che l’attenzione dei Tg nazionali si è concentrata sul fenomeno, come rileva l’indagine Demos/Osservatorio di Pavia “La sicurezza degli italiani”; da allora si è prodotta una sorta di identificazione immigrati/criminali in una buona fetta della nostra opinione pubblica. Tuttavia la severità con cui il governo di centrodestra ha gestito l’immigrazione, pur senza essere in grado di arrestarne il flusso clandestino, non è scattata solo per via del problema “sicurezza”; ha fatto leva sulla convinzione che stiamo accogliendo individui di culture troppo distanti dalla nostra, in particolare quella islamica; essi costituirebbero una minaccia per l’integrità e la stabilità della “civiltà” italiana. Questa rappresentazione cerca legittimità nel fatto che in pochi anni il numero di stranieri nel nostro paese si è moltiplicato: in breve tempo ci siamo trovati “circondati” da gente con tratti somatici molto diversi dai nostri; gente che comunica in un italiano imperfetto, indossa abiti caratteristici, pratica fedi religiose diverse dal cattolicesimo, tende a ghettizzarsi o, viceversa, viene ghettizzata. La loro presenza, inoltre, genera la convinzione che rubino il lavoro agli italiani, come rilevato nell’indagine Demos/Osservatorio di Pavia già citata. Quindi il termine “immigrato” ha, oggettivamente, una connotazione negativa e può diventare un peso per quei giovani che sentono di appartenere all’Italia, ma percepiscono la diffidenza e la paura intorno, perchè le loro radici affondano in altri continenti. Crescono come italo-cinesi, italo-marocchini, italo-africani, ma sono calssificati come “figli di immigrati”, con tutti i significati spregiativi di cui questa espressione è carica. Lo scorso marzo Human Right Watch ha pubblicato un rapporto che valuta una serie di episodi violenti avvenuti in Italia, dove le vittime sono immigrati o i loro figli. Il quadro che emerge denota una diffusa intolleranza nel nostro paese nei confronti degli stranieri extracomunitari, indipendentemente dal fatto che abbiano un regolare permesso di soggiorno o siano nati in Italia. Gli autori del rapporto sottolinenano come la classe dirigente del paese rigetti l’accusa di razzismo.
Siamo tra loro. Ling cammina per la strada, e intanto parla al cellulare; dall’altra parte della linea c’è una sua compagna di classe. Le due ragazzine commentano l’interrogazione nell’ora di italiano, si raccontano che sono andate bene, ma la prof è stata un po’ stronza e poteva dar loro un voto migliore. A un certo punto la voce di Ling sbiadisce; i suoi occhi a mandorla hanno incrociato lo sguardo perplesso di una signora che l’ha fissata con insistenza, scuotendo leggermente la testa. Ling sa, capisce il perchè di quella smorfia. Vorrebbe fregarsene, ma non ci riesce; ogni giorno lo sguardo di uno sconosciuto le ricorda che può anche essere una madrelingua italiana, ma rimane pur sempre “un’immigrata”. Adel è al parco, sta giocando a pallone con i suoi amici. E’ in porta, ma non si sta impegnando molto. Sta ripassando mentalmente la lezione di scienze, perchè forse il giorno dopo verrà interrogato. A un certo punto si accorge che dal cancello del palazzo vicino è uscito quello del secondo piano. E’ un signore che un paio di volte si è lamentato a voce alta, i primi tempi in occupavano quel pezzo di prato: “andate a giocare al vostro paese”, e giù insulti. Poi non l’ha più fatto, forse perchè si è accorto che fra di loro c’è anche qualche italiano. Adel butta l’occhio in quella direzione per un istante di troppo, e incorcia lo sguardo del signore. Lo toglie subito, ha paura che che anche stavolta si metta a fare qualche scenata. A Mamadou piace passeggiare mano nella mano con la sua fidanzatina; ha 15 anni e si sente davvero innamorato per la prima volta. Ormai non fa più caso agli sguardi degli altri passanti, di chi in bicicletta si gira e chi sulla macchina rallenta perchè non crede ai suoi occhi. La sua mano nera tiene la mano bianca di una italiana ragazzina, e sa che in questo paese un “negro” non dovrebbe prendersi tutta questa libertà A lui non gi importa niente, e sa che non ci può farci niente: il colore nero non se lo potrà mai lavare via dalla pelle. Pensa solo che non è giusto, che lui si sente un italiano fatto e finito, e anche migliore dei razzisti che non gli perdonano di avere una fidanzata “italiana”. Un pensiero rassicura i tre ragazzi: è vero, ci sono persone che li mettonoa disagio, ma ce ne sono altrettante che non fanno pesare quella diversità, e li fanno sentire normali. Come ad esempio a scuola: per Ling, Adel, Mamadou è un po’ come una seconda casa. I professori li trattano come gli altri alunni, ne più ne meno: li aiutano se meritano o li puniscono se non si comportano bene. E poi ci sono quasi tutti i cimpagni di classe, con cui hanno stretto amicizia. All’inizio alcuni mostravano diffidenza, ma poi hanno capito che sono diversi solo per il colore della pelle, la forma degli occhi, i tratti somatici. E la religione. Per il resto sono uguali. E’ una fortuna per Ling, Adel, Mamadou poter andare a scuola; lo pensano soprattutto da quando hanno scoperto che forse i loro fratellini non potranno iscriversi all’istituto cittadino. I politici hanno fatto una legge per cui in ogni classe ci deve essere una presenza di stranieri non superiore al 30%. Le domande sforano abbondantemente questa cifra, visto che a Milano il 60% degli iscritti alle scuole media sono “stranieri”. La cosa sembra risolvibile però: un professore ha spiegato che sta passando una circolare del ministero dell’Istruzione: il tetto del 30% non riguarda gli stranieri nati in Italia. Ling, Adel e Mamadou sorridono: forse verranno considerati un po’ più italiani di prima.
e cosi facile da capire